La pantera -Silvia Mazzocchi

La pantera -Silvia Mazzocchi

Tuffi vorticosi in un passato che sembra così remoto che oggi fa quasi paura ricordarlo, specie dopo gli ultimi episodi davanti ai licei di Firenze, come nulla fosse. Una leggerezza che non era mai tale, e se lo era ci pensavano i collettivi a tirarti giù per terra. O forse è come dice Silvia: quel bicchierino di plastica, la paglia fumata assieme, l’occhio nell’occhio, mica sullo smartphone. Tutto solo in apparenza a portata di mano.

La pantera

La pantera era stata catturata ed era rientrata nella sua gabbia, noi nella nostra. La nostra gabbia era l’aula, disertata per quasi mese e sostituita dai materassini verdi della palestra. Se chiudo gli occhi, ancora oggi mi sembra di sentirne l’odore, quell’aroma di sudore un po’ stantio misto a plastica. Ho trascorso pomeriggi interi sdraiata là sopra, bevendo l’orrendo caffè della macchinetta automatica in corridoio. Nemmeno mi piaceva a quei tempi, lo macchiavo con qualunque cosa, ci mettevo così tanto zucchero che solo al pensiero mi viene la nausea. Mi piaceva il gesto di “bere il caffè”, mi faceva sentire grande. Come grande mi facevano sentire quelle dannate Marlboro Rosse e quel vizio di fumare, che oggi maledico. Oltre al vizio del fumo, non riesco proprio a scrollarmi di dosso la sensazione di inaspettata libertà respirata in quelle tre settimane di occupazione studentesca.

Giorni strani quelli dell’inverno del 1990, pomeriggi infiniti che ci scivolano addosso come vecchi maglioni sformati; mattinate indolenti in cui me ne stavo buttata per ore sui materassini verdi, con un bicchierino di caffè tra le mani ad ascoltare, quando i discorsi seri degli studenti “impegnati”, quando le canzoni strimpellate da qualcuno che si vantava di “saper suonare la chitarra”. La ribellione e le battaglie studentesche non le capivo granché, non sapevo nemmeno per cosa lottavo, ma lottavo tanto. Lottavo motivi giusti e di fondamentale importanza per il nostro futuro. Motivi così giusti che adesso, neppure li ricordo. Ricordo bene mio babbo, che storceva la bocca di fronte alla mia perenne assenza da casa e mi accusava di voler emulare il 68. Quanto aveva ragione! Io avrei davvero voluto vivere in quegli anni, per me il 68 erano i Jeans a campana, le scarpe con la zeppa, capelli lunghi con la divisa in mezzo, collanine di mille colori e libertà da respirare a pieni polmoni.

Di quelle giornate di “non tempo”, mi arrivano solo dei flash, schegge impazzite si rincorrono nel mio cervello e mi fanno provare una nostalgia struggente per quell’età in cui la vita era una tela bianca da imbrattare. La Smemoranda gonfia di fotografie e adesivi, gli anfibi consumati, i capelli gonfi di permanente che mi facevano sembrare un leone infeltrito, lo zaino dell’Invicta abbandonato in un angolo della palestra, sembrava dirmi di godermi ogni secondo di quella gioventù che avrei rimpianto tutta la vita. Ma più di tutto, se chiudo gli occhi vedo lui. Il più bello della scuola, lui e i suoi occhi neri che mi scavavano dentro le viscere. Nemmeno sapeva come mi chiamavo, per me invece esisteva solo lui. Masticavo gelosia vedendolo fare lo scemo con altre ragazze più carine di me, le conquistava tutte e le baciava sdraiato sui materassi verdi. Non mi ha mai notato e come tutti i primi grandi amori si è dissolto in una bolla di sapone, ma questo non lo rende meno importante. Non lo rende meno vero. Dell’OKKUPAZIONE della Pantera vorrei ricordare tante cose: vorrei raccontare il perché di quella lotta studentesca, vorrei parlare delle discussioni sulla politica, della legge Ruberti e delle prime università occupate a Palermo, mentirei se dicessi di ricordarle davvero.

Di quelle settimane di occupazione mi restano solo una manciata di ricordi: sono custoditi dentro un bicchierino di plastica con un rimasuglio di caffè troppo zuccherato e una Marlboro spenta a metà. Hanno l’odore dei materassini verdi e il sapore del tempo perduto in cui tutto, sembrava a portata di mano.

Silvia Mazzocchi