Gordiano Lupi - Il fico degli ottentotti

Gordiano Lupi – Il fico degli ottentotti

Il mare si arrampica sulle scogliere. Sciabolate di salmastro si abbattono sui volti esposti alla tempesta.

I sogni volano nel vento e par che dirigano la prua della nave. Quante di queste giornate sul mio mare ho trascorso prima di arrivare a perdere anche l’ultima speranza?

Il fico degli ottentotti mi guarda da lontano. Brilla come sempre sulla scarpata che conduce in spiaggia, ricopre dei suoi petali rossi tutto il dolcissimo declivio della mia vita.

I miei occhi seguono con lo sguardo la direzione del vento. Rincorro il cadenzato battito d’ali degli ultimi cormorani ritardatari, sino a quando non riesco più a distinguerli, confusi come sono nel nero abbandono di un solitario divenire. Dipingo un fondale di stelle cosparso di scogli remoti su antichi sentieri di mare. Compongo parole che ripetono lontanissime solitudini sulla riva di un’isola lontana. Il passato è duro a morire ed anche raccoglierne i cocci fa male al cuore. Mi ritrovo su di un biliardo irreale a giocare un’assurda partita a carambola con la memoria.

Domani cosa sarà di me?” Mi domando mentre la luce lontanissima di un aereo sorvola il manto di stelle lucenti.

Potrò fuggire lontano? Potrò ricominciare da capo?”

Avevo perduto anche l’ultima battaglia ed un’ulteriore sconfitta faceva bella mostra di sé nella collezione dei ricordi. Era più che mai necessario non perdere la guerra, facendosi prendere dall’ingranaggio perverso delle cose che avevano cominciato a non girare per il verso giusto.

Il meccanismo irreversibile delle cadute verticali poteva condizionare tutto, fino a stritolarmi e non farmi più rialzare la testa. Non dovevo perdere la guerra, questa era l’unica cosa che contava.

La foto della mia bambina comparve dalla tasca del portafoglio, dove la tenevo riposta tra le cose più care.

Emozioni lontane si confusero al vento di libeccio.

Il fico degli ottentotti…come lo guardava estasiata e come piangeva quando le dicevo di non coglierlo, perché sarebbe appassito in una casa, era un fiore di scogliera, libero come il vento, che frange inclemente la costa, refrattario ad un padrone come un animale selvaggio, compagno solamente della sua solitudine e dei voli dei gabbiani.

Adesso te lo porterei su di una stella piccola mia, ma non posso.” E le lacrime caddero sulle onde di quel mare in tempesta, confondendosi con il dolore del mio cuore che avrebbe voluto gridare al mondo tutta la sua pena.

Me l’ero vista sfuggire dalle mani come un soffio di vento che non può essere catturato ed io gridavo con forza ai miei assistenti: “Bisturi!” “Pinze!” “Garza!” “La perdiamo…la perdiamo…la perdiamo…”

Quelle ultime frasi di terrore mi tornavano alla memoria con frastuono d’onde. L’avevo perduta e pareva che sorridesse da lontano con un ultimo sguardo confuso nei miei occhi impauriti.

Sapevo che non potevo fare di meglio, sentivo che avevo dato il cuore per salvarla, ma mi rimproveravo ugualmente di non aver cercato di osare l’impossibile.

Era stato un errore anche aver provato, non dovevo farlo, dovevo lasciare che fossero altri ad occuparsi di lei, del mio unico perduto amore che adesso salutava da lontano.

Il fico degli ottentotti brillava con il suo colore vermiglio sulla sua tomba in quella giornata di vento, in quel cimitero di mare, con la testa perduta dietro pensieri e voli di gabbiani, con il cuore in tempesta che assaporava i profumi delle scogliere e delle tamerici salmastre.

La mia bambina l’avrebbe preso tra le mani e assaporato a lungo, avrebbe voluto farne un vezzo per la sua camicetta, l’avrebbe portato con sé a scuola per farlo vedere alla maestra.

Avrebbe pianto vedendolo appassire, così come io piango ricordando il suo sorriso e le corse sfrenate sulle scogliere, quando il terrore che il suo cuore malato frenasse su quelle brusche discese mi prendeva l’anima e non mi lasciava libero di pensare ad altro.

Oggi mi ritrovo più solo a pensare al passato.

Ricordo un sorriso e con esso cavalco la mia solitudine gettandomi nell’infinito. Non so se sarò ancora capace di operare. Non so se vorrò ancora farlo. Per il momento è già abbastanza duro vivere e lasciare che i giorni sovrappongano la loro consuetudine al suono di canzoni d’amore lontane. Nel vento di libeccio inclemente che spazza la scogliera vado a raccogliere quel fiore dal rosso colore per portarlo anche domani in dono alla mia bambina.

Gordiano Lupi

foto da: https://www.giglionews.it/2019/10/05/non-estirpate-il-fico-degli-ottentotti/