Federica Marchetti - Carlo Cassola

Federica Marchetti – Carlo Cassola

Nel 2017 Carlo Cassola avrebbe compiuto 100 anni. Era nato a Roma il 17 marzo del 1917 e dopo tre mogli, una figlia, 27 romanzi, 82 racconti, 15 opere di saggistica in 43 anni di attività letteraria e una decina di premi letterari, il 29 gennaio del 1987 si è spento a quasi 70 anni a Montecarlo di Lucca per collasso cardiocircolatorio.

Maestro della narrativa essenziale, artista anticonformista e controcorrente, pagò a caro prezzo questa sua scelta libera e fu isolato e dimenticato, già in vita, persino dai suoi stessi colleghi scrittori.
Contestato e amato in vita, egli non è stato mai tramandato alle nuove generazioni. Occorre iniziare un processo di riscoperta e di rilettura delle sue opere iniziando con un approccio nuovo e libero dai pregiudizi, accettando in toto il suo messaggio che è passato attraverso una vera e propria epopea delle persone comuni: egli non racconta nessun eroe ed è scevro da intenzioni populistiche e demagogiche. Ma la sua riesumazione è resa quasi impossibile dalla difficile reperibilità delle sue opere non essendo state ristampate. La sua opera omnia va considerata come un unicum da ricostruire, rileggere e analizzare con uno spirito nuovo. Schivo e libero, Cassola ha partecipato al suo tempo riempendo uno spazio culturalmente vuoto con tutte le sue opere (maggiori e minori), accettando le sfide e le provocazioni e lasciando un’eredità che nessun autore ha ancora oggi raccolto. Di fatto, egli è un autore antico, nell’accezione positiva del termine: i luoghi, le metafore, le tematiche, i personaggi, le atmosfere e ancora il tratto essenziale, la passione genuina, la tensione, la spiritualità, le scelte: tutto si fonde nel passato con sfumature oniriche. In Cassola è presente un corollario che dimostra come l’autore non abbia mai accettato condizionamenti stilistici né concettuali.

Abbandonata la facile retorica sulla scarsa propensione alla lettura della maggior parte degli italiani (concentrati sulle ultime uscite meglio se straniere e sponsorizzate in televisione), Carlo Cassola merita un omaggio, anche solo per ripercorrere una carriera ispirata, e universale.

È stato scritto che se Carlo Cassola potesse essere riassunto in una parola, quest’ultima sarebbe “semplicità”. In netto contrasto con la sua complessa personalità, egli si è fatto cantore della quotidianità semplice, umile, essenziale. Fu accusato di facilità e questo fu il suo dramma perché lo ha ridotto a figurina laddove egli, pur con linguaggio semplice, è autore molto intenso. L’umiltà delle storie che racconta erano il suo grande progetto a cui, alla fine, si andò sostituendo il timore del destino del mondo. Egli raccontava gli umili perché proveniente dalla borghesia colta che gli

istillò il germe di un’irrisolta crisi esistenziale. Detestava gli intellettuali e si opponeva alle loro pose con la tanto vituperata semplicità. Subliminare, rigoroso, polemico, introverso, egli rimugina per tutta la vita e descrive bene i suoi tormenti del romanzo L’antagonista. E in lui tutto torna: i titoli (dai raccontini iniziali gli stessi diventano indimenticabili romanzi), i nomi (i tormentoni di Anna che attraversa tutta la sua produzione, e di Fausto, suo alterego), i luoghi (la provincia Toscana e, meno spesso, Roma), i temi (l’amore, l’amicizia, la libertà).

Cassola resterà indissolubilmente legato al destino dei ragazzi del 1917, la generazione che assiste a tutte le contraddizioni del ‘900. Sempre autonomo, mai conformista né narcisista, a suo modo ribelle, è sempre in lotta con gli altri ma soprattutto con se stesso, rifiuta l’arte di gruppo e si nutre di solitudine. Se all’apparenza si mostra schivo nel profondo è capace di grande infiammabilità. Il suo rapporto preferito è a due e l’amicizia di una vita con Manlio Cancogni lo dimostra (lo stesso scrisse del loro sodalizio nel romanzo Azorín e Mirò). Eppure la sua carriera letteraria è segnata da continui alti e bassi che lo accompagneranno fino alla fine dei suoi giorni così come gli scontri con gli intellettuali a lui contemporanei.

Il punto di non ritorno della vita di Cassola è legato a La ragazza di Bube (suo quarto romanzo che esce il 10 marzo del 1960) che gli aprirà uno scenario doppio e contraddittorio. A partire dallo scherzo shakespeariano organizzato da Pasolini la sera del 27 giugno del 1960, a pochi giorni dal Premio Strega che gli viene assegnato il 6 luglio successivo con 81 suffragi. Pasolini lo accusa di aver ucciso il Realismo e Cassola si ammala del complesso di un premio immeritato. Ma diventa uno scrittore celebre e La ragazza di Bube si trasforma in un bestseller, anzi un longseller così come alcuni dei romanzi successivi che vendono bene anche all’estero. Infatti grazie a questo successo commerciale egli può lasciare l’insegnamento e dedicarsi alla scrittura a tempo pieno. Ma nel 1963 arriva l’accusa da parte della neovanguardia di essere la “novella Liala” che lo scredita definitivamente di fronte alla classe intellettuale italiana. I detrattori hanno urlato più forte degli estimatori: Cassola sperimentatore, narratore, poeta del quotidiano è stato degradato a romanziere per signorine. Egli si chiude in se stesso, si fa diffidente e sempre più polemico. Pasolini, Calvino, Edoardo Sanguineti, Natalia Ginzburg, Pavese, Umberto Eco, tutti si sono fatti portavoce di insanabili fraintendimenti che non avranno mai fine. Cassola ha rigettato l’ideologia e le teorie estetiche e morirà prima di vedere il crollo di ogni valore nella civiltà occidentale del ‘900. Nel 1964 il romanzo diventa film di Luigi Comencini con Claudia Cardinale e George Chakiris e Cassola diventa ancora più celebre.

Dopo l’ubriacatura di La ragazza di Bube del 1960 Cassola torna indietro chiudendo per sempre la parentesi della resistenza (ma non dell’impegno che caratterizzerà la sua ultima fase creativa) e il romanzo del ritorno all’introspezione attraverso la lente della semplicità sarà Un cuore arido. È questa la sua vera identità letteraria ritrovata a ritroso nelle sue radici. Ritorna al suo maestro

(Joyce), ritorna alla sua Toscana rurale, alle sue donne essenziali, alla “poetica del sublimine” che aveva battezzato Cancogni negli anni ’30 (inaugurata nel racconto “La visita” del 1942), la cancellazione di ogni inutile orpello, la nascita di una vera e propria religione (che Cassola spiega nel Film dell’impossibile del 1942). E le donne di Cassola meritano un approfondimento. Nella sua anima elle dimorano in modo consistente, insistente e significativo tanto da diventare assolute protagoniste. Su di loro egli ha immense aspettative e investe quarant’anni di letteratura per raccontarne tutte le sfumature. Sa dipingerle come solo una donna saprebbe fare: in questa sua capacità introspettiva riesce a penetrare nella psicologia femminile svelando paure e speranze di una generazione di donne destinate all’oblio dalla grande letteratura dei suoi contemporanei. Eppure le femministe dei suoi tempi nel saggio I padri della fallocultura (scritto da Liliana Caruso e Bibi Tomasi) del 1974 lo accusano di aver descritto delle donne arbitrarie e ambigue e di aver imprigionato la figura femminile nel labirinto della passività e della ripetizione. L’atmosfera femminista smonta ogni stereotipo preesistente e Cassola è vittima dei suoi tempi. Egli rappresenta le donne degli anni ’30-’40 ancora vittime di una società patriarcale e bigotta che, intimorite dagli uomini, mal sopportavano l’eredità delle loro antenate ma ancora tentennavano nel trovare una loro giusta dimensione.

Un cuore arido è il suo indiscusso capolavoro. Uscito il 23 ottobre del 1961 per Einaudi è il ritorno alla felicità creativa e al sentimento dell’esistenza a cui Cassola dedica una nuova fase produttiva. La spontaneità e l’ispirazione segnano la rinascita e sono evidenti nella scrittura di getto che caratterizza il romanzo. È un ritorno alle origini a cui egli dedica la ripresa dei temi e dello stile delle prime opere “subliminari” quelle ingenue e sincere senza orpelli. Tutto parte dall’intuizione e dal ritorno alle origini per una storia che Cassola confessò essergli stata ispirata dalla visione di una donna seduta da sola sulla spiaggia di Marina di Grosseto. Il personaggio di Anna Cavorzio, indimenticabile protagonista del romanzo è quindi ispirata da una donna reale per la quale l’autore prova profonda riconoscenza. Se Flaubert confessò “Madame Bovary, c’est moi”, Cassola, che sembra confessarsi nel personaggio della protagonista, potrebbe dire la stessa cosa di Anna Cavorzio.

Chiusa la parentesi dell’impegno, con Un cuore arido Cassola ritrova dunque il suo passato. Lirico, solitario e nostalgico qui ripropone la lezione già affrontata nei racconti giovanili, Le amiche” del 1949 e “Rosa Gagliardi” del 1956: da questa angolazione Un cuore arido potrebbe essere considerato come preistoria delle antiche protagoniste. A differenza dei romanzi fabbricati (come Fausto e Anna e La ragazza di Bube) qui Cassola, animato dalla forza di quei primi scritti, supera lo schema narrativo naturalistico adottato finora e ritrova la sua immaginazione lasciandosi andare all’ebbrezza della scrittura. Iniziando dalla prima scena in cui la protagonista è seduta da sola sulla spiaggia realizza il romanzo più intenso della sua intera produzione. In tre mesi egli scrive di getto la storia assillato dalle correzioni e dalle revisioni.

La protagonista indiscussa, maestosa e indimenticabile del romanzo è il più bel personaggio femminile di Cassola: Anna Cavorzio, una diciottenne realistica alla quale l’autore attribuisce un nome (già usato abbondantemente: in ogni sua opera finisce per esserci una Anna) in armonia con la sua natura. Ella non sogna l’amore, pensa che se ne parli troppo e ha i piedi per terra. È padrona della sua vita, non si lascia condizionare dalle regole della società né dalle aspettative della famiglia ma decide da sé come comportarsi e capisce che la felicità dell’amore sta tutto nella sua attesa. La voce rauca, gli occhi verdi, i capelli bruni e “tagliati corti con la frangetta”, “la linea arcuata delle sopracciglia, ben modellato il naso, disegnate con nettezza e in rilievo le labbra”.

Cassola è stato autore di opere memorabili e significative, i suoi racconti lo hanno proiettato verso i grandi romanzi: Fausto e Anna (1952), La ragazza di Bube (1960), Un cuore arido (1961), Ferrovia locale (1968), Una relazione (1969), Paura e tristezza (1970), L’antagonista (1976), L’uomo e il cane (1977), Vita d’artista (1980) ma non tutti sanno che nella sua ampia e variegata produzione scandita dall’alternanza di esistenza e resistenza, Cassola ha scritto anche un romanzo poliziesco: L’amore tanto per fare (del 1981). Giallo sui generis, cerebrale, a tratti spassoso, infarcito di teorie politiche, con qualche accenno al terrorismo degli anni ‘70, il romanzo in realtà racconta un’indagine strampalata su un duplice omicidio che fin dall’inizio si vuol vedere scollegato e che procede in maniera quasi surreale. È il seguito di Monte Mario (romanzo del 1973) che ha per protagonisti il tenente dei Carabinieri Mario Varallo e Elena Raicevic che per un mese convivono come semplici coinquilini: l’uomo vorrebbe di più ma la donna dichiara di amarlo di un amore fraterno. Sono passati degli anni. Nell’Amore tanto per fare (da una frase usata da Elena per ritrarre i sentimenti del Varallo) accade di tutto. Teatro delle vicende è sempre l’appartamento dell’uomo situato nel quartiere di Monte Mario (che in entrambi i romanzi appare solo di sfuggita così come tutto lo sfondo capitolino). Il colonnello ha collezionato decine di amanti ma è incapace di amare e di provare qualsiasi interesse per le donne oltre quello fisico che consuma rapidamente ed ora ha una relazione con una donna sposata che quasi subito (nel II capitolo) viene uccisa nell’appartamento di Varallo. L’uomo non ha un alibi e il commissario Mario Vesce è sempre più convinto che sia lui il colpevole. Successivamente (nell’VIII capitolo) Elena viene trovata uccisa e qui il giallo diventa un po’ forzato. Varallo indaga parallelamente al commissario Vesce e di tanto i in tanto i due discutono degli omicidi cercando insieme piste e moventi. Il romanzo è scritto in puro “stile Cassola”, con un linguaggio semplice, diretto e schietto. Roma appare sbiadita, inesistente, urbana: Cassola non è mai andato via dalla sua amata provincia toscana e qui prova a spostarsi almeno con l’idea che però si struttura maggiormente sui personaggi e sulle loro motivazioni che in un giallo diventano moventi. Il doppio omicidio e l’indagine sono una scusa per scavare nell’animo umano da una prospettiva nuova (almeno per Cassola) e dipingere le peggiori intenzioni che sfociano nell’atto criminale. È la totale disfatta dei sentimenti, della società, delle buone intenzioni, delle illusioni: è l’ultimo Cassola, quello disilluso, antimilitarista, animalista, pacifista, che teme il disastro nucleare. L’intreccio poliziesco viene svelato solo a metà e ciò che è risolto arriva frettolosamente e con un evidente forzatura.

Alla fine della sua carriera, mentre la sua salute peggiora, Cassola scrive sempre di meno (per piccoli editori) e la sua ultima opera è databile 1985: qui egli resuscita quell’indimenticabile Anna Cavorzio di Un cuore arido (apparsa anche in Tempi memorabili del 1966 ma bambina) che nel lungo racconto Le persone contano più dei luoghi (edito da Pananti) ritorna come un congedo dell’autore verso il suo pubblico più caro.

Oggi Carlo Cassola sarebbe definitivamente dimenticato se non fosse per una parte della generazione nata negli anni ’50-’60 che lo ha letto, amato e tenuto nel cuore per tutta la vita. L’autore romano di nascita e toscano d’adozione ha raccontato il suo tempo mostrando la via dei buoni sentimenti ma anche delle illusioni perdute e della spietata e inevitabile consapevolezza che il mondo sarebbe andato verso una china buia e tempestosa.

(Federica Marchetti)