Arturo Fabra – “The End is Over”

The End Is Over

“All hands on deck, we’ve run afloat!”

I heard the captain cry

“Explore the ship, replace the cook:

let no one leave alive!”

Across the straits, around the Horn:

how far can sailors fly?

A twisted path, our tortured course,

and no one left alive.

Fanculo il diario del capitano, registro qui quello che mi passa per la testa. Ad uso strettamente personale. La giornata è limpida e promette di rimanerla, la barra è verso il mare aperto, sono rimasto solo a bordo da qualche mese.

Le provviste non mi mancano e gli accumulatori solari funzionano egregiamente, secondo il satellitare sono nel Pacifico Meridionale, luogo ideale per una vacanza. Luogo del mio desiderio. Ci fossi arrivato una ventina di anni fa avrei cercato l’ Isola Nascosta del Monaco Pazzo, pur sapendo che è pura opera di fantasia. Forse per questo non mi ero mai deciso a viaggiare fino a qui, temevo di essere deluso, o forse solo di scontrarmi con la realtà.

Mi occupo della barca, un compito utile solo a me. Potrei starmene tranquillamente disteso al sole o sottocoperta a consumare cibo e bevande ascoltando lo sciabordio delle onde e il flusso di acqua salata che sospinge le turbine dei motori, le funzioni di navigazione e manutenzione sono totalmente automatizzate.

La pubblicità in rete la definiva «L’ imbarcazione che chiunque può guidare» Chiunque abbia a disposizione un reddito da nababbo, ovviamente.

Per questo l’abbiamo rubata, ammutinandoci.

Non è stato nulla di sanguinario, abbiamo solo aspettato che i nostri ospiti fossero scesi a festeggiare nei locali lungo la spiaggia e ce ne siamo andati.

Noi e il nostro carico preziosissimo e pericoloso.

We sailed for parts unknown to man,

where ships come home to die

No lofty peak, nor fortress bold,

could match our captain’s eye

Upon the seventh seasick day

we made our port of call

A sand so white, and sea so blue,

no mortal place at all.

Era iniziato sui social con il consueto tiramolla del «mi fido-non mi fido». Vaghe allusioni, passaggi in chat private, sensazione di scoprire affinità elettive, paura di aprirsi troppo. Quasi un gioco da amanti.

Ci siamo ritrovati in cinque, accomunati dal medesimo senso di non appartenenza al mondo circostante. Tre di noi, me compreso, con una diagnosi di «sociopatia moderata».

Cinque persone che ogni mattina si svegliavano con la sensazione di essere sempre più oppressi ed ignorati dalla società che ci chiedeva solo di lavorare, pagare tasse, acquistare prodotti ed essere felici. Felici di appassionarci, emozionarci e soffrire per quello che di ora in ora ci veniva suggerito dai social.

Paranoia. Questa era la diagnosi del nostro capo.

Perché in fondo eravamo solo cinque malati mentali.

Ma ci siamo ben mescolati ai normali, sia alla maggioranza che non ragiona più che alla minoranza che li fa ragionare come vuole.

Così ben mescolati da poter essere assunti come equipaggio, partire per la crociera e rubare l’imbarcazione.

We fired the gun, and burnt the mast,

and rowed from ship to shore

The captain cried, we sailors wept:

our tears were tears of joy

Now many moons and many Junes

have passed since we made land

A salty dog, this seaman’s log:

your witness my own hand.

Un paranoico, tre sociopatici e uno schizofrenico. Questo era il nostro gruppo. Il patto: allontanarci dalla società e vivere per conto nostro. Non ce l’avrebbero mai permesso, pensavamo, ci avrebbero braccati. Anche perché con noi avremmo portato «quel mainframe» piratato e scaricato. Pronto ad essere trasmesso per liberare le menti, aprire gli occhi, accendere la rivoluzione.

I primi dieci giorni di navigazione li ricordo frenetici, con una tensione costante, addirittura facevamo i turni di guardia in coperta.

Dieci mesi dopo avevamo capito.

A nessuno gliene fregava un cazzo di noi.

Anche quei tre che avevano una famiglia non erano mai più stati cercati.

Pensavamo di aver increspato le acque della società invece eravamo affondati come un sasso in una palude.

Bevemmo tanto, quella sera, quindi decidemmo di agganciare un server satellitare per trasmettere il mainframe della rivoluzione e lo facemmo.

Settantadue ore dopo la società proseguiva la sua vita immutata.

A nessuno interessavano i nostri dati, anzi era come se non fossero mai esistiti, quasi che le nostre stesse menti folli avessero costruito un complicatissimo mainframe cospirazionista del tutto inutile.

Ci volle qualche altro giorno perché elaborassimo la realtà delle cose.

A tutti andava bene così.

Quei pochi disadattati come noi che presumevano di avere esigenze diverse potevano liberamente allontanarsi dalla società e smetterla di dare fastidio smuovendo il fango della palude nella quale tutti vivevano immobili e attenti a non affondare.

Potete immaginare cosa questo abbia significato su menti già malate. Uno alla volta i miei compagni hanno scelto di morire e li ho seppelliti in mare.

Ora tocca a me, dopo aver impostato una rotta di circumnavigazione del globo mi stenderò a prua, metterò la canzone che mi ha perseguitato in questi mesi di solitudine, quella dei Procol Harum, e prenderò anche io le pillole.

Rimarrete da soli a vivere nella palude dell’entropia mentale senza capire che la fine dell’umanità è passata e nemmeno ce ne siamo accorti.

Forse riaprirò gli occhi sulla spiaggia dell’Isola Nascosta del Monaco Pazzo.

Arturo Fabra

(COMMENTO AD INIZIO RACCONTO)

Arturo titilla la nostra curiosità; che farebbe l’umanità se fosse a conoscenza di qualcosa che cambierebbe la nostra percezione del quotidiano? Forse una guerra, o forse niente. Siete certi di sapere cosa sarebbe peggio?