Stéphane Mallarmé e il sogno d’un poema incompiuto

Stéphane Mallarmé e il sogno d’un poema incompiuto

Stéphane Mallarmé

Parigi è il luogo natio da ricordare per biografi attenti, è il 18 marzo 1842, mi trovo in rue de Laferrière. Magari fosse tutto facile, venire al mondo, piangendo o non piangendo poco importa, trovare intorno un po’ di felicità, attenzione, un briciolo d’amore, questo conta. Mia madre muore che ho appena cinque anni, per tutta la vita rincorro la sua immagine nei versi, nei sogni, nei ricordi, ma non la trovo, mi è svanita accanto. Vivo coi nonni di mia madre, poi mio padre si trova un’altra donna e si risposa, forse son di troppo nella casa, finisce che mi mandano dai preti, prima a Passy quindi in un collegio molto nobile, la scusa è lo studio, ma lo fanno per togliermi dai piedi. Infanzia infelice, senz’amore, scrivere mi serve per dimenticare, a dodici anni vergo su fogli bianchi un raccontino che parla d’un angelo custode, di quello ho bisogno, mi sento troppo solo. Muore anche mia sorella, così resto solo, a 15 anni, solo davvero, perché tutti gli altri non son poi tanto vicini. Studio per prendere il diploma, vivo a Sens, non è che la scuola mi piaccia così tanto, amo leggere, scriver poesie, ma le date di storia, i problemi matematici, la grammatica francese, le scienze naturali non mi affascinano troppo. Tra quattro mura, in fondo dove vivo, è il titolo del mio primo libro di poesie, mentre il racconto Quel che dicevano le tre cicogne è un altro precoce parto letterario. A diciannove anni devo mettermi a lavoro, ché mio padre Numa dopo una caduta resta paralizzato, mi assumono al suo posto come impiegato all’Ufficio del Registro. Scopro I fiori del male del grande Baudelaire, poi conosco un poeta vero come Emmanuel des Essarts, uno che conta, introdotto negli ambienti letterari, lui è avvantaggiato, ha il padre scrittore, mica impiegato del registro. Finalmente riesco a fare quel che voglio, scrivere articoli, pubblicare poesie, racconti influenzati dai miei miti, da tutte le pagine che leggo, anche quelle scritte da Théodore de Banville. Le Papillon mi pubblica la prima poesia, Placet futil, ma escono anche pezzi vibranti e furibondi come Eresie artistiche: l’Arte per tutti. Il mio piccolo orizzonte culturale si allarga a macchia d’olio, conosco coloro che saranno gli amici d’una vita, Eugène Lefébure ed Henri Cazalis, ma pure la bionda tedesca Maria Gerhard, dama di compagnia proprio dove vivo. Che ci volete fare, son poeta, sensibile al fascino femminile, lei è più grande di due anni, ma lo stesso m’innamoro. Ho solo vent’anni, accanto una donna fascinosa e malinconica, esiliata, delicata, che penso di comprensione bisognosa. E poi basta con l’Ufficio del Registro! Un mestiere che non va per un poeta. Voglio insegnare inglese. Parto con Maria, andiamo a vivere lontano, in Inghilterra, a Londra, Panton Square, dove voglio perfezionare la mia lingua. Professore d’inglese e letterato, sarà la mia vita, che vadano a ramengo nonni e familiari, che amore non me n’hanno dato, di mestiere farò quel che m’aggrada! Non è tutto rose e fiori, mai lo è stato, ché ci manca di tutto, la passione d’amore un po’ svanisce, dovrei sposarmi ma non ho il coraggio, muore mio padre e devo tornare a casa. Solo per poco, il tempo d’un triste funerale, poi rientro a Londra, dove sposo Maria, nel 1863. In Inghilterra traduco Edgar Allan Poe, soprattutto Le finestre che mi piace tanto, posso dire di aver imparato molto vivendo a contatto con la lingua. Rientro in Francia per insegnare inglese al liceo di Tournon, dove vado a viver con Maria, in un posto assurdo, umido tutto l’anno, grigio e tetro, con il Rodano che passa poco distante, provincia depressa, gelida e soffocante, rozza e retriva, dove mi sento come un topo in gabbia. Per fortuna posso scrivere agli amici, di tanto in tanto vado a far visita a qualcuno, oppure vengon loro in questo buco sperduto della Francia. Lefébure e Cazalis mi son vicini, in modo intellettuale, c’è anche quel frivolo di Emmanuel des Essarts, figlio di scrittore, che mi piace sempre meno, ma è professore di retorica ad Avignone, così di tanto in tanto vado a fargli visita, per scappare dal niente che intorno mi circonda. Avignone e Parigi sono luoghi di cultura, posti dove si respira, conosco Aubanel e Mistral, Jean Brunet d’Avignon, Catulle Mendès, Viller de l’Isle-Adam, specie con l’ultimo divento molto amico, un gran poeta, un vero letterato. La Semaine de Vichy pubblica due poemi in prosa che mi son costati sacrificio, pare quasi che annuncino la nascita di Geneviève, che non dovrà passare un’infanzia come il padre, per mia figlia voglio il meglio, un giardino di petali fiorito. Ho ventidue anni e son padre, scrivo come un pazzo, lavoro a una pièce teatrale un po’ complessa, Hérodiade penso la chiamerò, intanto butto giù il Monologo d’un Fauno, lo porto a Parigi, dove lo faccio leggere al poeta Théodore de Banville e all’attore Coquelin, ma non va bene, pare che non sia facile adattarlo in scena. Fa niente, lo metto da parte, penso ad altro, intanto cambio casa, vado a vivere sul Rodano, dove sto un po’ meglio, anche se appartato. Nel 1866 dieci poesie mi vengon pubblicate sul Parnasse Contemporain, mica poco, l’antologia della poesia francese, anche se il lavoro su Hérodiade mi stanca molto, ci passo sopra mesi, non lo finisco, sono anche un po’ perseguitato da bacchettoni che leggon cosa scrivo solo per farmi trasferire. Négresse non piace a tutti, troppo licenziosa, erotica, piccante, finisce che mi mandano a insegnare ancor più in provincia, a Besanҫon, nel liceo di quel triste paese. Conosco Paul Verlaine, leggo i suoi stupendi Poèmes Saturniens, usciti da poco, e ci divento amico, ci scriviamo, cominciamo a frequentarci. Riesco a trasferirmi ad Avignone per insegnare in un liceo importante, ma è un anno orribile, un periodo spaventoso, quando vivo una crisi religiosa, una lotta con Dio che mai m’era accaduta, mi sento annientato, solo, senza appigli ultraterreni, senza divinità cui tendere la mano. Perdo la fede e cerco quel che sono, inadatto a vivere così disperato, affranto, spossato; mi sento accanto il Nulla, vivo una solitudine infinita, penso alla morte e la rappresento come unica soluzione a questa vita. Scrivo Igitur ma non lo pubblico, lo faranno dopo la mia morte, ora non credo sia il caso, quando lo leggo a Mendès lui pare irritato, pure se a Villiers de l’Isle-Adam piace molto, tocca le sue corde. È il 1870, tempi di guerra, muore un pittore in battaglia, son sconcertato, povero Henri Regnault, mio caro amico, penso non valga niente fare niente, credo che anche la scuola sia perder tempo, così mi dimetto, impartisco lezioni private per campare. E poi le cose che a scuola non amavo, le scienze, la matematica, diventan campo da coltivare, materie da studiare, insieme al sanscrito e alle lingue semitiche. Nasce mio figlio Anatole, nel 1871, forse per questo decido di accettare ancora d’insegnare, come sempre inglese, ma al liceo Fontanes di Parigi, un ritorno a casa, ai luoghi dell’infanzia. Si torna sempre quel che siamo stati, in fondo; vado a vivere in rue de Moscou, tutto intorno mi parla di passato, non ho ancora trent’anni, inizio una nuova vita fatta di attivismo disperato. Pubblico molto, anche un frammento di Hérodiade, intitolato Scène, poi le traduzioni del mio amato Poe, nel Parnasse Contemporain, mentre conosco gente del mio ambiente. Parigi è Parigi, c’è poco da fare, non c’è provincia che può stargli al passo, conosco Rimbaud, giovane poeta di talento, quindi Manet che dipinge da portento, comincio a capire un po’ d’impressionismo. Toast funèbre lo dedico a Théophile Gautier che muore, lo pubblico nell’ottobre del 1874, quando cambio casa, mi trasferisco in rue de Rome, una strada un poco più centrale, prima al numero 87, poi all’89. Sono un poeta dai gusti disparati, come amo scrivere versi erotici e pungenti, mi va pure di parlare di cose femminili, su riviste come La Dernière Mode, questa volta però mi cautelo, non lo faccio col nome conosciuto, mi metto pseudonimi da donna che cambio ogni volta, per gli otto numeri che dura la rivista. Parlo di cucina e giardinaggio, cucito e moda, turismo e arredamento, cronache mondane e teatrali, ricette, alberi di Natale, addobbi floreali, posta del cuore, anche pettegolezzi. Sono un po’ frivolo, che ci volete fare, la vita mica è solo pesantezza, va bene l’ironia metafisica, la curiosità, l’intelletto, la freschezza del poeta, ma amo anche i ventagli sfarzosi, i libri di cucina, le uova pasquali, le buste da lettera decorate ad arte, le stoffe preziose e i modelli femminili ricercati. Vivere a Parigi mi fa bene, mi dà l’ispirazione necessaria per scrivere prosa e dedicarmi a cose quasi dimenticate, come Il Monologo d’un Fauno che diventa Il Pomeriggio d’un Fauno ed esce in edizione impreziosita dalle illustrazioni di Manet. In provincia non sarebbe mai accaduto, rozzi e incolti, non potevano capire. Affitto pure una casa sulla Senna, a Valvins, dove fuggo appena posso per dedicarmi a canottaggio e vela. La vita ti colpisce sul più bello, quando stai bene, quando sei in gran forma, siamo nel 1879 quando mi sfugge dalle mani il piccolo amore di mio figlio, solo otto anni e devo dirgli addio, non è facile superare il gran dolore, rimettersi a scrivere, pensare alle poesie, alle traduzioni, alle prose, ai lavori teatrali. Ma devo farlo, perché è la mia vita, mi serve a non pensare, a cercare di dimenticare ciò che un padre non può lasciarsi indietro. Scrivo di mitologia per la scuola, traduco fiabe, invito a casa amici ogni martedì per cene letterarie, costruendo poco a poco la leggenda dei Mardis de la rue de Rome. Ho 41 anni quando posso dirmi poeta laureato, ché Verlaine in persona mi presenta nella serie I poeti maledetti, pubblicata da Lutèce, che diventa un libro importante, un volume che resta nella storia. Sono famoso, la cosa non resuscita mio figlio, povero angelo del cielo, ma ricevo onori, esco dall’ombra e vado alla ribalta, tutti mi leggono, divento autore di riferimento, mi citano nei romanzi del mio tempo. Poi cominciano a darmi anche dei nomi, delle definizioni, dicono che sono simbolista, ma non ci sto, mi tiro fuori dalla mischia, sono soltanto Stéphane Mallarmé, poeta tra il frivolo e l’impegno, resto me stesso, quello che sono, quel che sono stato. Certo, mi piace accogliere in un salotto affumicato, ogni martedì, le nuove leve della letteratura, amo sentirmi amato, considerato, bramo ascoltare quel che hanno da dire, ma lungi da me le correnti letterarie. Tutto va per il meglio, tranne i ricordi dolorosi, il lavoro mi dà soddisfazione, insegno ancora, prima al Liceo Janson, quindi al Rollin, due sedi prestigiose. Collaboro alla Revue Indépendente, dove scrivo di teatro e pubblico sonetti, nel tempo libero mi son fatto un’amante, per ingannare la noia delle giornate, la bella modella di Manet, Méry Laurent, allieta i troppi momenti di tristezza, ché con mia moglie non è più come un tempo. Berthe Morisot è una dolce pittrice che frequento, ma tra noi non c’è davvero niente, son pettegolezzi senza base, ci vogliamo bene, parliamo d’arte e pittura, poesia e racconti, ma il sesso non fa parte delle cose che facciamo. Sono giorni tristi e malinconici quando scrivo una breve storia della mia vita per Verlaine che la dovrebbe pubblicare. Pare una lettera vergata a cuore aperto, narro i miei gusti, i giorni andati, la salute, le passioni, i sogni, pure il progetto di un’opera immortale, un libro per spiegare il mondo, unico dovere del poeta. Riesco finalmente a pubblicare Album de Vers et Proses, nel 1887, e la raccolta delle Poesie in un volume costoso e ricercato, un manoscritto in fotolitografia, ché l’arte non dev’essere per tutti, come dicevo quand’ero giovane e incazzato. Tutto il mio lavoro di poeta, di critico, d’interprete del mondo e del costume viene raccolto a Bruxelles in un volume edito da Deman, intitolato Pages, che esce nel 1891, due anni dopo segue Vers e Proses. Sono un uomo di successo, tutti mi onorano, presiedo banchetti organizzati da riviste d’avanguardia, i miei martedì letterari sono esaltanti, tutti mi ascoltano con sussiego e reverenza; viene Oscar Wilde a sentir le mie parole, un giorno passano André Gide e Paul Valery. Ma sono stanco, la routine mi logora, con la scuola non ce la faccio proprio, chiedo un congedo, poi vado in pensione a cinquantadue anni, mi ritiro a Valvins dove cullo tristezze e ricordi dolorosi, scrivendo e pescando, facendo canottaggio. Tra le cose che rammento con amore ci sono i medaglioni dedicati a Verlaine e Beaudelaire, da poco scomparsi, come quello per Morisot, infine una biografia del giovane Rimbaud. La ricerca poetica continua, fa parte di me, così nel 1897 pubblico uno stranissimo poema, metafisico e assurdo, legato ai caratteri tipografici delle parole. Hérodiade è il mio destino terminale, l’incubo d’una vita, compagno mortale, viatico ultraterreno, mentre escono le Poesie per Deman, muoio con la testa riversa sulle carte. È il 9 settembre del 1899, ho cinquantasette anni, il respiro mi si ferma in bocca, non riesco neppure a sussurrare che mi lascino il tempo di finire il lavoro che porto avanti da una vita. Capita ancora, da un loculo di marmo a Samoreau, quando il vento sferza il viale alberato del cimitero, che cerchi di trovare le parole per quel poema, adesso che potrei spiegare il senso della vita e adempiere al mio mestiere di poeta.