Marco Amore e Lucia Russo - Specchio iperbolico o specchietto per le allodole? Parte prima

Marco Amore e Lucia Russo – Specchio iperbolico o specchietto per le allodole? Parte prima

Parte prima

L’arte non è mai riflesso meccanico delle condizioni positive o negative del mondo,

ne è l’illusione esasperata, lo specchio iperbolico.

J. Baudrillard, Il complotto dell’arte

     Da oggi, la sola vera pratica culturale, quella delle masse, la nostra (più differenza) è una pratica manipolatoria, aleatoria: labirinto di segni, che non ha più senso. […] Bisogna dunque partire da questo assioma; Beaubourg è un monumento di dissuasione culturale. Dietro uno scenario da museo, che serve solo a salvare la finzione umanistica della cultura, vi si compie, in realtà, un vero e proprio lavoro di morte della cultura; e le masse sono gioiosamente invitate a un vero e proprio lavoro di lutto culturale. Ed esse vi si riversano. Questa è l’ironia suprema di Beaubourg: le masse vi si riversano non perché spasimino per questa cultura dalla quale sarebbero state frustrate per secoli, ma perché hanno, per la prima volta, l’occasione di partecipare massicciamente all’immenso lavoro di lutto di una cultura che esse, in fondo, hanno sempre detestato. Il malinteso è dunque totale quando si denuncia Beaubourg  come una mistificazione culturale di massa. Le masse, in realtà, vi si precipitano per godere di questa messa a morte, di questo squartamento, di questa prostituzione operazionale di una cultura finalmente ed effettivamente liquidata, insieme a tutta la controcultura, che ne è soltanto l’apoteosi. Le masse si buttano a capofitto su Beaubourg come lo fanno sui luoghi di catastrofe, con lo stesso slancio irresistibile. Meglio: esse sono la catastrofe di Beaubourg. Il loro numero, il loro scalpiccio, la loro fascinazione, il loro prurito di vedere tutto e di manipolare tutto è un comportamento oggettivamente mortale e catastrofico per tutta l’iniziativa. […] È dunque la massa a fungere da agente catastrofico in questa struttura di catastrofe, è la massa stessa che mette fine alla cultura di massa(1).

Baudrillard riconosce nel Centre Pompidou di Parigi – meglio noto come Beaubourg dal nome della strada in cui venne edificato – un <<monumento ai giochi di simulazione di massa(2)>>, un <<inceneritore che assorbe e divora tutta l’energia culturale(3)>>, un ipermercato della cultura immerso nel mare magnum dell’arte; dove l’intervento della critica, come le strategie curatoriali, hanno la sola funzione di colmare la <<presenza vuota>> dell’oggetto che cessa di essere in funzione(4) – che non è più tale, insomma – non cessando, ahimè, di assillarci con la sua presenza mortifera e oggettiva(5). La mansione della critica artistica (ufficiale o meno, artificiale o meno) in questo <<monumento di dissuasione culturale>>, esasperata dalla completa rimozione dell’immagine laddove sia stata compiuta, consta nel supplire alla penuria di téchne dell’opera mediante la mistificazione di ogni senso: cioè di mediare, di fare da medium, fra l’osservatore e il pensiero – peraltro spesso convergente – dell’artista, togliendo l’osservatore dall’imbarazzo di scegliere a cosa prestare attenzione o, se non altro, dall’imbarazzo della scelta di prestare attenzione a qualcosa (ammesso ci sia qualcosa a cui prestarne). L’artista –  poco più che uno strumento nelle mani della critica – diviene esso stesso opera d’arte: l’opera d’arte della critica. Sicché non meravigli se la critica artistica, almeno negli ultimi trent’anni, ha smesso di fornire soluzioni: generando spiegazioni passibili d’interpretazione a loro volta. Ma oltre ciò, la critica si trova nel mezzo di una situazione aporetica senza possibilità si sfuggirle. Epurati i concetti di creatività e genialità, di valore eterno e di mistero – come notificato da Benjamin –, la massa sperava di produrre un’arte proletaria, di massa, facilmente comprensibile (in quanto manifestazione di alcunché), ma che è la massa stessa a rigettare a priori, chiedendo conto delle sue contraddizioni alla critica. Ed è qui che entra in gioco l’abilità del critico di turno, il suo talento, la sua téchne: egli si trova nella condizione di dover spiegare alla massa ciò che la massa sa già o che, perlomeno, dovrebbe già sapere di per sé: la trasparenza di un’arte che è diventata trasparente a se stessa: profusione d’immagini in cui non c’è niente da vedere. Intercettando la delusione generale – quel disincarnato(6) sorriso speculare all’estetica anestetica(7) – la critica prende le misure di una situazione kafkiana: deve giustificare l’insensatezza all’insenziente, l’appariscenza all’apparente – quantomeno a ciò che provoca l’apparenza per procura – facendo leva su dialettica e innata capacità di seduzione. È infatti l’apparenza stessa del discorso, la fascinazione iperbolica del suo insensato autoproporsi (costruita su un ordine di arabeschi verbali inconcludenti) che, affabulando le masse e saturando il vuoto semantico, conferisce senso al nonsenso dando il benservito all’immagine. Dunque il giudizio critico può dirsi tutto o il contrario di tutto, fuorché un valore aggiunto o perfino nominale dell’arte, perché, nel suo essere assolutamente essenziale, rende manifesto lo sfondo di precarietà che demoltiplica: l’essenza fatica di una società utilitarista, improntata su forme di materialismo estatico e sfrenato.

Questo spazio di dissuasione, articolato sull’ideologia di visibilità, trasparenza, polivalenza, consenso e contatto, e sancito dal ricatto della sicurezza, è oggi, virtualmente, quello di tutti i rapporti sociali. Tutto il discorso sociale è lì, e su questo piano, come su quello nei confronti della cultura, Beaubourg è, in piena contraddizione con i suoi obiettivi espliciti, un monumento geniale della nostra modernità. […] Il riflesso più fedele, fin nelle sue contraddizioni, dello stato di cose attuale(8).

 

Parto dal dipinto per una ragione semplicissima: nessun tipo di pratica contrassegno di contemporaneità – dal ready-made alla performance, dall’installazione alla land-art – discende dalla scultura propriamente detta <<a tutto tondo.>> La scultura vera e propria si fa con martello e scalpello, con gradine e sgorbie per la dirozzatura dei dettagli: ha valenza maieutica e non ascendenza insertiva; trae la forma dall’oggetto e non dà forma all’oggetto che ritrae. Le odierne pratiche artistiche affondano le proprie origini nel quadro, nelle pitture rupestri(9) e nell’inserzione intrusiva delle forme. Non vanno annoverate nell’ambito delle arti scultoree (genere che esprime un ideale di purezza formale), né fra le arti plastiche, che educano il duttile all’idea, ma in quello della pittura come decorazione sculturale comparata. Finanche la realtà contemporanea discende dal dipinto. Transizione dell’atemporalità della tela nel reale, conseguente all’ascesa del transeunte temporale del reale nella tela, ci invita a vivere la nostra vita a colori, <<a scatti>>, destrutturandola in selfie per una vivisezione di pubblico dominio; a reclamizzarla sui social fino alla disunificazione del sociale: imporci una vita asociale, virtuale, abdicataria: non unità ontologiche ma importo, non monadi ma monomandatari di un unicum (e unibus pluram, parrebbe), disorganica e inconsistente connessione wireless (perfino una connessione senza fili, virtuale che, estromettendo contatti diretti, si sublima), futile e arborizzata rete di consenso, tele-trasposta dalle tecnologie invasive low cost. La fotografia in analogico come rito sepolcrale pagano(10): istantanea che non immortala né mummifica, perché non c’è nessuno dietro l’obiettivo che ci inquadra: nessuno inquadrato e nessuno ad inquadrare nessuno. Il vecchio corpo macchina contro le periferiche raster: ma noi non esistiamo più, siamo numeri. A malapena statisticamente rilevanti nei sondaggi. Siamo saliti sul piedistallo dell’ego facendo della nostra vita come si fa di un’opera d’arte (dunque prendendo letteralmente in parola D’Annunzio) e di un’opera d’arte la nuda realtà quotidiana. L’una è travalicata nell’altra e viceversa. E sono stati i cubisti ad avviare artisticamente l’eversione. A ciò è da imputarsi l’ammutinamento sociale del reale: il cosiddetto <<mal di vivere>>, fantomatica malattia del secolo(11). I dati allarmanti dell’Oms per il 2017 parlavano di una patologia in crescente diffusione (322 milioni di persone nel mondo, ovvero il 4,4% della popolazione totale), con un tasso di mortalità per suicidio pari ca. a una persona ogni quaranta secondi(12). Le tesi cospirazioniste sono ovunque: il crollo del World Trade Center provocato da un presunto esplosivo posto nelle strutture in precedenza; la <<moon hoax>> dell’allunaggio dell’Apollo 11 (o la più recente missione Rover che non avrebbe mai raggiunto Marte): fake news che metastatizzano il web – disinformazione sistematica e fuorviante e virale – cui è impossibile opporre referenti reali in quanto analogamente inventati(13). Se ci fosse qualcosa di reale a cui rifarsi non esisterebbe una diversa interpretazione dei fatti da inficiare. Ma l’epidemia di depressione clinica è un fatto come l’incapacità a circoscriverla. Qualunque trattamento terapeutico accessibile – dalla medicina tradizionale a quella omeopatica – si limita a curare l’individuo. <<Così l’arte è ovunque>>, dice Baudrillard, <<poiché l’artificio è al centro della realtà. Così l’arte è morte, perché non soltanto la sua trascendenza critica è morta, ma perché la stessa realtà, interamente impregnata d’una estetica che dipende dalla sua stessa strutturalità, s’è confusa con la propria immagine(14).>> Così l’arte che esemplifica l’arte – l’archetipo – può assurgere a parabola del reale. Una realtà che invasando l’arte invasiva ne è invasa realmente a sua volta. Nel primo caso – quello in cui è il reale che invade usufruendo del pittore come medium – scegliamo α) Il ritratto ovale come archetipo. In questo racconto breve del 1842, Edgar Allan Poe espone la singolare storia di un ritratto – <<vignettatura>> di una fanciulla di rara bellezza – rinvenuto nei meandri di un castello abbandonato di recente. Il fascino seduttivo dell’effigie consiste <<in un’assoluta realistica vitalità(15)>>, che dapprima rapisce il narratore intradiegetico, sprofondandolo in lunghe riflessioni e, dopo un’ora di contemplazione ininterrotta, lo sgomenta fino a intimorirlo. Questi, sfogliando il libro dei dipinti trovato riposto sul guanciale, viene a conoscenza delle singolari circostanze in cui il pittore ha portato a compimento la sua opera:

[Egli] era un uomo appassionato, ombroso e lunatico, che sognava a occhi aperti; cosicché non voleva accorgersi che la luce che cadeva così spettralmente in quella solitaria torretta faceva deperire la salute e la vivacità della sua sposa, che sfioriva visibilmente per tutti tranne che per lui. Tuttavia ella sorrideva ancora e sempre, senza lamentarsi, perché vedeva che il pittore (che aveva grande notorietà) traeva un piacere intenso e ardente dal suo lavoro, e lavorava notte e giorno per ritrarre lei che tanto lo amava, ma che diveniva di giorno in giorno più spenta e debole. […] Il pittore distoglieva raramente gli occhi dalla tela, anche solo per osservare il volto della sposa. E non voleva accorgersi che i colori che stendeva sulla tela erano sottratti alle gote di lei che gli sedeva vicino. E quando molte settimane furono passate, e solo poco rimaneva da fare, una pennellata sulla bocca e una sfumatura sull’occhio, lo spirito della donna guizzò di nuovo come la fiamma nel bocciolo della lampada. E allora fu data la pennellata, e la sfumatura fu posta; e, per un attimo, il pittore rimase estasiato davanti all’opera che aveva compiuto; ma subito dopo, perso ancora nella contemplazione, divenne tremante e molto pallido, e atterrito, gridando con una voce forte, “questa è davvero la Vita stessa!” si voltò improvvisamente a osservare la sua amata: Era morta!

Al di là della pessima traduzione dall’inglese (<<gridando con una voce forte>> invece di <<gridando a gran voce>>, nella suddetta frase d’epilogo, basta per farsi un’idea) diremmo che il pittore non corrisponde la sua devota sposa. Infatti, ci rivela fugacemente lo scrittore, egli era <<già sposato con la sua Arte>>, e nondimeno <<chi contemplava il ritratto parlava della sua somiglianza […] come di una grandissima meraviglia>>, una testimonianza non meno della capacità del pittore che del suo profondo amore per colei che andava ritraendo. Dunque la giovane, d’indole mansueta e affettuosa, fungeva da Specchio delle Brame: evoluzione dell’oggetto transazionale infantile; specchio d’acque stagnanti in cui il narcisista incontra se stesso per aver coscienza di sé. Ella è l’altare attraverso cui il folle marito intavola il culto dell’Io in autonomia. Ma forse scambiamo l’amare col suo effetto platonico, la volontà di possesso e il collezionismo di ninnoli costosi. Non comprendiamo che l’amore è insapore come l’acqua, incolore come l’acqua: fuoco che, in qualità di dissetante in abstracto, placa lo stimolo sessuale. Inutile svendere affetto e acquistare souvenir: reificazioni e scambi di mercato c’inebriano, quali anaffettivi o surplus(16). L’angelicare cela un vilipendere implicito: traspone l’amato in chiunque vorremmo che fosse accentuando la sua accessorietà. Così, nelle fiabe, tramutiamo gli uomini in bestie – un avvenente principe in ranocchio – a fonte di astuti disinganni, che disattese le aspettative comuni disincantano risolvendo magie e sortilegi nella controparte subumana che mistifica. Anche l’amore coniugale del pittore è una metafora: ama a tal punto la moglie da assimilarne le membra con lo sguardo. A un punto tale da divorarla intera con gli occhi incarnando l’animale totem in tutte le sfumature del suo prevaricare. <<Divorata>> e non offertasi in pasto per sfamarsi(17), non dipendente affettiva né vittima sacrificale del mostro cui è immolata: nessuna coercizione e nessuna stigmatizzazione in compenso: siamo noi che, condizionati a volere malattie – femminicidio o violenza domestica – e fantasie parafiliche fra partner, nutriamo l’esigenza d’imporre il ruolo di vittima a qualcuno: e siccome i ruoli si sono ribaltati a scapito del maschio – al presente è la donna che ci domina, che sodomizza l’uomo penetrandolo con un dildo strap-on… il suo sempre-turgido membro cui abbiamo opposto “la pillola blu”: donna che, condannandoci al pegging forzato, fa da nemesi maschile nel sociale – sono le donne a gridare assurdamente allo scandalo(18). Dove s’instaura un regime di governo repressivo, i soprusi perpetrati vengono costantemente insabbiati dal gerarca. Così era per i nazifascisti con gli ebrei, così è per le donne con gli uomini. Quando era l’uomo a detenere il potere nella coppia esisteva la causa d’onore: malmenare la moglie era un diritto, se non un dovere da assolvere; e giacché erano le donne che esercitavano violenza psicologica, l’uomo rimediava senza ingerenze da parte di terzi. Oggi sorgono associazioni antiviolenza anche su internet, centri d’ascolto e accoglienza: perché le donne hanno un costante bisogno di parlare, di assillarci con il loro vittimismo, con il loro snervante vaniloquio. Agli uomini non restano che le fantasie di stupro collettivo in cui riversare le proprie frustrazioni(19): sempre più onanisti, catturati nella trance pornografica (specie di video <<amateur>>), aneliamo la donna usa e getta quale donna-oggetto di piacere: completamente asservita alla volontà dell’uomo/dominante, che le infligge umiliazioni da edgeplay – spersonalizzanti, dequalificanti: sputi, schiaffi, calci, penetrazioni brutali seguite da eiaculazioni in pieno volto. Colpito e affondato nella sua virilità, neutralizzato nel suo essere fallico, l’uomo reagisce sopraffacendo la donna, ma unicamente a livello virtuale. Dovesse passare alle vie di fatto malmenandola verrebbe marchiato come bestia – animale in cattività, per l’appunto, non certo animale sociale – quindi messo alla gogna sul piano giuridico e privato senza possibilità di difendersi. Inoltre, poiché è risaputo che <<la violenza è debolezza di argomenti>>, fragile non è chi subisce passivamente violenza ma chi vi fa ampio ricorso(20).  Ecco a cosa ci hanno portato a credere le donne purché gli sia data ragione: vero o falso che sia non è una credenza utile alle vittime per vittimizzare gli aggressori? Martin Luther King Jr. disse: <<La più grande debolezza della violenza è l’essere una spirale discendente che dà vita proprio alle cose che cerca di distruggere.>> Vero. Ma MLK era un afroamericano di Atlanta che lottava per i diritti civili. Ciò non rende quel che professava inesatto, ma la fonte poco attendibile(21). Sempre vero è che stava arringando gli integrazionisti su forme moderate di protesta: a differenza dei Black Panthers, e di un altro leader di colore, il meno pacifista Malcolm X, King capiva che per innescare il cambiamento era controproducente appellarsi alle armi. <<Con la violenza puoi uccidere colui che odia, ma non uccidi l’odio>>, assicura alla folla dal pulpito (da buon reverendo battista). Spostando la rivoluzione dal piano fisico e sociale al più efficace piano ideologico. Portare tragicamente la violenza al suo estremo o mettere in discussione la donna in quanto sesso(22) (<<donne, come faremmo senza di loro…>>, recita svenevolmente un vecchio adagio. <<È arrivato il momento di scoprirlo>>, controbattono gli omosessuali); addirittura mettere in discussione l’essere donna, come fanno drag-qeen e trans-gender: queste le risposte virili all’oppressore che ci infligge trasparenze e décolleté. L’ermafrodito ha passato il testimone all’androgino e alla riproduzione agametica: stile basico (o legato al basicwear) che mina gli stereotipi di genere: emancipazione femminile dei capi di vestiario nell’acromatismo unisex. L’ungendered stava in agguato dietro l’angolo insieme al suo doppio transgenico: non più sogno di riconciliazione genitale, ma incubo di cancellazione sui generis: dematerializzazione meccatronica socioculturale: Idra che invece di continuare a duplicare le sue teste punta all’uniformazione cefalica. <<Uguaglianza di genere>> – falsata in parità dei diritti – previe restrizioni pulsionali: conformismo e agglutinazione culturale spacciati per liberazione sessuale: massificazione per ibridazione dei modelli e de-identificazione individuale: morte. Morte in quanto soggetto, morte in quanto individuo: morte nella vita e, per converso, vita nella morte: una società di non-morti.

 

(1) J. Baudrillard, Simulacri ed impostura, Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, pp. 32-33-34, a cura di Matteo G. Brega, Edizioni Pgreco.

(2) Ivi, pag. 27.

(3) Ibid.

(4) Nei suoi Oggetti platonici l’artista Eugenio Giliberti (Napoli, 1954) desidera porre in evidenza questa perdita di funzionalità dell’oggetto in quanto opera d’arte. Qui abbiamo due sedie di cera, una blu e una rossa (1997), la cui capacità di carico minima, se non proprio insussistente, è comunque inadeguata a reggere il peso umano; un inutile vaso di cera e pigmento giallo (1998), un tappeto incalpestabile (1998) e un quadro invedibile a parete (1998). Gli oggetti che, in ordine di apparizione, conservano una parvenza di funzionalità in qualità di complementi d’arredo sono: il vaso, il tappeto e il quadro. Le sedie lo conservano solo se inutilizzate ad oltranza.

(5) Cfr. Idem, Il complotto dell’arte, SE, pag. 16.

(6) E disincantato.

(7) Letteralmente anestetica, per la sua capacità di abolire la sensibilità d’animo e non perché dona sollievo spirituale o morale.

(8) Idem, Simulacri ed impostura, Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, pag. 29

(9) Ma non nelle incisioni rupestri.

(10) Il soggetto fotografico non è più crisalide di senso, ma sepolcro imbiancato.

(11) Per tacere della depressione giovanile. Uno studio pubblicato sulla rivista Depression and Anxiety dimostra che l’uso prolungato dei social media può essere causa di depressione. Stando a un sondaggio internazionale condotto da Sodexo (società che si occupa di servizi finalizzati a migliorare la qualità della vita) solo in Italia ci sarebbero all’incirca 800 mila giovani depressi.

(12) Per questo la dottoressa Kelly Brogan, specialista in psichiatria e medicina psicosomatica e autrice di un best-seller internazionale del <<New York Times>>, ci mette sul chi vive riguardo il disturbo depressivo. Esso non è da trattare come una malattia a tutti gli effetti, ricorrendo alle risposte di comodo della medicina tradizionale, ma il sintomo manifesto di uno stile di vita scorretto, impostoci dall’alto e abbracciato senza riserve.

(13) Ad es.: dov’è l’esercito nemico? Dove si nasconde Al Qaida? O, andando ancora più indietro, dov’erano i guerriglieri Vietcong? L’atto d’imboscarsi si è perfezionato negli anni fino alla completa sparizione del nemico.

(14) Idem, Lo scambio simbolico e la morte, pag. 89, Giangiacomo Feltrinelli Editore.

(15) Edgar Allan Poe, Tutti i racconti del mistero, dell’incubo e del terrore, pag. 70, Newton Compton Editori s.r.l.

(16) L’amore non parifica, ma si pone fra pari. Ad ogni modo, come diceva George Sand, l’amore è l’ideale dell’uguaglianza.

(17) Come il/la sub nel BDSM.

(18) Un amico (che doverosamente ringrazio) mi fa notare che potrei essere tacciato di maschilismo da sedicenti <<femministe convinte.>> Francamente, trovo più plausibile l’ipotesi inversa: essere tacciato di femminismo dai miei pari <<sciovinisti e fallocrati.>> Per di  più mi accorgo che una serie infinita di blog e quotidiani ci tiene a chiarire che i due termini <<non si equivalgono affatto>>, chiamando in causa la massima autorità in fatto di lingua italiana: <<Termine, coniato sul modello di femminismo…>> Lo sottolineo: coniato sul modello di femminismo, e suppongo non certo dagli uomini. È comprensibile che possegga una connotazione negativa.

(19) Il problema persiste perché non siamo castrati, non ci hanno ancora evirato. Questo è il vero motivo per cui i fondamentalisti islamici esecrano il modello di vita occidentale: non per l’incessante gara di potere per accaparrarci le loro risorse, né per il fattore religioso né tantomeno per il nostro ateismo. Chiunque affermi che l’islam non è una religione violenta mente sapendo di mentire: l’islam è un culto attivo, virile, il cui scopo dichiarato è uccidere o convertire gli infedeli. I martiri cattolici posseggono femminea  resilienza: contrariamente ai kamikaze, si distinguono per i supplizi che subiscono e non per le sofferenze che causano. Anche se perfino il cristianesimo ha più di un periodo virile da scontare.

(20) Allora cos’è che innesca il sentimento di vergogna e il disprezzo verso se stessi, oltre che il senso di colpa, nelle vittime?

(21) Almeno per i segregazionisti bianchi USA che incitavano all’odio razziale e alla violenza.

(22) E madre, con la maternità surrogata. La mercificazione del corpo della donna è un ennesimo attacco al femminile, per cui è lecito che le donne lo percepiscano così.