Marialaura Faitini - Intervista a Enrico Terrinoni, traduttore di Joyce

Marialaura Faitini – Intervista a Enrico Terrinoni, traduttore di Joyce

La mostruosa creazione joyciana, Finnegans Wake, capolavoro febbrile ed ermetico del maestro visionario è ora tradotta integralmente in italiano.

Intervista a uno dei traduttori che hanno deciso di ri-creare un libro-sogno, alchimia di lingue e suoni, con una traduzione a quattro mani.

Vedrà la luce nel 2019, per la prima volta in Italia, la traduzione del IV e ultimo volume del Finnegans Wake, opera convulsa e magmatica della letteratura novecentesca lasciataci dal maestro Joyce e definita intraducibile tanto dalla critica stanca di decifrare le sue acrobazie letterarie, quanto dai lettori oramai rassegnati.

Non è uno ma sono due i traduttori che hanno condiviso la stessa visione di portare a termine la ‘straduzione’ dei volumi III e IV dell’opera letteraria da capogiro: Enrico Terrinoni, esperto joyciano, ordinario di letteratura inglese all’Università per Stranieri di Perugia, autore di una traduzione dell’Ulisse, premio Napoli per la Lingua e la Cultura italiana 2012 e Fabio Pedone, traduttore, critico, giornalista e consulente editoriale. La loro non è una semplice traduzione, bensì una ricreazione dell’opera con la massima creatività e libertà espressiva perché per tradurre un libro-sogno di giochi letterari, è servito ben altro che un lavoro di traduzione.

Finnegans Wakenon è esattamente un libro, Finnegans Wakeè una galassia e a dir poco labirintica di suoni, una cinquantina di lingue tra cui il gaelico e i dialetti italiani, ideogrammi, continue metamorfosi di personaggi, parole polisemiche, filastrocche, calembour, allusioni e allucinazioni del protagonista che rendono il nucleo dell’opera impalpabile e astratto. Metafisica, follia e una sintassi ingarbugliata che scandisce il flusso dell’inconscio del protagonista che viene a galla durante un incubo, rendono il capolavoro uno tra i più enigmatici e scandalosi di sempre. La dimensione del sogno che nell’Ulissescandiva la fine del flusso di coscienza di Molly Bloom, rappresenta invece nel Finnegansla condizione necessaria affinché possa prendere vita l’incubo del protagonista Earwicker nella sua ambigua fluidità. Ma quale sarebbe la trama di un simile puzzle letterario, e quali i temi? Joyce ci parla di sessualità, rituali sociali, famiglia, peccato, morte. Il protagonista Earwicker, che è padrone di una mescita di Dublino, dopo aver chiuso il locale torna a casa e sprofonda in un terribile incubo in cui il lettore assiste al manifestarsi di una catarsi con pensieri confusi, irrazionalità e pulsioni: la fine dell’attrazione verso la moglie Issy, l’emergere di sublimate tendenze incestuose e omosessuali verso i figli, e crimini ambigui da lui commessi che rimangono come appannati nello spazio della sua mente. Humphrey Chimpden Earwicker, nome completo del protagonista, si ripete in maniera ossessiva ed estenuante in ogni pagina del romanzo attraverso le tre iniziali H.C.E., che a loro volta assumono significati diversi: con Here Comes Everybody il protagonista viene identificato con Ognuno, con Haveth Childers Everywhere diventa il Padre eterno e universale, mentre con Hircus Civis Eblanensis, latino per “Caprone cittadino di Dublino”, emerge la sua natura animalesca.

Luigi Schenoni, traduttore italiano scomparso nel 2008, ci aveva lasciato la traduzione dei libri I e II del romanzo pubblicati in quattro volumi successivi tra il 1982 e 2011 ma il Finnegansè stato tradotto anche in altre lingue tra le quali il Turco, il Cinese e il Polacco. Una delle traduzioni più interessanti èFennigen de Shouling Ye, tradotto da Dai Congrong, professoressa della Fudan University di Shanghai che impiegò otto anni per tradurre solo un terzo dell’opera in cinese. Il traduttore polacco Krzysztof Bartnicki invece affermò che l’opera poteva essere suonata come uno spartito musicale.

Nel suo groviglio di allusioni, il romanzo è tutto costruito prendendo ispirazione dal modello de La Scienza Nuovadi Giambattista Vico che vede la storia come una serie di cicli ricorrenti, e dalla filosofia di Giordano Bruno che considera la storia come conflitto e riconciliazione degli opposti.

La teoria vichiana della ciclicità emerge già nella prima parola del romanzo, riverrun, che è scritta minuscola poiché è la continuazione dell’ultima frase dell’ultimo volume, che rappresenta simbolicamente il periodo di transizione e rinnovamento che riconduce all’inizio del ciclo. Nella parola “riverrun” troviamo riassunto così il concetto di fluidità dell’universo del Wakee l’idea del fluire ininterrotto.

La teoria di Bruno sulla coincidentia oppositorumè invece descritta attraverso le figure dei figli di Earwicker che nel libro sono Shem e Shaun, fratelli gemelli che divengono talvolta una trinità, e sono al contempo insieme inscindibile e proiezione delle contraddizioni esistenti in ognuno. Contraddizioni che emergono nella favola della cicala e la formica, una delle storie narrate nelFinnegansin cui Shaun, che si identifica con la formica e viene soprannominato “the Postman”, condanna la spensieratezza di Shem, la cicala, “the Penman”, ovvero “l’uomo di penna” e quindi il letterato e filosofo magnificato da Joyce; difatti la cicala, in inglese “grasshopper”, diviene ‘Grace-hoper’ ovvero l’artista volto al futuro, alla crescita e allo sviluppo, Joyce stesso.

Finnegans Wakein primo luogo si riferisce a, ed è ispirato da, l’omonima ballata popolare irlandese Finnegan’s Wake, ovvero “la veglia per Finnegan”. La ballata parla di Tim Finnegan, muratore irlandese che è solito “bere un goccetto” la mattina e che un giorno si rompe la testa cadendo da una scala. Ma dietro alla canzone si cela molto di più, vi è la descrizione di un percorso di nascita, crescita, caduta-morte e ricorso che vedremo essere ripreso da Joyce in tutta la sua opera. Difatti Tim vuole “salire nel mondo” e si alza la mattina, sale sulla scala, cade e infine torna in vita. Finn rappresenta sia il personaggio Finn Mac Cool, mitico eroe irlandese che visse 283 anni, sia la reincarnazione di tutti gli eroi del passato, che attraversano anch’essi come Tim Finnegan un processo continuo di caduta e resurrezione.

Tra le follie joyciane, giusto per citarne qualcuna, abbiamo una parola di cento lettere: bababadalgharaghtakamminarronnkonnbronntonnerronntuonnthunntrovarrhounawntoohoordenenthurnuk!

Si tratta “solo” di un’onomatopea che intende riprodurre il suono di un tuono, costruita da Joyce giustapponendo la parola tuonoin varie lingue. Si tratta del tuono vichiano che coincide nelFinnegans Wake con il rumore della caduta di Finnegan, e proprio dalla sua caduta nasce il tentativo di dare nome all’ignoto e al caos.

Il titolo è infine una chiave dell’opera, perché al suo interno si ritrova la trasposizione della teoria vichiana della ciclicità. Infatti la parola “Finnegans” è formata da tre sillabe mentre “Wake” da una sola, ricalcando la struttura del percorso di nascita, crescita, caduta-morte e ricorso. Ma Finnegans Wakepuò essere letto anche come composto dalla parola francese Finseguita dal latino neganse dall’inglese Wakecioè “una veglia (wake) che nega (negans) la fine(fin)” o detto diversamente, “un ciclo senza fine”.

intervista a Enrico Terrinoni

D: Lei e Fabio Pedone con il Finnegansavete condiviso un viaggio in un limbo letterario in cui tempo e spazio si fondono e si confondono, traghettati in un universo onirico indefinito dove la psiche joyciana, in ebollizione, manifesta le sue tensioni. Tradurre il Finneganssembra quasi un processo di discesa e risalita dall’inferno. Per penetrare lo spazio oscuro della mente di un eclettico visionario come Joyce e riuscire a ‘stradurlo’ dovete sentirvi vicini ai suoi drammi. Il vostro lavoro può essere paragonato se vogliamo a quello di due attori. Non si può tradurre un’opera simile senza esserne affascinati e sedotti, ma non si corre in tal modo il rischio di diventare un po’ pazzi e deliranti?

R.Blake, uno dei numi tutelari di Joyce amava ricordare che la saggezza vola sulle ali della follia, e la stessa biografia di Joyce ci ricorda come il limen tra follia e genio sia molto labile. La figlia di Joyce, da cui sicuramente egli trae ispirazione, era affetta probabilmente da schizofrenia e mostrava segni di bipolarismo e nevrosi varie. Eppure James vedeva in lei la parte creativa, il genio, l’inclinazione artistica. Tradurre il Wake può portare al delirio, ma per scongiurare un tale esito infausto bisogna accettare in pieno la lezione joyciana, e affrontare l’enorme comica e cosmica serietà della sua opera definitiva con la passione del distacco ironico che lui ci insegna.

D: Può spiegare come e quando è nata la passione per Joyce e il percorso che l’ha portata a entrare in contatto con il linguaggio ermetico del maestro, fino a risolvere il suo puzzle linguistico per eccellenza, il Finnegans?

R:È stata in parte mediata e veicolata dal mio interesse per l’Irlanda, per la sua cultura, per la politica irlandese, anche per la musica. Sin da ragazzo coglievo ogni occasione per passare qualche settimana a Dublino e dintorni, in estate, ma anche durante l’anno; questo perché mi affascinava il modo in cui in quel paese veniva e viene considerata la cultura, alta o popolare che sia. Poi nel tempo, leggendo i tanti autori che l’isola di smeraldo è stata in grado di produrre, tra cui ovviamente Joyce, ho avuto modo di ragionare sui rapporti tra letteratura e realtà, e su come la prima fosse in grado non soltanto di rappresentare la seconda, ma di ricrearla, di farcela re-immaginare. Joyce è un maestro in questo, nel consentire ai propri lettori di non fermarsi alla lettera del testo; perché questa è per certi versi una lettera morta, o una lettera che muore, direbbe Gabriele Frasca. Una lettera morente che possiamo far rivivere con l’atto della lettura creativa. Joyce permette ai suoi lettori di essere in parte autori delle sue opere, di divenirne partecipi, artefici. Questo perché sono, come diceva Eco, opere aperte, testi che non sanno sottostare alla chiusura di una parola definitiva, che è poi la morte della letteratura, e della lettera.

D: Se dovesse fare un confronto tra il lavoro di traduzione svolto per l’Ulissee per il Finnegans Wake, quali sono state le diverse sfide e difficoltà che si sono presentate? Finnegans Wakepuò essere la naturale continuazione di un percorso che esplora i passi di Joyce fino alle sue ultime considerazioni sulla vita. Potrebbe parlarci dell’importanza della traduzione a quattro mani?

R:Innanzitutto parliamo di testi che, seppur connessi, sono lontani in termini di tecnica, di sfide linguistiche e filosofiche, di ambizioni. Ulyssesera per Joyce il libro del giorno, e il Wakequello della notte, del buio. E del sogno. Non che l’altro non conservasse una sua dimensione onirica, ma questa era certamente non preponderante. Mentre in Finnegans Wakestiamo parlando di un testo che fa, della materia di cui sono fatti i sogni, per dirla alla Shakespeare, non solo il suo leit motifma un principio strutturale. Nell’avvicinare questi testi, poi, per quanto mi riguarda esiste una differenza di fondo. Se per Ulyssesho lavorato principalmente da solo, pur avendo un revisore, Carlo Bigazzi, a cui ho chiesto di affiancarmi, e il cui apporto per la prima stesura del testo è stato fondamentale, con ilWake parliamo di una traduzione a quattro mani, condotta assieme a Fabio Pedone. È un metodo nuovo il nostro, un metodo non soltanto collaborativo, ma una vera simbiosi tecnico-strategica, per così dire. Pur lavorando su sezioni di testo differenti, interveniamo poi continuamente sulle parti tradotte dall’altro, e lo facciamo abolendo la tradizionale distanza che c’è tra traduttori e revisori. Siamo entrambi traduttori e revisori della stessa opera, e credo si possa dire che abbiamo inaugurato un metodo del tutto innovativo di procedere alla resa di un testo. Anche dal punto di vista tecnologico. Possiamo infatti giovarci di tecnologie di cui di certo non disponeva il nostro predecessore, Luigi Schenoni. La nostra è una traduzione che mira a rimanere aperta, proprio come l’opera che la ispira e che, da traduttori, abbiamo il compito di rendere in un’altra lingua. Anche se, nel nostro caso, sarebbe più opportuno definirla una lingua altra.

D: Com’è nato il progetto di traduzione con Fabio Pedone, come avete deciso di intraprendere questo percorso e come si è concretizzato il progetto?

R:È nato durante la Joyce Conference in Rome del 2013 organizzata ogni anno dalla James Joyce Italian Foundation. Abbiamo iniziato a ragionare sulla possibilità, o meglio, su come superare l’impossibilità, di ritradurre le prime pagine del testo, e man mano abbiamo capito che questa possibilità esisteva. Abbiamo cominciato a lavorare in autonomia. Poi durante le giornate della traduzione di Urbino, dove abbiamo tenuto un seminario, si sono avuti i primi contatti informali con rappresentanti dell’editore Mondadori, l’editore storico di Joyce, e da in lì poi gli incontri si sono infittiti, fino alla loro proposta di affidarci il testo, basata principalmente su un numero di pagine che gli avevamo sottoposto, e che li avevano colpiti in positivo.

D:Tradurre un’opera di questa portata richiede certamente molta pazienza, determinazione e umiltà, qual è l’atteggiamento che deve tenere un traduttore in questa situazione? La continua ricerca di “indizi” in ogni parola può essere talvolta estenuante e richiede pazienza, pazienza e una volontà ferrea.

R:Tradurre uno dei testi più complessi della storia della letteratura è operazione da non affrontare con atteggiamenti narcisistici. Bisogna porsi al servizio del testo, del suo autore e dei lettori. Bisogna sapere di avere a che fare con qualcosa di grande, ed è necessario liberarsi da ogni tendenza all’autoesaltazione. La pazienza è fondamentale. Il lavoro di traduzione comporta sempre un corollario di studio, di ricerca. In questo caso, ovvero, nel caso di un testo su cui i critici non hanno né potrebbero mai dire una parola definitiva, bisogna rimanere sempre aggiornati, sempre curiosi nei confronti di nuove soluzioni proposte. La determinazione è tutto. Finnegans Wakeè un testo che può scoraggiare, può frustrare. Di fronte a passaggi del tutto oscuri e oscuri per tutti, la sfida è fare un salto di creatività, ma un salto possibile solo dal trampolino che offre una conoscenza puntuale dell’opera, del suo autore, persino della sua biografia.

D: Se per un traduttore è un compito importante cogliere le sfumature di ogni opera, nel Finnegans, diventa essenziale tenere in considerazione ogni aspetto della vita del poeta, della sua cultura, e tutto ciò curando anche la musicalità. Quali elementi è fondamentale preservare in una traduzione come questa?

R:Sarebbe idealmente opportuno riuscire a conservare tutto, o meglio, tutto quel che si riesce a vedere. Perché nel Wakenon tutti vedono le stesse cose. E d’altro canto, la tentazione di vedere forse più di quel che è lecito, è costante. Ma non è detto che Joyce non abbia previsto tutto questo, dati causa e pretesto; ovvero, molto probabilmente la semiosi aperta a cui il testo invita, è l’obiettivo principe, l’obiettivo finale di Joyce. Permettere ai lettori di rileggere il testo con una enorme libertà – una libertà condizionata, certo, condizionata alla conoscenza delle sue pratiche letterarie, delle sue abitudini letterarie, dei suoi fini. Ma è certamente la libertà a cui si può aspirare in quanto persone, come cittadini. Una libertà non assoluta, ma ragionevolmente ampia. Esistono ovviamente elementi più importanti di altri, tra questi l’irlandesità, la musicalità, l’universalismo, la riflessione sui testi fondativi delle grandi religioni e delle grandi culture; e poi la lente puntata sul presente, sulla vita dell’autore; e quel cannocchiale intertemporale che permette di guardare negli occhi il futuro. Il maggior biografo di Joyce, Richard Ellmann, disse molti decenni fa che bisognava ancora imparare a essere contemporanei di James Joyce. Credo che questa previsione sia ancora vera. Ma per guardare al futuro, bisogna volgere lo sguardo al passato. Bisogna, in definitiva, guardare al tempo come un continuum ricircolante, dove tutto quel che avverrà, è già avvenuto in qualche forma. Solo così un testo fantasmagorico come il Wakepuò tornare a dirci qualcosa di noi, qualcosa che ci riguarda. E perché no, insegnarci a vivere un po’ meglio.

D:Tra le caratteristiche dell’opera da tradurre quindi ci sono la musicalità e il ritmo. Com’è stato possibile rendere quest’ aspetto nella traduzione?

R:Nel 2017 sono usciti i primi due capitoli del libro III ma prima di vedere tutto il libro tradotto in italiano bisognerà aspettare fino al 2019, quindi posso rispondere solo in parte, perché una vera risposta a questa domanda dovrebbero darla i lettori. Ognuno ha un suo senso della musicalità, e anche le persone stonate a volte non sanno di esserlo. Posso però affermare con relativa certezza, che la musica è uno degli aspetti fondamentali. Per Joyce la sua era una “scrittura dell’orecchio”, e questo è evidente già inUlysses. Puntare a rendere solo il senso, i sensi, tralasciando il loro involucro sonoro, sarebbe inaccettabile in un testo del genere.

D:Potrebbe fare un esempio, se possibile, di qualche termine complesso dal punto di vista traduttivo raccontando come ha fatto a sciogliere l’intricato rompicapo?

R:Posso portare l’esempio della parola allmurk, che rimanda al buio (murk) ma anche alla sporcizia (muck). La nostra traduzione è letamebre, una parola che suona italiana, come allmurk suonava inglese, seppure nessuna delle due sia reperibile in alcun dizionario. È una parola importante perché rimanda allo snodo principale del testo, un libro, come ho detto, “della notte”, ovvero il fatto che la famosa lettera (letter) che potrebbe scagionare o condannare il protagonista, viene ritrovata per caso da una gallina in un cumulo di rifiuti (litter).

D: Può parlare del motivo per il quale, attraverso la rivista letteraria pagina99, avete pensato ad una collaborazione con i lettori?

R:Puntiamo non soltanto a lanciare il messaggio che la traduzione dovrebbe tornare per quanto possibile a essere un qualcosa di collaborativo, come lo è stato ai suoi albori, e poi per tanti secoli. Vogliamo che venga finalmente accantonata l’idea che Joyce sia un autore per pochi, uno scrittore che parlava all’élite. Joyce scrive per tutti, e per quanto sia difficile avvicinare la sua opera, per quanto tempo richieda immergersi e riemergere dalla sua testualità, quella che ci propone è una lezione di vita. Non dovremmo mai illuderci che l’esistenza sia un qualcosa da affrontare con leggerezza. La semplicità appartiene tanto alla vita quanto alla ricreazione letteraria, ed è per questo che il lettore di Joyce deve essere un lettore impegnato, un lettore impegnato a giocare. E per giocare, come in qualunque sport che si rispetti, bisogna essere serissimi.

D: Credete che se in futuro altri esperti proveranno a pubblicare nuove versioni del Finnegans, quest’opera rimarrà comunque interesse di pochi, oppure vireremo verso un rinnovato modo di scrivere, in cui creatività e libertà interpretativa saranno premiate e ricercate più che mai?

R.Certamente, come in passato si sono cimentati nella traduzione di quest’opera infinita tanti altri, questo sarà anche il destino futuro della circolazione di quest’opera che Joyce stesso invitava a tradurre mantenendone la poesia. Le traduzioni, come non mi stancherò mai di ricordare, non devono ambire a scalzare le precedenti o a minare il terreno per quelle future. Non devono porsi in un’ottica di rivalità, ma all’interno di un discorso di diffusione dell’originale in cui le sue tante versioni, e dunque le sue tante interpretazioni, non solo possono e devono coesistere, ma sono in grado di illuminarsi le une con le altre, e di riflesso illuminare anche l’originale. In fin dei conti, sono pochissimi i testi che nel mondo vivono in assenza di traduzioni. Senza le traduzioni non saremmo in grado di apprezzare gran parte del patrimonio culturale della nostra lunga storia. Per quanto riguarda la creatività, è importante che questa vada di pari passo con il rigore. Joyce non invita a fare quello che ci pare. Segna una strada, dissemina indizi, ci indica dove possiamo spingerci. Le traduzioni, necessariamente creative, devono partire da una profonda conoscenza del testo, dell’autore, del suo tempo. Non ci si può, insomma, o meglio, non ci si dovrebbe improvvisare traduttori del Finnegans.

D: Joyce ha cercato, in un intento comunque anche narcisistico, di produrre un’opera che non era mai stata concepita prima, ha voluto esprimere i suoi conflitti interiori destabilizzando i lettori con i suoi funambolici giochi letterari, oppure crede volesse risvegliare e illuminare la società?

R.Non credo che Joyce fosse un narcisista, tutt’altro. Credo che tenesse l’asticella altissima in senso democratico, la sua opera è volta a elevare il lettore, Joyce non vuole sentirsi dire quanto è bravo, come qualcuno erroneamente pensa. Vuole abituarci alla difficoltà, che è poi la difficoltà del vivere, come fanno tutti i grandi pensatori e artisti. Vuole dirci che le cose semplici non sono le più belle, e che anche l’apparenza di semplicità nasconde abissi di complessità. Joyce non ama soluzioni semplificatorie, e sa bene che queste sono le predilette tra la moltitudine, perché ci danno l’impressione che non si debba pensare troppo, che la natura rinneghi la cultura. Tutto il contrario: Joyce non amava i populismi semplici e sciocchi del suo tempo, e non avrebbe amato quelli ancor più beceri del nostro.

Marialaura Faitini