Mirko Tondi - Brandelli di uno scrittore precario n° 14 - In equilibrio precario - Parte seconda

Mirko Tondi – Brandelli di uno scrittore precario n° 14 – In equilibrio precario – Parte seconda

In equilibrio precario – Parte seconda

Quando è stato pubblicato lo scorso numero della rivista, durante il mese di marzo, l’esplosione della pandemia ci aveva costretto a rivedere le nostre vite: mascherine obbligatorie, autorizzazioni per uscire in strada, scuole e negozi chiusi, lavoro e lezioni da casa, file immense file davanti ai supermercati. I numeri dei morti continuavano ad aumentare, eppure era difficile immagine che avrebbero raggiunto le cifre che oggi siamo abituati a leggere sul giornale. Io stesso, che lavoro a scuola, ero stato proiettato a casa in attesa della partenza della formazione a distanza e, scrivendo il racconto Per fortuna che ci sono i piccioni (integrato nella prima parte di “In equilibrio precario”), avevo usato un tono scanzonato nonostante il contenuto serioso del testo. Charlie Chaplin girò Il grande dittatore nel 1940, proponendo una versione parodica di Adolf Hitler (Adenoid Hynkel, nella pellicola); in seguito, quando l’orrore dei campi nazisti si rivelò nella sua scellerata barbarie, affermò che se avesse saputo tutto questo non avrebbe mai potuto realizzare il film perché non avrebbe trovato niente da ridere nella follia nazista. Oggi possiamo tranquillamente affermare che Il grande dittatore sia uno dei suoi film migliori, e se non l’avesse girato l’universo cinematografico avrebbe perso una pietra miliare. Tutto sommato, io credo che un artista – uno scrittore, un regista, un pittore o quello che volete – non solo abbia la straordinaria possibilità di utilizzare la sua arte per esorcizzare la paura, la morte e tutte le cose terribili che ci sono capitate sulla terra, ma anzi non debba rinunciare a farlo quando gli si presenta l’occasione. L’unica maniera che abbiamo per prendere a calci nel culo le atrocità del mondo è quella di procurare negli altri una riflessione o un sorriso, questo è ciò che penso. Certo, è anche vero che finché quelle cose terribili non ti toccano direttamente tenderai a vederle con un certo distacco, persino con frivolezza; è qui che fanno la differenza quegli artisti dotati di acume e sensibilità, capaci di non risultare inopportuni né eccessivi. Se mai mi possa avvicinare a questi, spero almeno che il mio racconto, riletto anche oggi o in futuro, possa essere ritenuto rispettoso riguardo a tutti i morti che questo dannato virus si è portato con sé.

Fatta questa premessa, vorrei adesso tornare sul titolo del pezzo “In equilibrio precario” che, come anticipato nel numero precedente, è anche il nome di uno workshop che tengo in alcune occasioni dell’anno. Il lavoro che di solito faccio svolgere in questo senso consiste nell’imbastire una storia che abbia in sé un nucleo drammatico. Con ciò non mi riferisco necessariamente a storie fatte di dolore e lacrime, ma anche a quelle nelle quali domina la leggerezza in tutte le sue declinazioni: umorismo, comicità, demenziale, grottesco eccetera eccetera. Quante volte avrete sentito dire che “Fantozzi è un personaggio tragicomico” oppure che “Il Conte Mascetti è un personaggio malinconico”? Eppure, attraverso le loro azioni o ciò che gli succede, fanno soprattutto ridere, no? Dunque con questo concetto non ci si riferisce solo alle tragedie shakespeariane (per quanto credo che contenessero tutti gli elementi fondamentali della letteratura a venire) ma anche a scenette spassose come le vecchie comiche. Pensate del resto al malcapitato che scivola sulla buccia di banana o a quello che riceve una torta in faccia. Ridere delle sventure altrui è un meccanismo umano che non si ossida negli anni e che fa presa su un largo pubblico (lo testimonia la fortuna di trasmissioni molto popolari come Paperissima, per dirne una), qualche volta pure sull’intellettuale di turno che si rilassa sul divano di casa dopo una giornata logorante (e che magari si vede un film di Abrahams e dei fratelli Zucker senza tante pretese se non quella di sbellicarsi). Ma ora mettetevi nei panni del poveraccio al quale succede la disavventura: quale vissuto potrebbe scatenare l’accaduto, e in più, mettiamo, avere pure nei dintorni qualcuno che, dileggiandolo, lo mortifica? Pensate alla fissità espressiva di Buster Keaton bloccato in una situazione, al suo sguardo imperturbabile e afflitto: non è il dramma in persona, nonostante tutto ciò che gli succede sia, per noi spettatori, esilarante? Le storie, così come la vita, sono fatte di contrasti. Non a caso i registi preferiti di Woody Allen sono Ingmar Bergman (omaggiato con la pellicola Interiors) e Billy Wilder (fate caso per esempio a Misterioso omicidio a Manhattan e ai suoi collegamenti con La fiamma del peccato), due maestri del genere drammatico (nonostante Wilder riuscisse bene alla stessa maniera nelle commedie, va sottolineato). Nondimeno quasi tutti i film di Allen, soprattutto quelli realizzati nella prima parte di carriera, sono pervasi da un umorismo brillante e contagioso (niente a che vedere con il Coronavirus, in questo caso…).

L’idea generale è che le due dimensioni – la leggerezza e la pesantezza (chiamando in causa il Calvino delle Lezioni americane ma anche Kundera e prima ancora Parmenide, a cui l’autore ceco fa riferimento nel suo romanzo più celebre, L’insostenibile leggerezza dell’essere) – non siano giocoforza agli antipodi ma che in realtà si possano fondere fino a diventare una soltanto. E così ecco che il dramma viene raccontato in tono scherzoso, persino dissacrante, mentre una situazione potenzialmente gioiosa, al contrario, viene sviluppata con un sottofondo di mestizia, come un evento luttuoso. Dunque il contrasto tra positivo e negativo – o se preferite felicità e tristezza, successo e fallimento, fino a un continuum ai cui estremi si pongano vita e morte – diventa un amalgama indistinguibile, un “tutto che è più della somma delle sue parti”, come recita il motto gestaltista per eccellenza. Questo è ciò che si può trovare, per esempio, nei racconti di Flannery O’Connor, come Un brav’uomo è difficile da trovare. Nel mio piccolo, è anche la base di un esercizio che mi piace assegnare nei laboratori che faccio: scrivi di una festa o di un funerale. Vi assicuro che la maggior parte delle persone scelgono la seconda possibilità, e non sempre le storie che scrivono sono intrise di sofferenza e compassione, anzi qualche volta si accordano sulle sonorità di Alberto Sordi nell’episodio di I nuovi mostri o di Funeral party, per citare due film che hanno saputo ironizzare sulla morte.

E torniamo ora al racconto Per fortuna che ci sono i piccioni, che vi toccherà ripescare dal vecchio numero della rivista se volete avere chiara l’analisi di alcuni passaggi. All’inizio ci troviamo già nel mezzo dell’emergenza, il virus è in circolazione e le strade sono deserte; tuttavia, al momento devono essere prese misure più restrittive (il protagonista infatti si trova in una libreria ancora aperta), che vengono annunciate poco dopo. Dunque l’incipit si può considerare in medias res, poiché siamo nel mezzo delle cose, del fatto, senza molti preamboli né spiegazioni. In realtà non c’è alcun riferimento al Covid-19, ma solo a un generico virus, e non vengono fornite informazioni circa il suo tasso di mortalità; difatti, non sappiamo nemmeno se il virus di cui si parla metta a repentaglio le vite delle persone, ciò che si sa per certo è che siano compromesse le relazioni sociali, questo sì. Nessun cenno preciso nemmeno riguardo al nome della città in cui ci troviamo (anche se la città a cui ho pensato è quella in cui vivo, Firenze, della quale l’unico indizio è il fiume) né al nome del protagonista (qui mi piace spesso lasciare una zona d’ombra). La storia è divisa in tre parti: mattina/pomeriggio/sera, che sarebbero nient’altro che i tre tronconi inizio/sviluppo/fine di una struttura base, nella quale l’inizio serve da introduzione (del personaggio, del contesto generale, della situazione specifica), lo sviluppo è la parte più corposa e che racchiude anche il climax (qui la scena in cui il protagonista sale sulla balaustra e si sta quasi per buttare di sotto), la sera è la parte più breve e racchiude la fine. Lo spunto iniziale è autobiografico, ma poi il resto della storia prende ovviamente tutta un’altra piega. Nelle prime righe ho utilizzato il famoso espediente dello “show, don’t tell”, mostrando la carta svolazzante nella piazza desolata per dare un’immagine semplice e incisiva di solitudine.

Nel racconto ho seminato alcuni omaggi cinematografici, nell’ordine: Il grande Lebowski (il rimando alla scena iniziale, con il tumbleweed), Matrix, Gli uccelli, Ghost dog. Ci sono altre citazioni artistiche, sia musicali (l’intensa Nutshell degli Alice in Chains) sia pittoriche (il riferimento al dipinto di Turner). Tra i personaggi nominati ci sono poi l’eroico funambolo Philippe Petit e lo sforna-pipponi-commerciali Dan Brown.

La sezione centrale comincia con un sogno; in genere nei corsi di scrittura sconsigliano di piazzare il sogno nell’incipit, ma anche nel finale, con la classica scena in cui si rivela che no, niente di quello che è avvenuto è realtà, purtroppo o per fortuna. Più che altro, la prima frase raccoglie una successione di parentesi di diverso tipo, come in un’espressione matematica. A parte la fascinazione per la matematica (e ci sarebbero, in questo senso, dei veri e propri racconti matematici: da Borges a Cortazar, da Calvino a Bioy Casares… ma lasciamo perdere, questo è un altro discorso), l’utilizzo delle parentesi e delle frasi buttate alla rinfusa non seguendo il giustificato (poco più avanti) sono degli elementi stilistici che servono a muovere un po’ la scrittura.

Il fatto che il protagonista non tenti di gettarsi dalla finestra del suo appartamento ma esca di casa per poi entrare in un palazzo poco distante e salire fino alla terrazza a tetto, e lì finalmente provare l’impulso di suicidarsi… beh, forse non sarà perfettamente logico, ma si tratta di vedere le cose da una prospettiva diversa, e poi in questi casi mi piace sempre citare Hitchcock che dice “C’è qualcosa di più importante della logica: l’immaginazione”. In quella scena, tra l’altro, ho utilizzato ancora un comune espediente, facendo coincidere il brutto presagio dell’eventuale suicidio con la variazione degli elementi della natura, nello specifico il cielo che cambia colore e il vento che si fa più fresco. Poco dopo, la beffa: il tizio che abita di fronte espone un cartello nel quale esprime la sua preoccupazione per l’auto nuova parcheggiata là sotto, ma non certo per l’aspirante suicida. A seguire, l’evento che cambia le carte in tavola (l’arrivo dello stormo di piccioni) e poi l’episodio al limite del fantastico, un improbabile dialogo tra il protagonista e il piccione, in conseguenza del quale lui si convince a desistere e scende dalla balaustra. Dunque i piccioni nel racconto hanno una doppia valenza: incarnano il concetto dello scorrere delle cose di fronte agli avvenimenti tragici, ma compiono anche un intervento risolutivo, di fatto salvando il personaggio ormai dato per spacciato (ci sarebbe anche un terzo punto: con l’inserimento dei piccioni, volevo fare pure un piccolo omaggio al film Ad ovest di Paperino). Il racconto termina con il paradosso della folla amica (meglio una mandria impazzita di saccheggiatori al supermercato che l’irreale desolazione degli spazi vuoti) e una ritrovata speranza per il protagonista.

Lo stile si sintonizza su un registro basso e informale, il linguaggio infatti è colloquiale e la sintassi si compone di periodi che alternano frasi brevi ed essenziali a frasi più articolate, nelle quali la punteggiatura (comprese parentesi e trattini per gli incisi) detta il ritmo. Di solito lo stile è ciò che mi interessa di più nella scrittura, sia dal punto di vista autoriale sia da quello di semplice lettore. Ma in questo genere di esercizio mi interessa molto anche il concetto di bivio, quella biforcazione di strade che si verifica a un certo punto e che obbliga il personaggio a compiere delle scelte. D’altronde, è sempre una questione di scelte; nel caso del protagonista di Per fortuna che ci sono i piccioni, si tratta ovviamente della scelta di fiondarsi o meno dal palazzo, quindi c’è in gioco la posta più alta. E poi c’è il caso che fa il suo ingresso in scena: l’incontro con il piccione, che porta a un significativo dietrofront. Ecco, ora provate a pensare al vostro prossimo racconto e individuate la scelta che dovrà compiere il personaggio principale, così capirete anche che direzione dare alla storia. Se vi va, fate ricorso anche al caso, che è sempre un ottimo compagno d’avventura. Oggi come non mai mi vien da dirvi allora “buona scrittura” e alla prossima.

Mirko Tondi

Link alla prima parte del pezzo:

Mirko Tondi – Brandelli di uno scrittore precario – n° 13 – In equilibrio precario