Mirko Tondi - Brandelli di uno scrittore precario n° 7

Mirko Tondi – Brandelli di uno scrittore precario n° 7

Quella maledetta domanda

Rischio di diventare l’uomo delle premesse, ma anche in questo caso ne faccio una brevissima, che del resto sarà utile al lettore nel prosieguo: per dire quello che voglio dire, ho scelto la strada della leggerezza. Il che, come ha suggerito Calvino in una delle sue Lezioni americane, “non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza penso d’aver più cose da dire”. Ci tengo anche a precisare che non dirò cose da intellettuali, lo prometto (e lo premetto pure, a questo punto). E ciò non perché non voglia, ma perché piuttosto non ne sono capace. Di questo potrebbero lamentarsi forse gli intellettuali stessi, i finti intellettuali, i non intellettuali, perché ognuno, in fondo, vorrebbe sentire qualcosa di vagamente intellettuale anche se non l’ha capito, per rivenderselo al bar con gli amici o per dire soltanto “Ah però, bello quello che ha detto… sì, ma che ha detto?”. Per intenderci, è come vedere un film di David Lynch: tu non sai mai quello che hai visto, ma ti è piaciuto. Va bene, la pre-messa è finita, andate in pace. No, scusate, era per fare una battuta… brutta peraltro (e pure blasfema, per qualcuno), ma vi chiederei di restare, siamo solo all’inizio. Un’ultima cosa, mi raccomando: se doveste rintracciare qualche frase o concetto da intellettuale in quello che dico, sappiate che non era voluto. Buona lettura.

La questione è la seguente, vado dritto al punto: quando mi chiedono se sono un scrittore non so mai cosa rispondere.

Sono uno scrittore nel senso che ogni tanto cerco di scrivere qualcosa? Sì.

Sono uno scrittore nel senso che ogni tanto pubblico qualcosa? Sì.

Sono uno scrittore nel senso che lo faccio di professione? No, purtroppo no.

Non voglio star lì a dire come sia difficile affermarsi e riuscire a vivere di scrittura, questo no, voglio dire solo che c’è differenza tra essere scrittori e fare gli scrittori, la questione sarà stata già ampiamente dibattuta ma mi va di tornarci sopra.

Comunque, esclusi questi problemi di definizione, è sempre meglio di quell’altra domanda: perché scrivi?

Ecco, questa proprio non la sopporto, per piacere non fatemela…

No, no, dico davvero.

La potete leggere in quasi tutte le interviste agli scrittori.

Fateci caso.

E negli anni ho sentito risposte curiose, ingegnose, mirabolanti, persino impossibili.

“Scrivo per scomporre e ricostruire la realtà” (ma che sei, psicotico?)

“Scrivo per deframmentare l’esperienza” (ovvero?)

“Scrivo per fare un po’ d’ordine nel caos” (ci sono anche gli analisti, per quello)

“Scrivo perché non riesco a fare altro” (consegnare i volantini è facilissimo, sai?)

“Scrivo per essere qualcun altro” (se il problema è fisico, oggi fanno degli ottimi interventi di chirurgia estetica… se invece è interiore, ripeto, gli analisti possono tornare comodi)

“Scrivo per raccontare storie” (basta che vai nel primo circolino all’angolo della strada, tra una partita di carte e una di calcio alla tv: sai quante storie ti raccontano?)

“Scrivo perché non ne posso fare a meno” (devono aggiungerlo ai bisogni fisiologici, allora: mangiare, dormire, fare pipì, scrivere…)

“Scrivo perché la scrittura è l’unico posto dove sento di avere un senso” (alienato: forse in questo caso un analista non potrebbe fare niente, mi spiace…)

Da parte mia, le risposte che invece preferisco (alcune delle quali le ho prese dal libretto Perché scrivere di Zadie Smith, edito da Minimum Fax), sono:

Umberto Eco: “Perché mi piace” (oh via, ma era difficile?)

Andrea Camilleri: “Scrivo perché è sempre meglio che scaricare casse al mercato centrale” (onesto no?)

Raymond Carver: “Perché tutto il resto è noioso” (glissa sulla questione in maniera esemplare )

Javier Marías: “Scrivo per non avere un capo e non vedermi obbligato ad alzarmi presto” (fa il paio con Camilleri, e condivido in pieno: mi sembrano ottime motivazioni)

James Ellroy: “Scrivo per i soldi e perché così le donne mi amano” (lui sì che non ha peli sulla lingua…)

Charles Bukowski, alla domanda di Enrico Franceschini “Perché scrive?” (raccontato nel suo libro Vivere per scrivere, edito da Laterza), risponde: Scrivo perché è facile, molto facile, ormai, ci ho preso la mano. E poi perché mi pagano bene, adesso” (altro gran personaggio che diceva ciò che pensava, senza preoccuparsi di dare risposte intelligenti)

Emil Cioran: “Non si scrive perché si ha qualcosa da dire ma perché si ha voglia di dire qualcosa” (questa frase l’ho vista attribuire a Carver, a Fitzgerald, ma è di Emil Cioran, mettetevelo bene in testa)

Flannery O’Connor: “Scrivo perché lo so fare bene” (cosa puoi replicare a una risposta così? Eppure qualcuno dei suoi studenti in aula si irritò quando gliela sentì dire, ritenendola una risposta arrogante. Arroganza del tutto giustificata, nel suo caso)

George Orwell (tra le altre cose, in un elenco di quattro diverse motivazioni): “Per puro egoismo” (del resto, chiudersi in una stanzetta e mettere il mondo in stand-by rinunciando a tutto, cos’è se non un atto di egoismo bello e buono?)

Alexander Pope: “Perché sono uno scrittore” (mi pare la risposta più semplice e allo stesso tempo la più geniale: scrivo perché sono uno scrittore, non è questo in fondo?)

E quest’ultima citazione, di Alexander Pope, mi rimanda a qualcosa che ha a che fare con l’identità. Nel primo post di questa rubrica ho raccontato di essermi licenziato da un lavoro a tempo indeterminato per rincorrere il sogno della scrittura. Ho fatto cenno anche alle relative dannazioni che ne sono seguite. Ciò che non ho riferito è invece questo significativo (“significativo” secondo me, certo) dialogo con mia madre:

«Mamma, mi sono licenziato.»

«Ah… e perché?»

«Perché questo lavoro non mi rappresentava più. È un problema di identità, mamma, di identità…»

«…»

Silenzio. Sono sicuro che in quel silenzio ci fossero contenuti dubbi e domande, può darsi persino che mia madre abbia pensato a quale follia avessi appena compiuto, ma sta di fatto che non disse niente.

Identità: di scrittore e di persona, due identità distinte che però talvolta si fondono in una soltanto, senza possibilità di distinguere più; ed ecco che allora ci ritroviamo a scoprire una storia in ogni scena che vediamo, a scovare uno spunto narrativo in un dettaglio, in un gesto semplice, in un’immagine quotidiana, e la realtà che si dispiega sotto i nostri occhi diventa “materia da romanzo”. “Come diceva Balzac: altra materia da romanzo”, battuta di Woody Allen dopo essere stato a letto con Diane Keaton in Io e Annie, allungando il tempo di un atto ormai finito, consumato, dissolto nel distaccarsi di due corpi.

Devo dire che, per quanto mi riguarda, i motivi dello scrivere sono cambiati più volte nel corso degli anni. Se all’inizio significava divertimento ed evasione, dopo mi sono accorto che scrivere non era mai una cosa soltanto ma poteva essere scoperta, ricerca, ambizione, riscatto, desiderio di affermazione, vendetta, dolore e mille altre cose. Ma poi mi sono accorto pure che nella scrittura non dovevano mancare due elementi fondamentali, il piacere e il gusto, cose di cui Bradbury rende benissimo conto nel libro Lo zen nell’arte della scrittura: “Solo questo: se scrivi senza piacere, senza gusto, senza amore, senza divertimento, sei solo un mezzo scrittore. Significa che sei così occupato a tenere d’occhio il mercato o a prestare orecchio al versante avanguardistico, che non sei te stesso. Non conosci neanche te stesso. Prima di tutto uno scrittore dev’essere, è, agitato. Dev’essere una cosa di febbri ed entusiasmi. Senza questa forza, farebbe bene a uscire a raccogliere pesche o a scavare dei fossi; Dio sa che sarebbe meglio per la sua salute.”

Una cosa di febbri ed entusiasmi: non credo si possa dire meglio di così.

Oggi come oggi sarei ancora indeciso a rispondere a questa domanda, potrei dire che scrivo per essere letto, scrivo per provare a farmi ricordare in mezzo a tanti libri inutili là fuori, scrivo perché non posso non scrivere, scrivo perché mi rende felice e non scrivere al contrario mi deprime, ma più di tutto – senza pericolo di avvicinarmi a quegli intellettualismi di cui dicevo prima – potrei dire che scrivo per finire qualcosa, perché d’altra parte sono una persona inconcludente, che inizia mille cose e ne finisce mezza, e che guarda caso ha trovato la sua dimensione nella scrittura, l’unico campo in cui riesce a terminare, a portare in fondo qualcosa che ha cominciato. Ma adesso una domanda, se posso, cari lettori (vi blandisco alla maniera di Dostoevskij nel libro Le notti bianche, lo so, ma che ci volete fare, gli scrittori vivono di espedienti), la rovescio a voi: pensate che tutto sommato sia davvero così importante sapere perché si scrive?

Mirko Tondi