La mela d’acciaio – Yuri Leoncini


4 luglio 2025

un regalo per gli ottanta anni di mio padre, Renzo Leoncini

“Renzo stai fermo!”, urlava mia madre e nel frattempo arrancava dietro di me che ero velocissimo. Sgattaiolavo di corsa verso i campi incolti dietro casa. Lei, con affanno, tentava di inseguirmi per qualche metro, ma dopo un po’ si fermava, ormai del tutto rassegnata.

“Iva ma che hai fatto? Hai messo il guinzaglio al bimbo?”, le donne passavano davanti all’uscio di casa e ridevano, tenendosi la pancia in mezzo alle sottane, mentre io mi divincolavo perché la mia caviglia era legata ad una corda e la corda era legata alla gamba del tavolino dove mia madre cuciva i pantaloni.

Era una sarta brava, una pantalonaia, diceva lei.

“Io devo lavorare e non posso rincorrere lui che c’ha l’argento vivo addosso, la corda è lunga e si abituerà presto, meglio legato che morto dentro il pozzo.”

C’era davvero un pozzo e qualcuno c’era morto e questo aveva definitivamente influenzato i metodi educativi della mia infanzia.

Mio padre tornava stanco dal lavoro e per scherzare buttava un pugno dentro la bocca e mi chiamava figlio d’un cane. Mi piaceva tanto mio padre, mi piacevano i suoi occhiali, il suo sorriso con i denti un po’ distanziati. Dicevano che assomigliava a Fred Astaire, ma io non sapevo chi fosse e vedevo solo mio padre. Il professore.

Era il 1949 ed eravamo poveri, si mangiava poco e si lavorava tanto.

Mio fratello Carlo era gravemente malato, mia madre cercava di non fargli mancare niente e mi insegnava che lui non era come me, che io ero quello fortunato perché io ero sano ed ero forte e correvo, mentre lui non poteva correre, non poteva arrampicarsi, non poteva saltare. Il suo corpo era come quello di un piccolo pulcino, fragile e delicato, bastava nulla che gli si gonfiavano le ginocchia, le caviglie, aveva dolore ai polsi e alle spalle.

Emofilia si chiamava, ma io non potevo saperlo.

“Renzo dove sei?”, io correvo felice, ero sopra al mare, nei campi, vedevo da lontano le lucine del cimitero, come giostre che luccicano, e mia madre urlava e mi chiamava, “Domani ti lego un’altra volta e poi vedrai che non scappi più, mascalzone!”.

Ma io scappavo e sarei scappato per sempre.

“Renzo tu devi essere un bimbo intelligente e devi capire che Carlo ha bisogno di mangiare più di te perché è più grande ed è malato”, mia madre si rimboccava le maniche della vestaglia con cui stava in casa, prendeva la spianatoia e la metteva sul tavolo di cucina, dopo aver tolto la macchina da cucire, era così brava che cuciva anche venti pantaloni al mese per raccattare due spiccioli. Quando arrivava la domenica rompeva piano le uova e io la guardavo ritto sulla sedia, con le ginocchia sbucciate dalle cadute. Il rosso che si mescolava al bianco, sopra il monticello di farina, come un vulcano.

“Oggi mangi i maccheroni al sugo, sei contento Renzo?”.

Eccome se ero contento, guardavo le mani appiccicose di mia madre, che impastava veloce, e la farina diventava presto una pasta gialla e collosa e poi via via sempre più asciutta perché lei la levigava, la tirava, la avvolgeva. Mi piaceva guardarla fare la pasta fatta in casa, per me era una festa. Anche io cucino così i maccheroni fatti in casa, come li faceva mia madre, come li ho sempre visti preparare.

Carlo era sdraiato a letto, con le gambe messe sopra ad un cuscino e il dolore che gli contorceva i lineamenti della faccia. In cucina l’odore del sugo avvolgeva tutto e se devo ricordarmi l’odore della felicità, era proprio quello.

Mia madre prima di metterci a tavola, rassettava il tavolo, lo puliva con una spugna bagnata e lo asciugava, con cura. È sempre stata una donna pulita e precisa, il giorno delle pulizie tutti mobili erano strusciati fuori e dentro da una grande saponata, come diceva lei, le bolle si alzavano dal pavimento e dal legno scuro del buffet.

“Renzo prendi la gavetta di babbo che gli ci metto il desinare”, mia madre ogni giorno preparava un boccone per mio padre, un po’ di pasta avanzata, due uova o un pezzo di formaggio, con un pezzo di pane, ma se c’era una cosa che a me piaceva tantissimo era quella di vederla mentre prendeva la mela rossa, la lavava e la infilava nella panierina, accanto all’alluminio del pentolino.

La mela rossa non si poteva mangiare tutti. Lo sapevo bene, me lo aveva spiegato tante volte. Le vitamine servivano a Carlo e a babbo, Carlo era malato e babbo lavorava all’altoforno.

Io e mamma non potevamo mangiare la frutta, eravamo sani.

I maccheroni di mia madre avevano quel sapore di casa che difficilmente ci si può scordare. Mio padre mangiava in silenzio, lentamente, con la testa china di chi è stanco del duro lavoro e della vita e mi sorrideva ogni volta che alzava gli occhi, mentre il mio piatto era già vuoto e pulito con le dita. Allora lui staccava un cantuccio dalla sua fetta di pane, me lo porgeva e mi diceva: “Renzo, guarda, qui c’è rimasto del sugo, prendilo con il pane!”.

Mi levavo la voglia di cibo e di amore.

“Leonello la panierina è pronta”, e anche mia madre era pronta, per andare a riposare, mi metteva il pigiama e andava da Carlo, per sistemargli la coperta, per levargli un po’ di dolore con le labbra sulla fronte.

Io immaginavo mio padre che apriva la panierina, all’altoforno, e si apparecchiava con il tovagliolo bianco e il pentolino di alluminio che quando si apriva faceva clac.

L’anno dopo, sotto al lettone, ci sarei passato, giocando, mentre sopra, Carlo, sarebbe rimasto per sempre chiuso in quella bara. Lo ricordo ancora, vestito bene e pettinato e ricordo ancora mamma e babbo che piangevano quel loro giovane figlio sfortunato.

Ero sano e non lo sapevo, ero fortunato e non lo sapevo lo stesso. Era una fortuna non avere io quella mela ogni giorno, io che non ne avevo bisogno. E me la immaginavo chiusa nella panierina di mio padre, rossa e lucida, che aspettava il momento di essere mangiata, e mentre mi addormentavo immaginavo il suo sapore zuccherino sotto i denti.

E mi addormentavo felice.

Un giorno mio padre mi vide triste, non avevo giocato in tutto il giorno perché Carlo non stava bene e io mi sentivo solo. Fu quella la prima sera in cui successe. La prima di tante altre volte.

Aveva il turno dalle due alle dieci. Quando tornava dalle Acciaierie io dormivo già, ma quella sera, come se me lo sentissi, ero sveglio nel letto e appena lo sentii arrivare corsi da lui.

“Babbo, babbo!” gli buttai le braccia al collo, “Sei tornato presto!”.

“No, Renzo, sei tu che sei ancora sveglio, non è presto, è tardi, ma c’ho una sorpresa per te.”

Ricordo ancora l’emozione che provai, mio padre che si avvicinava al lettino con la panierina in mano e metteva dentro la sua mano grande.

“Sai che sono entrato all’altoforno e dentro c’è un prato grande e luminoso, pieno di erba e di fiorellini”, mi toccava la testa, con l’altra mano ancora dentro la panierina, “e in quel grande prato c’è nato un albero enorme, con un fusto grande e marrone e un sacco di rami e di foglie verdi e luminose. Quell’albero è un melo e questo melo fa delle mele grandi e bellissime e sono anche buonissime, la vuoi la mela dell’altoforno Renzo?” e tirò fuori la mela rossa dalla panierina e io, mezzo assonnato, la vidi davvero enorme e succosa e mi venne da piangere che quasi mi si spaccò il cuore dalla contentezza perché da quanto era grande non mi ci stava dentro.

La mattina dopo andai al tavolino a fare colazione e la mia mela era dove l’avevo lasciata, sul legno del tavolo. Era bellissima e quasi avevo soggezione a mangiarmela. La guardavo e pensavo che ero fortunato come Carlo, perché c’avevo anche io la mia mela rossa. La mela rimase sul tavolo tutto il giorno, la guardavo, la toccavo, l’annusavo e me la immaginavo sopra al melo dell’altoforno, sopra al grande prato, in mezzo al sole e alle farfalline, le api e le rondini.

Poi la fame poté più del digiuno e me la mangiai tutta, anzi no, un pezzetto lo andai a regalare a mia madre, che, in fondo, se lo meritava.

Il sapore di mela rossa è il sapore di quella precisa mela presa dall’albero dell’altoforno, messa nella panierina, consegnatemi come un dono e poi lasciata sul tavolo di cucina per essere venerata.

A quindici anni il mio viso era imberbe e i miei riccioli brillavano. Avevo già provato cosa era l’amore e lei era meravigliosa e nonostante mi avesse anche spaccato la testa con una sassata, alla mia Ivana l’avrei amata per tutta la mia vita. Al posto di Carlo c’era Giorgio, il mio fratellino, che amavo tantissimo. Ma era finito il tempo dei giochi, dello svago, degli amici, del corteggiamento, della spensieratezza, a quindici anni mio padre mi lasciava il suo posto di lavoro, mi regalava quell’ingresso in fabbrica, lui che si era anche ammalato di silicosi e che in fabbrica ci aveva perso la salute.

Alle Casette Minime c’era fermento, diverse persone erano venute a vedermi partire per il mio primo turno di lavoro: dalle due alle dieci. C’erano Alba, Ilia, Fedora e anche Gigi. Ero poco più che un bambino e il mio ingresso in fabbrica veniva venerato come un evento da festeggiare.

La panierina era sul tavolo, la stessa di mio padre, preparata amorevolmente da mia madre, spezzatino e pane e una bella mela rossa. Mi avvicinai, presi la mela e la porsi a mia madre: “Mamma mangiala tu, da oggi a me non serve più”.

Il peso della panierina mi faceva sentire il peso dei miei quindici anni da lavoratore, sentivo tutta la paura e l’emozione che comporta andare verso un futuro da grande con il cuore da bambino.

Sceso dal pullman mi diressi verso l’ingresso delle Acciaierie, un gruppo di operai, davanti, era in attesa di entrare per il turno, qualcuno fumava contro voglia, era caldo già da fuori.

Uno mi vide e urlò: “Sei il figlio di Leonello Leoncini?

“Sì, sono io, sono Renzo”, risposi con una voce che, a ripensarci, sembrava un po’ tremare.

“Bene, siamo amici io e tuo padre, lui ha lasciato il posto a te e io ho ancora tre anni da ammazzarmi qui dentro”, alzò gli occhi al cielo, la faccia tesa e la stanchezza già evidente, ancor prima di iniziare.

Mi guardò, stiracchiò un sorriso e poi aggiunse: “Sei nella mia squadra, ti spiegherò tutto io, stai tranquillo”.

Questo mi fece supporre che la mia agitazione era evidente, era chiaro che non mi sentissi a mi agio, risposi come se fosse un altro a parlare al posto mio: “Grazie, babbo mi ha spiegato già qualcosa”.

Avevo una persona che mi avrebbe guidato. Questo era un buon inizio, pensai, mentre stringevo al fianco la mia panierina consunta.

Entrare per la prima volta dentro un altoforno è come varcare la soglia di una cattedrale industriale.

I miei occhi furono colpiti già da fuori, dal massiccio edificio che mi scrutava dall’alto e sembrava dirmi che non c’erano più i miei quindici anni.

Sopra all’edifico le tubazioni avvolte su se stesse sembravano serpenti d’acciaio e le grandi strutture in ferro ossidato rendevano tutto futuristico e oscuro, si faceva strada un lieve presentimento di angoscia, che si consolidava ancora di più per l’aria, aria che sapeva di metallo caldo, olio bruciato e polvere fine.

Varcata la porta in ferro, venni subito investito da un rumore costante e profondo, un rombo sordo simile a quello di un respiro meccanico.

Tutto vibrava: il pavimento, le travi, l’aria. Persino l’anima.

All’interno, l’altoforno si stagliava come un gigante: un cilindro imponente, alto oltre 30 metri, avvolto da una rete di passerelle metalliche, scale a pioli e valvole che sfiatano vapore.

Un mostro come quello delle storie.

Un mostro pulsante e caldo che mi stava per prendere.

La luce era fioca, rossastra, interrotta dai bagliori improvvisi del metallo fuso che colava nelle siviere.

Un drago come quello delle storie.

Un drago che sputa fuoco solido.

Quando si apre la trogola, il metallo fuso esce come lava incandescente: bianco, poi arancio, poi rosso. Fa un rumore simile a un tuono strozzato.

Le luci delle carrozzine, immagino l’odore di zucchero filato e sento il vocio di bambini.

L’ambiente era caldo e soffocante, ogni gesto degli operai era lento e misurato, si muovevano con attenzione, comunicando a gesti o con brevi frasi urlate per sovrastare il rumore.

Sul fondo si intravedevano i carrelli del caricatore, che trasportavano il coke fin dentro il crogiolo. Il calore era tale da deformare leggermente la visione, con onde tremolanti, come accade nei pomeriggi d’estate sull’asfalto rovente.

Mi venne a mente il sole di Spiaggiadoro, la sabbia calda e il mare fresco che ti invita ad un bagno ristoratore. Fu in quel preciso momento che mi venne da piangere, per la prima e l’ultima volta dei miei 35 anni in fabbrica.

Fu solo dopo che mi resi conto che nessun prato verde era là intorno, solo grigio e scuro e sgarrupato, nessuna farfalla colorata, solo il nero del carbone, nessun odore di fiori, solo il puzzo di metallo fuso, nessun albero enorme di mele, dal fusto rugoso, solo le vorticose strutture industriali piene di sgomento faticoso.

Nessuna mela rossa.

“Mi scusi”, mi avvicinai incredulo all’amico di mio padre che, socchiudendo gli occhi, avvicinò con l’orecchio alla mia bocca e mi fece cenno con la mano di urlarci dentro, “Qua non c’era un melo, circa una decina di anni fa?”.

Dovevo avere delle risposte subito, mi bruciava dentro questa verità così tagliente e dura da ingoiare.

“Un melo?” urlò gracchiando voce roca da fumatore, “O che sei citrullo?” rideva, sussultando come se avesse il singhiozzo, mentre mi batteva la mano sulla schiena.

“Qua ci sono solo meli di ghisa e fanno delle mele d’acciaio, dopo la lavorazione”, continuava a ridere, ad occhi chiusi. Poi si allontanò, avvicinandosi ad un capannello di operai.

La mia mela rossa. La mela di mio padre Leonello.

Lo immagino ancora oggi, mentre lascia la mela dentro la panierina per portarla a casa e farmela trovare sul tavolo ogni mattina.

Adesso so che era una succosa mela rossa d’acciaio e adesso, che ho ottant’anni, mi commuovo ancora.

Yuri Leoncini