Deve proprio sorridere - Silvia Roncucci

Deve proprio sorridere – Silvia Roncucci

Silvia Roncucci scrive un racconto che toglie il fiato, letteralmente. E non poteva che farlo con una narrazione che coinvolgesse il Covid, che tanto condiziona il nostro presente – chissà quanto il futuro – . Straziante, crudo e diretto: fa così male perché è scritto dannatamente bene.

Deve proprio sorridere

Dicevano che la nuova normalità era in arrivo. Che il tempo di fare programmi era tornato.

Invece il completo da calcio è ancora nella busta. I pantaloncini neri che ti vanno un po’ larghi e la maglia della Robur che non hai avuto il tempo di sporcare, sono lì. La tua felicità nel provarli, il nostro orgoglio di saperti in una squadra speciale, sono custoditi lì dentro.

La cartella nuova è abbandonata all’ingresso. Ho accettato di comprarla a fatica, che capricci hai fatto per lo zaino più costoso del negozio, con i personaggi di quella serie tv, stupida serie tv, anche se ora quasi mi manca la sua leggerezza.

Il grembiule bianco non è mai uscito dall’armadio. La nonna ha ricamato il tuo nome sul taschino, due volte, perché il colore che aveva scelto non ti andava bene. La testardaggine l’hai presa da tuo padre, non c’è dubbio. Per fortuna: ora un po’ di ostinazione ci serve proprio.

Sul tavolo della cucina ci sono le caramelle che ti hanno dato al compleanno di Alice, come ricordo della serata. Non mangi dolci, solo il cioccolato, in questo sei come tua madre, e come lei quando vuoi riesci a essere gentile, a fare un sorriso per ringraziare di qualcosa, anche se sarà presto dimenticata in un angolo della casa, o gettata via.

«E toglietevi quelle dalla faccia» aveva detto la madre di Alice appena arrivati al ristorante, «ora non c’è più bisogno!»

Lo abbiamo fatto. Tutti quanti. Ti sei divertita a correre con le tue amiche, mentre vi imploravamo di non infastidire i clienti, mettervi le mascherine almeno quando andavate in bagno in due, tre, piccole, rumorose canaglie.

Tre giorni dopo – era il cinque Settembre, l’ho inciso nella testa – hai cominciato ad accusare i primi sintomi. «Non respiro mamma» ripetevi. Ti ho messo a letto, dietro la schiena ho sistemato dei cuscini ma sembravano non servire a niente, ti ho fatto sedere sulle mie gambe, una mano sulla fronte che bruciava e una sul torace per calmare il pettirosso che fremeva lì dentro.

Ora a casa non c’è nessuno. Tra noi e il babbo sta un labirinto di corridoi. Io sono qui vicino, ma non puoi vedermi, perché ti hanno dato dei calmanti e a me non è permesso entrare ad accarezzarti, né andare da tuo padre a dirgli come stai. I messaggi ormai sono il mezzo di comunicazione tra me e lui, chissà quanti ce ne inviamo al giorno.

In borsa ho ancora i risultati degli esami. I nostri negativi e il tuo no. I piccoli vengono aggrediti in maniera meno violenta, dicevano, e questa è la cosa a cui mi sono aggrappata dall’inizio di questo viaggio negli abissi. Sono morti dei vecchi che hanno vissuto abbastanza, mi ripeto, dei malati gravi, e in famiglia non ne abbiamo, pochissimi bambini, gli unici di cui mi importi davvero perché tu lo sei ancora. Solo una bambina.

Mentre sto qui, in attesa che qualcuno mi dia delle notizie o mi permetta di vederti, decido di fare l’unica cosa ragionevole, smettere di programmare, e lo scrivo anche al babbo: d’ora in avanti, in questa famiglia, viviamo alla giornata.

Un medico spunta dal fondo della corsia. Come vorrei stringere la mano di tuo padre, farmi sostenere dal suo sguardo mentre osservo l’uomo avvicinarsi. Ormai lo conosco, anche se non l’ho mai visto davvero, ogni centimetro del suo corpo è coperto, anche gli occhi sono schermati da una visiera.

Dietro la mascherina ora mi pare di cogliere una smorfia. Una parte di me sa che non posso decifrarla. Che non vedrei una brutta espressione neanche se fosse a volto scoperto. L’altra parte è certa di intravedere un sorriso. Sì, deve proprio sorridere. A casa ti aspetta una vita intera.

 

Silvia Roncucci