Gordiano Lupi - Dario Bellezza, il miglior poeta della sua generazione

Gordiano Lupi – Dario Bellezza, il miglior poeta della sua generazione

Sono stato il miglior poeta della mia generazione, dicesti. Ma tu eri intelligente, strano e misterioso, come chi hai lasciato qua, tutti orfani di un padre che non volle mai essere tale, ma che lo era negli atti, e nelle parole, più padre di tutti, più maestro. Sei stato il mio maestro, Pier Paolo, ho imparto da te tutto quel che potevo, succhiando la vita dalla tua anima fino a capire che un poeta non può scindere i versi dalla vita, tutto si confonde e si fonde nelle parole che si scrivono. La poesia è la strada meno vile che può percorrere chi prova insofferenza per la schiavitù del vivere quotidiano inquadrato nelle regole borghesi. E io nasco poeta, a Roma, quartiere di Trastevere, il 5 settembre del 1944, guerra ancora da finire, tanta miseria intorno, tanta fame. Vivo in famiglia, in quel di Monteverde, circondato dalla poesia, ché son vicini di quartiere Caproni, Pasolini e Bertolucci. Amo Roma d’un amore strano, un po’ la rifiuto, un po’ la odio, son suo figlio, comunque, pure se mi attrae il selvaggio calabro, la Basilicata, il mio sud affacciato sullo Jonio. Leggo i maestri, tra questi Rimbaud, ma è Pasolini l’amore della vita, ché i suoi libri sono un sogno in versi, al punto che ne resto infatuato, come un uomo che legge di se stesso e trova la sua vita tra le pagine. Un giorno finisce che lo incontro, Pier Paolo è così grande che mi cambia la vita, giovin poeta mi metto al suo servizio, amico e segretario, rileggo versi, rispondo alla sua posta, correggo bozze, immerso nel suo mondo. Grazie a lui conosco Elsa Morante, Moravia e Penna, Enzo Siciliano, il meglio del mondo letterario di questa Roma mia che mi attanaglia. Fuggo di casa, non è più la mia famiglia, il mio mondo è Roma, casa di Pier Paolo, le strade di una vita non borghese, un padre che comprende la mia colpa. Non è una colpa, ricordo che dicesti, quando leggesti tutte le mie Invettive, è il tuo modo d’essere poeta, è la tua vita, niente ci puoi fare, la cosa peggiore sarebbe tentare di cambiare, nascondersi dietro la menzogna. E io non cambio, non avrei potuto. Vivo con Amelia, per un po’ le cose vanno bene, una strana coppia è quel che noi siamo, e litighiamo, certo, litighiamo, non siamo mica amanti, la casa e la letteratura son le cose che condividiamo. Vado a vivere da solo, in via dei Pettinari, Campo de’ Fiori, conosco meglio Penna, incontro Palazzeschi, poi Raboni che pubblica i miei versi, e Anna Maria, poetessa ragazzina che legge quel che scrivo e poi ne parla. Da tutti prendo il buono che ricevo, mi metto a scrivere, dispenso versi sui miei giorni violenti, articoli di stampa sui giornali, pagine culturali del Paese, poi scrivo L’innocenza. Tutta la mia disperazione di piccolo borghese abbandonato in quelle pagine anticlericali, disperate, che narrano la storia adolescente d’un ragazzino ospite di preti non troppo santi, anzi un po’ perversi. Piace a Moravia che me lo presenta, come le liriche piacciono a Pier Paolo, invettive e licenze anticonformiste, anarchiche, che ostentano i miei vizi privati. Trovo il tempo di fare anche l’attore, sono il sacrestano ladro nel Decameron del mio Pier Paolo, interpreto un ruolo nella storia di Andreuccio da Perugia. Un colpo al cuore quando apprendo la sua morte. Sono a Barletta, ristorante di stazione, dopo aver letto le mie poesie a un pubblico di pochi appassionati, ascolto le parole d’un cronista che racconta il dramma di quel due novembre macchiato di sangue e di dolore. Pier Paolo è morto. Adesso non ho un padre. Scrivere di lui non può bastare. Lui non c’è più. Lui mi ha abbandonato. E io mi sento solo e un po’ perduto. Morte segreta vince il Viareggio, ma non serve un premio quando s’è perso chi sapeva amare, chi ascoltava e poi ti indicava la strada giusta dove poter andare. Scrivo Il poeta assassinato, ma pure quello non potrà bastare, solo un’invettiva ancora da scagliare contro quel vuoto composto di dolore. Due anni dopo muore anche Sandro Penna, comprendo che morire è già nel grembo della madre, se tutti i maestri se ne vanno, si perdono nel buio della notte. Scrivere resta la mia ossessione ma è pure la sola soluzione, questo mi resta, per questo sono nato, me lo diceva sempre anche Pier Paolo. E allora leggo in giro poesie, scrivo sul Tempo e sul Mattino, oltre a Paese Sera, anche L’Espresso, stampa antiborghese che ospita le mie parole scritte con penna intrisa di veleno. Dirigo collane di piccoli editori, conosco giovani poeti, una parola per loro non mi manca, come chi mi ha preceduto, indirizzo la loro vita nel dolore, il solo padre della letteratura. Raboni pubblica i miei versi intrisi d’un amore senza lode che in bocca lascia solo un po’ d’amaro, un bianco lutto che è il piacere estremo, prezioso e violento, servile e dannoso, sapiente e crudo. Scrivo ancora di me stesso, parlo di lui, del solo grande amore, un libro fatto di rimpianti e di lamenti per la bella gioventù che se n’è andata, per una maturità che non arriva e la vita che diventa dolorosa. Io è il solo titolo possibile, dove parlo molto dei miei gatti, racconto il disamore, rimembro quel ch’è stato e che non torna, quasi che fossi un vecchio e mica un quarantenne. Scrivo poesie disperate, intrise di veleno, le raccolgo sotto il nome di Serpentia, contengono tutto il mio dolore e quel che resta della voglia di campare in attesa della morte a liberare dal peso dei miei giorni troppo uguali. Resto sempre più solo, mi sento persino sorpassato, dal tempo, dagli eventi, dalla storia, dal modo in cui si scrive la letteratura. Elsa mi lascia. Elsa mi abbandona. Scrivere di lei lo devo fare, ma non serve, non mitiga il dolore. Fuggo in Basilicata, scappo al mare, amica mia che sei partita senza dire una parola, vado a Rocca Imperiale, casa sul mare, vento di scirocco che sconvolge lacrime e capelli. Non posso stare a lungo lontano dal mio mondo. Sento che Roma è il posto dove vivere, pure se reca solo ansia nel mio cuore. Vado a stare nei luoghi del’infanzia, Trastevere, via Agostino Bertani, verso San Cosimato. Poco mi resta ormai da fare. Muore anche Moravia, e io sempre più solo, abbandonato. Testamento di sangue lo portano in teatro, ma io non ho soldi per campare, la legge Bacchelli di cui tanto ho parlato non viene a soccorrere un poeta. Per fortuna vado in televisione, da Costanzo, parlo di ambiente, litigo con Busi, chiedo il disarmo nucleare e lotto per i diritti del malato. La mia vita è stata una tela di Caravaggio, come la mia poesia, che poi dove sta la differenza? Eros e corpo. Incanto e abbandono. Fuga ed erotismo. Vita e morte. Sregolatezza. Forse le poesie più belle son quelle che non ho pubblicato, ma lo faranno, so che lo faranno. Il romanzo in versi appena progettato, le poesie per Pier Paolo indimenticato, il proclama sul fascino. Fugace è la giovinezza / un soffio la maturità; / poi avanza tremando/ vecchiaia e dura, dura / un’eternità. Credere non ho mai creduto, soffro molto, per cosa non lo so, forse per l’arte. Muoio allo Spallanzani, nel 1996, che ho poco più di cinquant’anni. Roma mi assiste e veglia, matrigna e innamorata. Quanto sei bella Roma anche di notte … ma non saprai mai perché sorrido. 

Gordiano Lupi