Luca Palmarini – La fine di piccoli mondi: un viaggio nel passato tra Polonia e Romania

Associare la parola fine ai paesi dell’Europa centro-orientale ci riporta immediatamente alla caduta delle Repubbliche Popolari e della Cortina di ferro. In realtà, per tutto il Secolo breve questa parte d’Europa, più che altrove, è stata costellata da eventi che spesso hanno sancito una fine. Così assistiamo alla fine dell’Austria felix, delle monarchie, poi quella delle Repubbliche, la fine della guerra e del nazifascismo a cui, purtroppo, segue la fine della libertà con l’instaurazione dei regimi comunisti. Le dittature nazifasciste con l’attuazione dello sterminio e quelle comuniste con le deportazioni hanno messo fine a buona parte della multiculturalità di questi Paesi. A loro volta, gli stessi regimi comunisti, dopo anni di autoritarismo e politiche fallimentari, sono implosi uno dopo l’altro sotto i colpi delle proteste di piazza, decretando così, nel giro di pochi mesi, la fine del socialismo reale in Europa.

In tutto questo c’è stata anche la fine di diverse città, come si presentavano fino a quel momento. Spesso gli antichi centri urbani sono scomparsi sotto i bombardamenti, oppure, successivamente, anche in seguito alle dottrine architettoniche del socialismo, le quali, in alcuni casi invece di una ricostruzione secondo il concetto di “dov’era e com’era”, proponevano una città nuova e moderna; in altri, invece, si mirava a cancellare la passata presenza tedesca. Non solo: ci fu anche la fine di alcune città, intesa come conclusione dell’appartenenza a uno Stato e quindi di punto di riferimento per una data cultura. Ciò fu dovuto a un ricambio degli abitanti, avvenuto dapprima attraverso lo sterminio della comunità ebraica, successivamente con l’espulsione della maggior parte dei tedeschi dall’Europa centro-orientale verso la ridimensionata (e divisa) Germania, le deportazioni sovietiche nella parte asiatica dell’URSS e i rimpatri forzati tra i vari stati del blocco orientali dopo che erano stati stabiliti i nuovi confini.

Ecco allora che fin da subito mi vengono in mente Vilna e Leopoli, due città che nel 1945 passarono rispettivamente alle Repubbliche sovietiche di Lituania e Ucraina. Prima del secondo conflitto mondiale entrambe erano appartenute alla Polonia ed erano abitate in maggioranzada polacchi e da ebrei. Queste città erano state i due principali punti di riferimento culturali dei territori orientali polacchi, i Kresy, caratterizzati da una forte multiculturalità e spazzati via dal nuovo assetto mondiale deciso a Yalta. Si trattava di due città storicamente dai diversi nomi: Leopoli era Lwów per i polacchi, Levov in ebraico e Lemberg in yiddish e in tedesco, Iwow per gli armeni, L’vov per i russi, Lviv per gli ucraini. Più a nord, invece, c’era Vilna per i russi, Wilno per i polacchi, Vilne per gli ebrei, Vilnius per i lituani, Wilna per i tedeschi.

Cartolina di Leopoli

La guerra e il passaggio all’Unione Sovietica decretarono la fine delle “città dai diversi nomi”, della loro multiculturalità. L’abbandono forzato da parte di centinaia di migliaia di polacchi, costretti a ricominciare da capo in una nuova Polonia, ha avuto come effetto una sorta di cristallizzazione della memoria riguardante le città da cui provenivano. Nell’immaginario collettivo polacco Vilna e Leopoli vengono narrate attraverso la memoria letteraria di artisti e scrittori sempre alla ricerca di quella patria perduta, della sua idealizzazione. Era la fine di Vilna e Leopoli come città fisicamente polacche, che, però, continuavano a vivere, nella loro inafferrabilità, come mito letterario. Ecco allora le narrazioni di Czesław Miłosz e della sua terra natale, sospesa tra le nebbie e i fiumi della Lituania e della Polonia, quelle di Adam Zagajewski che, pur definendo le due città santuari polacchi al di fuori della Polonia stessa, allo stesso tempo riteneva fosse meglio non andarci per cercare il passato, perché una consapevolezza pragmatica della fine, concretizzatasi in loco, avrebbe innescato una forte sensazione di estraneità, infliggendo al visitatore ancor più dolore.

Allora era meglio sognarle quelle città, oppure immortalarle in una sorta di “fotografia scritta”, o ancora immaginarle in quei contesti multiculturali che le avevano caratterizzate nel passato, come il Granducato di Lituania per Vilna e la Galizia austro-ungarica per Leopoli. Infatti, lo stesso Miłosz scriveva che per molti polacchi come lui si poteva ritrovare la vera patria solo rivangando il passato, mentre il presente veniva vissuto come un esilio.

Cartolina di Vilna

Questo mito letterario non si limita alle due grandi città, ma si sviluppa anche nei centri minori: allora mi sovviene Drohobycz, città natale di Bruno Schulz, grande autore polacco di origine ebraica. Schulz descrive e disegna magistralmente questa piccola città dagli accenti galiziani: ci narra della facciata della sinagoga, screpolata come il volto rugoso di una donna anziana, oppure della danza gioiosa di farfalle bianche, come se partecipassero a un matrimonio ebraico. È soprattutto grazie all’opera letteraria e ai disegni di Schulz che Drohobycz è diventata un mito letterario. Oggi la città è in Ucraina (Drohobych), le comunità polacca ed ebraica appartengono ormai al passato, ma il dualismo ebraico-polacco delle opere di Schulz ci trasmette l’immagine di una città avvolta dalla nebbia dal tempo. Ci sembra quasi immutata.

Anche per i tedeschi espulsi dai territori ceduti alla Polonia così come dai vari stati dell’Europa centro-orientale si stava creando una situazione in parte analoga. Breslavia (oggi Wrocław), Königsberg (oggi Kaliningrad), Stettino (oggi Szczecin) e diverse altre città minori erano ormai perdute. Nasceva così il mito dell’Heimat, della piccola patria perduta. Anche da parte tedesca si attuava la cristallizzazione della memoria di quei microcosmi; attraverso la letteratura se ne preservava un ricordo malinconico e sofferente. Finiva quindi Breslau, ma dall’altra parte nasceva Wrocław, la Breslavia polacca, figlia di quei polacchi giunti da est a ripopolare la città, prendendo il posto dei tedeschi, a ricostruirla dopo le distruzioni della guerra. Tutto ciò mentre si provava a mantenere un legame ultraterreno con quella Polonia orientale perduta. Allora si arrivò persino a trasferire da Leopoli un monumento e a posizionarlo nella piazza centrale di Breslavia, mentre in alcuni bar del capoluogo bassoslesiano campeggiava la scritta “ni ma jak we Lwowie”, ‘non c’è un posto in cui ci si possa sentire come a Leopoli’.

Sono passati più di settant’anni da quel doloroso cambiamento: le nuove generazioni, oltre ad essere nate in una democrazia, non sono più contraddistinte da quel senso di estraneità che avevano i loro nonni quando si trovarono ad abitare in una città ancora tedesca. Oggi gli scrittori nati da queste parti, polacchi, cercano le loro ispirazioni anche nel passato germanico di queste regioni. Per fortuna il tempo del dolore e dell’inimicizia è finito. Così abbiamo i gialli di Marek Krajewski, ambientati nella Breslavia tedesca, oppure quelli di Tomasz Duszyński che si svolgono nella cittadina di Glatz in Germania orientale, mentre oggi è Kłodzko e si trova in Polonia occidentale.

Poi c’erano le due Parigi dell’Est. Così venivano infatti chiamate Varsavia e Bucarest ancora nel periodo tra le due guerre. Il riferimento era all’eleganza dei viali delle due capitali, alla loro fervente attività culturale; Le Parigi dell’altra Europa, così le definisce Błażej Brzostek nel suo libro dall’omonimo titolo. Cosa accomuna questi due capitali così diverse tra loro? La fine della loro urbanistica ottocentesca, la scomparsa della maggior parte dei palazzi che richiamavano alla Belle Époque con gli stili eclettico, liberty e poi il modernismo.

Varsavia, via Marszałkowska

Varsavia, quasi completamente distrutta dai bombardamenti della Seconda Guerra mondiale, fu ricostruita già nei primi anni del dopoguerra. Si trattò soprattutto della ricostruzione del centro storico più antico, sei- e settecentesco, a espressione della Varsavia capitale opulenta, tra barocco e neoclassicismo, mentre la parte otto-novecentesca (a parte sporadici segmenti risparmiati dalle bombe), già allora vero centro della città, fu ricostruita per buona parte negli stili classicismo socialista e modernismo socialista. La rimozione delle macerie e l’abbattimento di edifici danneggiati dalle bombe permisero la creazione di uno spazio urbano in cui venne deciso di realizzare Pałac Kultury, il Palazzo della Cultura, simbolo dell’architettura tipica del periodo staliniano. Si trattava dell’espressione della nuova era, quella del trionfo del socialismo; allo stesso tempo il palazzo simboleggiava la fine della civiltà borghese. Questo stile avrebbe dovuto caratterizzare buona parte della città, senonché, nel 1956, con la destalinizzazione, lo si abbandonò per ripiegare a un modernismo in chiave socialista, stile meno monumentale, ma più pratico ed economico.

Il Palazzo della Cultura a Varsavia ai giorni nostri

Bucarest, invece ̶ e qui volo in Romania, paese che tra le due guerre confinava con la Polonia, fatto che ci fa comprendere quali cambiamenti sono avvenuti ̶ ebbe una storia in parte diversa, ma, purtroppo, con un risultato quasi analogo: il centro città, già seriamente danneggiato dai bombardamenti alleati durante il secondo conflitto mondiale, nel 1977 venne sconvolto da un terremoto. Quel giorno andarono distrutti 33 grandi palazzi realizzati prima della guerra. Purtroppo non fu la fine delle distruzioni. Infatti, il sisma fu anche il pretesto da parte del dittatore Nicolae Ceaușescu per ordinare l’abbattimento di più di un terzo degli abitati del centro storico, al fine di realizzare una zona abitativa Centrul Civic, realizzata in stile neo-stalinista. Leggenda vuole che il Genio dei Carpazi fosse rimasto affascinato dall’architettura di Pyongyang durante una sua visita ufficiale. Il centro storico di Bucarest fu letteralmente “arato”, per far posto a un lungo viale, oggi chiamato dell’Unità. Questo solco venne successivamente costellato di palazzoni in stile socialista. Alla fine del viale trovò posto Casa Poporului, la Casa del Popolo, un gigantesco edificio, espressione materiale della megalomania di un folle dittatore. Sia il Palazzo di Varsavia che quello di Bucarest, seppur in periodi diversi, miravano a simboleggiare una nuova era. Le autorità che avevano deciso la loro costruzione, però, non si preoccuparono minimamente del fatto che stavano ponendo fine a due storici tessuti urbani, sostituiti da edifici che oltre alla loro grandezza sottolineavano la desolazione circostante.

la Casa del Popolo a Bucarest, oggi sede del Parlamento rumeno

Tutto questo scempio in tre atti cancellò buona parte di quella Bucarest degli anni Venti, narrata ad esempio nel romanzo Duemila anni, di Mihail Sebastian. Si trattava in realtà di una Romania tutt’altro che ideale, poiché caratterizzata da un forte antisemitismo, ma gli ebrei costituivano una parte importante della vita culturale del Paese.

Passeggiando lungo il viale, che nelle idee di Ceaușescu e della sua cricca avrebbe dovuto costituire gli Champs-Élysées di Bucarest, si arriva al palazzo che da espressione materiale della dittatura è diventato il simbolo della sua fine. La Casa del Popolo in realtà con il popolo aveva solo in comune il fatto che fu quest’ultimo a costruirlo: ventimila operai, a turno e in condizioni spesso disumane, lo tirarono su in cinque anni. Fu una vera sorpresa quando poco dopo la rivoluzione il palazzo venne reso accessibile ai cittadini rumeni che, da anni ridotti alla fame, ebbero modo di osservare i marmi e le decorazioni opulente degli interni.

Ma i folli piani di Ceaușescu hanno radici ben più lontane. Già negli anni Sessanta, la furia distruttrice dei comunisti rumeni si era manifestata in diversi centri urbani ad est dei Carpazi, parte del Paese in cui le città erano di stampo prettamente più agricolo rispetto a quelle dei territori occidentali. Fu così che venne decretata la fine di vari segmenti di centri storici come quello di Suceava, Bacău e altri, le cui abitazioni vennero per la maggior parte rase al suolo per far posto a condomini di regime, qui chiamati bloc. Lo scrittore Costantin Mateescu, vedendo la sua città natale in rovina tra macerie e buldozer, definì la scena uno spettacolo apocalittico: tutta la sua infanzia e giovinezza erano state sepolte sotto quelle antiche case demolite. Per molti fu la fine forzata di diversi mondi contadini sottoposti a industrializzazione e collettivizzazione forzate. Le conseguenze le possiamo osservare ancora oggi.

E poi c’è Scorniceşti, la città natale del Conducător, che, diventata feudo della famiglia Ceaușescu e di quella della moglie Elena, per orgoglio personale venne trasformata da borgo rurale a cittadina industriale. Durante il comunismo c’era tutto a Scorniceşti: c’erano le fabbriche, i negozi erano pieni di prodotti alimentari, si poteva trovare persino la Pepsi Cola, mentre in diversi quartieri di Bucarest si continuava a soffrire la fame. Una volta, all’ultima di campionato, la locale squadra, il Viitorul Scorniceşti, di proprietà della famiglia del dittatore, per essere promossa in massima serie doveva vincere l’incontro con alcuni gol di scarto. La partita terminò 18 a zero per i padroni di casa… Era il 1979. In seguito in questa cittadina che contava meno di 10.000 abitanti venne persino realizzato uno stadio con una capienza di 20.000 spettatori… Poi anche su Scorniceşti soffiò il vento del cambiamento che qui, purtroppo, si manifestò tramite devastazione e abbandono: fu la fine delle ricchezze della città e l’inizio di una misera desolazione.

Nonostante la caduta dei regimi comunisti, il Palazzo di Varsavia e quello di Bucarest sono ancora lì. Si è pensato diverse volte di abbatterli, di porre fine a quell’ingombrante presenza architettonica (e psicologica), ma ciò non è mai avvenuto. Per quello di Bucarest costò meno portarlo a termine che abbatterlo. Nel frattempo, le due strutture sono inevitabilmente diventate dei soggetti letterari. Da parte polacca basti solo pensare al protagonista del romanzo Piccola apocalisse di Tadeusz Konwicki e al suo stato di alienazione dovuto all’ossessiva presenza del Palazzo che ha sconvolto l’assetto urbanistico della città, ma anche le menti dei suoi abitanti.

Ho voluto qui proporre alcuni luoghi che per molte persone dell’Europa centro-orientale hanno simboleggiato la fine di qualcosa e poi un nuovo inizio. Chiaramente, ce ne sarebbero tanti altri da narrare (basti pensare alla Cecoslovacchia tra le due guerre o all’ex Jugoslavia), spero vivamente di poterlo fare in altre occasioni.

Spesso la fine pressuppone un nuovo inizio, altre volte non potendo mutare gli eventi, l’essere umano prova, attraverso le varie capacità artistiche che Dio gli ha donato, a immortalare quel mondo perduto di cui ci si sentiva parte. Soltanto così quel luogo è stato salvato dall’oblìo: infatti, solo assurgendo a mondo ideale, in un certo qual modo esso si è contrapposto alla sua fine materiale.