Louise Glück, fiori da Premio Nobel

Campi. Profumo d’erba alta appena tagliata.

Come ci si aspetterebbe da un poeta lirico.

Guardiamo il mondo una volta, da bambini.

Il resto è memoria.

Da Nostos, Meadowland (1996)

Il Nobel per la Letteratura 2020 è stato assegnato alla poetessa statunitense Louise Elisabeth Glück (che si legge “Glìk”), per “la sua inconfondibile voce poetica che con austera bellezza rende universale l’esistenza individuale”. Nata a New York nel 1943, in una famiglia di ebrei di origine ungherese, Louise Glück ha pubblicato finora dodici raccolte di poesia e alcuni saggi. Insegna poesia all’Università di Yale. Il conferimento del premio a un’autrice poco nota al di fuori degli Stati Uniti ha sollevato un intenso dibattito nel mondo letterario, fra chi riconosce l’eccellenza della produzione letteraria della Glück e chi invece la ritiene una voce marginale della letteratura internazionale, troppo lontana da temi civili come il cambiamento climatico, le disuguaglianze sociali, i conflitti o le migrazioni. Di certo la poetessa ha un canto limpido e profondo, che trae ispirazione dalla natura, in cui il suo animo si rispecchia e ci invita a riflettere sul significato dell’esistenza, così temporanea e ferita, così breve preludio alla morte. Prima del Nobel, la Glück aveva già ricevuto alcuni dei più importanti riconoscimenti, fra cui il Premio Pulitzer nel 1993 (per Wild Iris), il National Book Award nel 2014 (per Faithful and Virtuous Night) e l’onorificenza di Poet Laureate nel 2003. Fin da bambina, Louise mise in evidenza un notevole talento letterario, per la gioia del padre Daniel, imprenditore di successo che aveva tuttavia sognato di diventare uno scrittore, e della madre Beatrice, laureata in francese, profondamente innamorata della poesia classica e della mitologia greca. Fu proprio la madre ad avvicinare Louise all’arte di scrivere in versi. Con ispirazione, ma senza rinunciare a semplicità e nitidezza, come Saffo, Alceo, Anacreonte o Alcmane. Su quelle basi – e sull’ammirazione spontanea verso i canti di Emily Dickinson – che definivano il lavoro del poeta quale ricerca della bellezza, si formò l’arte di Louise Glück, dietro la cui solennità à vi è la dignità senza tempo del mito; dietro i cui dubbi vi è la continua esperienza del dolore, della precarietà e della perdita; dietro la cui rete di rimembranze vi è ancora l’itinerario di una navigazione mitica, alla ricerca di un’isola sicura nella tempesta del vivere. Durante l’adolescenza, la Glück manifestò importanti disturbi d’ansia, che culminarono in anoressia nervosa e depressione. Nel corso dell’ultimo anno alla George W. Hewlett High School di Hewlett, New York, entrò in analisi, un percorso che durò sette anni. “L’analisi è stata una delle esperienze più importanti della mia vita,” affermò in seguito la poetessa, che attribuiva alla terapia non solo il merito di averle salvato la vita, ma anche quello di averle ampliato gli orizzonti del pensiero. Durante la malattia anoressica infatti, si dedicava principalmente e non senza nevrosi a inseguire la forma. Il procedimento dell’analisi, al contrario, le si rivelava come una strada in direzione opposta, in cui è la mente a condurre l’ispirazione secondo principi astratti e immutevoli, consentendole di esplorare nuovi modi di indagare le cose attraverso lo strumento poetico. In quegli anni perfezionò la sua arte con i poeti Léonie Adams e Stanley Kunitz, conosciuti alla Columbia University. Contemporaneamente rivolse la sua attenzione all’Obiettivismo e in particolare all’opera di George Oppen, studiando e analizzando i versi dei poeti che avevano ispirato il movimento: Ezra Pound e William Carlos Williams. Dopo aver abbandonato la Columbia, senza laurearsi, e dopo un matrimonio infelice, seguito da un divorzio repentino, la poetessa pubblicò le sue prime raccolte di poesia, Firstborn (1968) e The House on Marshland (1975). Quest’ultima riscosse notevole attenzione nell’ambiente letterario. La critica Rosanna Warren scrisse, a proposito della raccolta, che “la caratteristica di Louise Glück è quella di distanziare l’io lirico quale soggetto e contemporaneamente oggetto di attenzione, imponendo una disciplina di distacco nei confronti del materiale impellentemente soggettivo”. Dopo un nuovo matrimonio e dopo aver aver dato alla luce un figlio, Noah, Louise pubblicò nel 1980 Descending Figure. Sempre quell’anno un incendio devastò la sua casa nel Vermont, distruggendo tutti i suoi beni e ricordi. Un dramma che accrebbe in lei il senso di impermanenza delle cose nel mondo e la necessità di affidarsi a qualcosa di durevole, fisso nella mente e nella coscienza, come il mito. Nacque così la raccolta The Triumph of Achilles (1985), lodata dalla critica per la sua chiarezza, la sua purezza, il suo splendore atemporale. Qualità che non abbandoneranno più la poesia della Glück. La lirica Mock Orange, che successivamente rientrerà in numerose antologie e nel programma di decine di corsi universitari, venne accolta dal movimento femminista come un vero e proprio inno civile. Lo stesso anno morì il padre di Louise, Daniel. Una perdita che le procurò un dolore insanabile, riversato nella raccolta Ararat (1990), caratterizzata da versi autobiografici che rendono universali i sentimenti di perdita, nostalgia e dolore. Due anni dopo la poetessa pubblicò The Wild Iris, con cui vinse il Premio Pulitzer. È forse il suo capolavoro ed è la silloge in cui si mostra con più evidenza la discendenza dell’arte di Louise Glück da quella di Emily Dickinson. Come la “musa di Amherst”, la poetessa newyorkese sostituisce alle figure divine della mitologia classica la simbologia legata ai fiori selvatici, che rappresentano la vita umana nel suo germogliare, fiorire e appassire. La Dickinson curava con devozione il giardino di casa ed è lo stesso giardino mitico in cui Louise cerca la propria ispirazione. Tradurre le poesie di Wild Iris riconduce alle figure retoriche della Dickinson, alla sua voce, al suo canto che è sì inimitabile, ma contemporaneamente fonte di ispirazione, da tanti anni, per i poeti. I temi sono gli stessi: la natura selvatica e quella umana, la brevità della vita, l’incombenza del dolore e della perdita, l’ineluttabilità della morte. Ogni ora del giorno, una luce diversa della vita, fino al tramonto. Ecco un verso della Dickinson in cui la Glück può tranquillamente riconoscersi:

Essere un fiore, è profonda responsabilità.

Dopo aver dato alle stampe nel 1994 i suoi saggi sulla poesia, Louise Glück ha pubblicato le raccolte Meadowlands (1996), Vita Nova (1999) e The Seven Ages (2001). Nel 2003 è nominata Poet Laureate degli Stati Uniti. L’anno successivo pubblica October, un poema che manifesta il suo sgomento per gli attacchi terroristici dell’11 settembre. La forma scelta è quella del mito, il suo scudo letterario contro il sentimento di disperazione. Seguono le raccolte Averno (2006), A Village Life (2009), l’antologia Poems: 1962-2012 (2012) e Faithful and Virtuous Night (2014). Per quest’ultimo, riceve il prestigioso National Book Award per la poesia. Ed ecco, nel 2020, un anno di particolare ansia e precarietà per l’intero pianeta, il Premio Nobel per la Letteratura. Con un po’ di romanticismo, uscendo dal coro di chi ritiene che i premi Nobel siano assegnati solo in base a giochi di potere e interessi particolari, potremmo dire che l’Accademia Svedese l’ha preferita a tanti autorevoli candidati proprio perché i suoi versi, i fiori del suo giardino, mostrano la nostra vulnerabilità, la nostra insicurezza di fronte a ciò che ci è ignoto e ci sovrasta. Il nostro bisogno di eroi che ci guidino durante la navigazione attraverso luoghi e mari dominati dal Mito, perché in loro assenza, ci attenderebbe solo un calmo annientamento.

Roberto Malini

Non sono mai sola, pensa,

perché trasformo il pensiero in una preghiera.

Poi appare la morte, come risposta alla preghiera.

TRE POESIE DI LOUISE GLÜCK TRADOTTE DA ROBERTO MALINI

L’iris selvatico

In fondo al mio dolore

c’era una porta.

Ascoltami: colei che chiami morte,

io la ricordo.

Rumori in alto, fronde del pino che si muovono.

Poi nulla. Il sole pallido

sussultò sul manto asciutto.

È terribile sopravvivere

come coscienza

sepolti nella terra oscura.

Quindi tutto finì: ciò che paventi, essere

un’anima e non riuscire

a parlare, finì di colpo; la terra dura

si incurvò un poco. E quelli che sembravano

uccelli si infilzarono nelle siepi basse.

Tu che non hai memoria

di passaggi dall’altro mondo,

ti dico che potrei parlare ancora: ogni cosa

ritorna dall’oblio, ritorna

per trovare una voce:

dal centro della mia vita è uscita

una grande fontana, profonde

ombre blu sull’azzurro del mare.

Le migrazioni notturne

Questo è il momento in cui rivedi

le bacche rosse del sorbo montano

e nel cielo scuro

le migrazioni notturne degli uccelli.

Mi fa male pensare

che i morti non le vedranno;

queste cose che ci danno conforto

si dissolvono.

Cosa farà l’anima per consolarsi allora?

Mi dico che forse non le serviranno

tali piaceri;

forse solo non essere le basterà,

anche se è arduo da immaginare.

Il passato

Una piccola luce si accende in cielo,

improvvisamente tra

due rami di pino, i loro aghi sottili

ora sono incisi sulla superficie radiante

e soprattutto in alto,

sul piumato paradiso.

Senti il profumo dell’aria. Sa di pino bianco,

più intenso quando il vento lo attraversa

e il suono è strano nello stesso modo

di quello del vento nei film.

Le ombre si muovono. Le corde

fanno il suono che fanno. Quello che ora senti

sarà il canto dell’usignolo cordato,

del maschio che corteggia la femmina.

Le corde si spostano. L’amaca

ondeggia al vento,

legata saldamente ai tronchi di due pini.

Senti il profumo dell’aria. Sa di pino bianco.

Quella che senti, è la voce di mia madre

o è solo il suono che producono gli alberi

quando l’aria li attraversa,

perché quale sarebbe il suo suono

se attraversasse il nulla?

Nelle foto, un ritratto fotografico di Louise Glück; la poetessa riceve dalle mani del presidente Obama la Medaglia delle Arti, nel 2016; il Premio Nobel per la Letteratura 2020 con la mascherina, in questo periodo caratterizzato dalla minaccia del Covid