Maria Gestri – Dinqinesh

Dinqinesh

Quella notte il Terrore Maculato non era venuto.

Nonostante questo, Dinqinesh, una piccola ominide già adulta, dell’età di circa 18 anni, non era riuscita ugualmente a chiudere occhio, ed era rimasta accucciata sullo stretto bordo di pietra che era davanti all’ingresso della grotta.

Dal giaciglio di foglie secche posto verso il fondo della caverna, su cui di solito tutti loro si stendevano, venivano degli scricchiolii lamentosi che risuonavano nel silenzioso buio della notte, solo a tratti illuminato dai flebili raggi di una luce a metà.

Forse la bestia aveva ancora lo stomaco pieno della sorella di Dinqinesh, che la notte precedente era stata trascinata fuori tra gli urli e strepiti dell’intera famiglia, senza che nessuno avesse potuto o voluto impedirlo.

Infatti, pur senza esserne pienamente coscienti, tutti loro sapevano istintivamente che, di solito, passavano alcuni “luce e buio” prima che il felino tornasse a colpire.

Circa 3,18 milioni di anni dopo, dei pro-pro-pronipoti di Dinqinesh avrebbero dato a quel Terrore Maculato dai lunghi canini superiori ricurvi, il nome scientifico di “Dinofelis” (1)

Ma  Dinqinesh quella notte non riusciva a dormire.

Non possiamo veramente dire che “pensava” alla sorella, in effetti nemmeno sapeva che lo fosse, come non sapeva chi, tra i maschi del gruppo, fosse suo padre; questi erano concetti che il suo piccolo cervello di scarsi 500 cm. cubici non sapeva ancora formare.

Per un breve periodo aveva “ricordato” solo sua madre, anche dopo che questa l’aveva scacciata e si era dedicata ad un piccolo fratello che era nato all’incirca tre anni dopo Dinqinesh.

Entrambi erano stati preda del Terrore Maculato che li aveva catturati sul terreno, mentre tutta la famiglia si spostava da un’ isola di foresta all’altra, attraversando le aride pianure africane bruciate dal sole e coperte da alti steli d’erba secca, formatesi a causa del cambiamento climatico conseguente alla formazione della Rift Valley.

Quel giorno il capo del gruppo, che era anche il maschio più forte, dopo aver inutilmente cercato del cibo,  radici, bacche, piccoli insetti, vermi e rane, (ormai tutti loro erano onnivori) sia sugli alberi che sul terreno, aveva “capito” che la famiglia aveva ormai mangiato tutto quello che la piccola foresta poteva offrire e aveva quindi dato il segnale  di partenza.

Tutti si erano avviati verso il limite dell’ombra, alcuni di loro procedendo ancora da un albero all’altro ma tutti, giunti dove gli alberi finivano, erano scesi sul terreno e si erano fermati, strepitando tra loro e guardandosi febbrilmente intorno, attendendo che il capo facesse il primo passo.

E proprio di veri passi si trattava…(2)

Infatti, già da circa tre milioni di anni gli antenati di Dinqinesh avevano iniziato a scendere dagli alberi e a fare qualche incerto passo sul terreno,  ma al tempo della piccola ominide questo tipo di andatura bipede, che lasciava le mani libere e soprattutto permetteva di vedere i predatori nascosti nell’erba alta, era ormai un carattere distintivo in gran parte acquisito. (3)

Dinqinesh era molto brava e lo era anche il capo che, guarda caso, era suo padre, ma molti di loro ancora non padroneggiavano bene questa nuova tecnica e, tra questi, c’era proprio sua madre.

Costei, forse impacciata dalla presenza del piccolo di sei mesi che si dimenava attaccato alla sua corta pelliccia, oppure frastornata dalla bruciante luce solare che abbagliava gli occhi dopo l’ombra della foresta, si mosse appena al segnale del capo, fece tre incerti passi sotto il sole e quindi, inebetita e confusa, rimase immobile, mugolando piano, la peluria marrone ben stagliata contro il giallo dell’erba secca.

Fu un attimo: un lampo fulvo si materializzò dietro di lei, chiuse i lunghi canini sul suo collo e trascinò entrambe le prede di nuovo dentro la foresta.

Proprio in quel momento Dinqinesh, che aveva raggiunto la nuova ombra, si era voltata per aspettare gli altri e fu testimone di quanto accaduto.

I suoi piedi, così simili ai nostri, si mossero istintivamente verso la madre, fece due, tre passi… e quindi fu trascinata di nuovo al riparo dal capo, arrivato nel frattempo.

Questa tragedia non turbò la famiglia più di tanto, tutti si misero immediatamente a mangiare delle bacche blu su alcuni cespugli vicini e anche Dinqinesh, dopo pochi secondi, non ci pensò più, anche se, per un po’ di tempo, ogni volta che vedeva una femmina del gruppo allattare un piccolo, sentiva qualcosa che non capiva, uno struggimento che la spingeva ad avvicinarsi e a tentare di toccare i due, prima di essere mandata via da ringhi e mostrar di denti.

Dal giorno della cattura della madre erano passati circa quindici anni e la piccola ominide era giunta ormai a oltre metà della sua vita. (4)

Dinqinesh era sopravvissuta ad innumerevoli pericoli, alla siccità, alla carestia, alla continua fame, al Terrore Maculato. Era cresciuta e aveva raggiunto ormai l’altezza definitiva di circa 107 centimetri per una trentina di chili di peso. Si era accoppiata con due, tre maschi del gruppo ed era diventata madre 4 volte.

Di questi figli, due erano sopravvissuti e il primogenito, più giovane di lei di soli 9 anni, era diventato uno dei maschi più alti e grossi del gruppo che contava ormai circa quaranta individui.

Tutti loro ormai padroneggiavano abbastanza bene la nuova andatura e la utilizzavano molto più spesso di prima, anche perché avevano “scoperto” che, mentre si spostavano, con le mani potevano portare diversi oggetti, bastoni e  pietre per difesa, bacche e tuberi per membri della famiglia feriti o malati che non potevano nutrirsi da soli.

Era stata proprio la piccola ominide la prima artefice di questa “scoperta”.

Ecco com’era andata.

Un po’ di tempo prima, un’altra femmina del gruppo, più piccola e meno sveglia di Dinqinesh,  era rimasta ferita mentre scendeva a terra dalla caverna. Era piovuto durante la notte e la pietra era scivolosa. La femmina era caduta da un’altezza di circa cinque metri e si era slogata una spalla e fratturata una tibia.  Urlando di dolore, era riuscita a tornare nella caverna (rimanere sul terreno ferita sarebbe stata una condanna a morte), ma certamente non avrebbe potuto nutrirsi.

Nei primi tre giorni in cui non aveva ne’ mangiato ne’ bevuto, al rientro degli altri alla sera, la piccola femmina aveva pianto e si era lamentata, cercando di aggrapparsi agli altri, ma nessun capiva che fare.

La terza sera Dinqinesh, agitata e spaventata per l’agitazione e i forti lamenti della femmina,  con un inspiegabile e inaspettato sforzo mentale riuscì, non si sa come, ad “immaginare” un ramo di bacche dentro la caverna.

Questo  “flash” che altro non era che un “pensiero astratto”, forse il primo in assoluto di questo genere sulla faccia della terra, quasi fece svenire la piccola ominide tanto era strano e alieno.

L’associazione “bacche-cibo” e “bacche-cibo-femmina-caverna” si formò casualmente ma prepotentemente tra i suoi “pensieri” così animaleschi e istintivi.

Dato che non era ancora buio, Dinqinesh si precipitò giù per le ripide rocce, camminò per circa cento metri e si imbattè in un cespuglio di bacche blu.

L’istinto la fece cominciare a mangiare, ma dopo le prime tre bacche ecco di nuovo l’ ”immagine aliena” delle bacche dentro la caverna e questa volta accanto c’era la piccola femmina che si nutriva.

Con uno sforzo sovrumano smise di mangiare e raccolse una decina di bacche nelle mani. Tornò indietro e, non senza difficoltà, riuscì a risalire alla caverna.

Gli altri rumoreggiavano e brontolavano, la sua uscita li aveva lasciati stupiti e impauriti.

Dinqinesh mise le bacche davanti alla femmina ferita.

Gli altri guardavano, attoniti. Un’altra femmina allungò la mano, ma un ringhio di Dinqinesh la fece fermare.

L’ominide ferita all’inizio non ebbe il coraggio di muoversi, Dinqinesh era più grande e più forte e di sicuro avrebbe rimediato un morso.

Ma Dinqinesh spinse di nuovo le bacche verso di lei e la piccola femmina allora si arrischiò a mangiarne una. Quando vide che non succedeva niente si gettò famelica sulle altre, che sparirono in un baleno.

Gli altri, che avevano osservato tutto con espressioni stupite e attonite sul volto, ammutolirono improvvisamente.

Dopo pochi istanti, però, il capo si battè con forza le mani sulla testa ed emise quel singolare vocalizzo che faceva quando trovava qualcosa di particolarmente buono o abbondante, tipo un nido di termiti o un favo di miele, oppure quando qualcosa di piacevole lo gratificava, come una femmina che lo spulciava.

Era un po’ grugnito, un po’ esclamazione, un po’ lamento, ma comunque significava meraviglia, stupore:

 “dii..kii neees…”

Non ci furono ovviamente ringraziamenti, solo qualche ulteriore mugugno e i sospiri soddisfatti della piccola femmina che aveva finalmente qualcosa nello stomaco, e tutti si misero a dormire.

Ma nei giorni successivi Dinqinesh portò sempre qualcosa alla femmina ferita e, dopo un po’, cominciarono a farlo anche il capo e un paio di altri maschi.

Dopo circa un mese la femmina fu di nuovo in grado di andare a nutrirsi da sola.

Da quella volta il gruppo di Dinqinesh iniziò stabilmente a comportarsi in questo modo: erano iniziate ufficialmente le cure parentali non limitate alla sola prole, bensì all’intera famiglia o gruppo di appartenenza.

Questo comportamento fu una scelta evolutiva di enorme importanza, che ebbe  un immenso peso nel successo della specie.

Il “verso” emesso quella sera dal capo divenne quello con cui l’intero gruppo iniziò a rivolgersi alla piccola ominide coraggiosa: “meravigliosa”.

Ma torniamo alla notte in cui Dinqinesh non riusciva a dormire.

Seduta sul bordo di pietra della caverna, ascoltava i rumori della notte e guardava attentamente in basso per non farsi sfuggire l’eventuale comparsa di due occhi gialli e brillanti.

Ma tutto taceva e quella mezza luce nel cielo permetteva di vedere le cime degli alberi e le montagne in lontananza.

Era un’immagine molto bella e serena, ma queste sensazioni purtroppo non erano ancora comprensibili da Dinqinesh, che invece era ancora inquieta per l’assalto della sera precedente.

Si mosse a disagio sul pavimento di pietra e all’improvviso quasi urlò di dolore:

si era seduta su una pietra appuntita che si era conficcata per un centimetro buono nella coscia destra.

La piccola ominide si leccò la ferita e, senza sapere perché ma solo per rabbia e paura, prese la pietra e la scagliò nel buio davanti a lei. Dopo pochi secondi la sentì cadere a terra con un tonfo.

Non era la prima volta che sia lei che altri del gruppo lanciavano pietre e bastoni per difendersi da qualche iena intraprendente o da un grosso rinoceronte nervoso.

Ma in quel momento Dinqinesh improvvisamente ebbe un altro momento di “straniamento” simile a quello che aveva avuto quando aveva “immaginato” il ramo di bacche nella caverna.

Nella sua piccola mente questa volta si formò l “immagine” di un piccolo roditore peloso che tante volte aveva visto ergersi sulle zampe posteriori sul bordo della propria tana, quando il gruppo attraversava la savana nelle sue migrazioni in cerca di cibo.

Ma questa volta l’animaletto era steso a terra coperto di sangue e accanto a lui c’era la pietra appuntita che Dinqinesh aveva lanciato.

La piccola ominide lanciò uno strillo acutissimo e cadde a terra come fulminata, raggomitolandosi in posizione fetale e tremando visibilmente.

In quel momento i neuroni del suo piccolo cervello stavano percorrendo strade inesplorate, e le sue sinapsi formavano collegamenti mai apparsi fino a quel momento sulla terra.

La femmina nutrita da Dinqinesh, che da allora le era stata sempre accanto, si avvicinò e si distese accanto a lei, quasi abbracciandola. Entrambe si addormentarono e al mattino dopo Dinqinesh non ricordava più nulla.

Il sole si era levato da poco quando il capo emise il grugnito che significava partenza, e tutto il gruppo, salvo un paio di femmine con i piccoli, scese sul terreno e iniziò a foraggiarsi.

Dinqinesh camminava lentamente cercando radici quando, alla base di un grande albero, intravide una pietra simile a quella lanciata la sera prima.

O era la stessa?

Non lo sapremo mai, però sappiamo per certo che, senza sapere perché, la raccolse.

Quel giorno la piccola popolazione di ominidi avrebbe dovuto lasciare quella foresta, ormai ampiamente sfruttata, per spostarsi nell’altro gruppo di alti alberi che si intravedevano a ovest (beh, per loro non era ovest, era …là.)

C’era da percorrere un bel tratto scoperto e il gruppo, come sempre in questi casi, era inquieto e agitato.

Il capo chiamò Dinqinesh che era veloce e le fece segno di partire per prima, cosa che la piccola ominide fece, guardandosi ansiosamente intorno.

Sembrava proprio che non ci fossero pericoli, quindi Dinqinesh iniziò la sua corsetta ancora un po’ incerta ma comunque efficace.

Dopo pochi passi si immobilizzò improvvisamente:

davanti a lei era apparsa una tana di quei piccoli roditori pelosi, alcuni di loro dormivano stesi al tiepido sole, mentre uno di loro faceva la guardia.

Questi degnò appena di uno sguardo Dinqinesh e gli altri.

Non era da quel gruppo di alti e buffi animali chiassosi che arrivava di solito il pericolo.

Continuò quindi a controllare l’orizzonte in cerca di artigli e musi pieni di denti.

Dinqinesh ebbe quasi uno svenimento.

Prepotente come un fulmine, l’ “immagine” dell’animaletto steso a terra tornò a illuminare la sua piccola mente confusa.

Mancava qualcosa, però. Mancava la pietra accanto al corpo del roditore e mancava il sangue.

Senza quasi esserne cosciente, Dinqinesh abbassò lo sguardo sulla mano destra,  così simile alla nostra.

Come in trance, fece qualche passo incerto verso i piccoli addormentati, si fermò, fece un passo indietro, guardò il capo, che nel frattempo l’aveva raggiunta.

Non sapeva perché si era fermata, non sapeva che fare…

Poi, di getto, balzò sopra il mucchio di animaletti e vibrò, più volte e con forza, la mano armata della pietra appuntita.

Nel giro di pochi secondi era tutto finito.

Quattro, cinque roditori giacevano sul terreno, chi con la testa schiacciata, chi con la schiena spezzata.

Dinqinesh si guardò intorno sbalordita. Ma che era successo?

Lasciò cadere la pietra, prese in mano un animaletto, lo scosse, lo tese al capo che lo prese e, non sapendo che farsene, lo lasciò cadere di nuovo a terra.

Gli altri, arrivati nel frattempo, rumoreggiavano e strillavano.

Come posseduta da qualcosa di molto più intelligente di lei, la piccola ominide raccolse l’animaletto insanguinato e, di nuovo, “ricordò” quando, nella caverna, aveva leccato il proprio sangue.

Quindi leccò il sangue del roditore. Una volta. Due volte.

Il sapore un po’ dolce, un po’ ferroso le stuzzicò lo stomaco, vuoto ormai da molte ore. La pietra appuntita aveva aperto la schiena dell’animale e dalla ferita fuoriuscivano dei brandelli di carne rossa.

Quasi inconsapevolmente, Dinqinesh dette un morso a quei brandelli, staccando una bella porzione di carne.

Masticò … inghiottì…

Arrivò immediata la gratificazione dei succhi gastrici che si misero in moto:

un sapore così “fresco” e piacevole non era mai stato assaporato da un primate negli innumerevoli milioni di anni trascorsi dai tempi del dominio dei grandi rettili, e di sicuro non assomigliava a quello delle carogne mezze putrefatte e disdegnate persino dalle iene che ogni tanto Dinqinesh e il suo gruppo trovavano nella savana.

Gli altri guardavano Dinqinesh senza sapere che fare, strillando piano e saltellando in qua e in là, e anche la piccola ominide sembrava inebetita e quasi distrutta dalla fatica di aver elaborato questo nuovo comportamento: si limitava a stare ferma con l’animaletto in mano, come ipnotizzata.

Qualcuno si allontanò, spaventato di essere all’aperto e così indifeso, altri si sedettero annoiati e si misero a cercare semi, un paio raccolsero dei sassi e iniziarono a sbatterli per terra.

Inconsapevoli che il loro destino, come individui e soprattutto come specie, così com’era in bilico tra un’azione oppure un’altra, stava per compiersi.

In quel momento intervenne il maschio grande e grosso (vi ricordo che era il figlio di Dinqinesh) che, rapinoso, raccolse i piccoli cadaveri e incitò, con forti grugniti e qualche spinta, il gruppo a proseguire.

Arrivati di nuovo sotto la relativa sicurezza degli alberi, il maschio si accosciò sul terreno e, fissando Dinqinesh negli occhi, dette un morso ad un piccolo corpicino. Masticò, sputò un  po’ di pelo e continuò finché non rimasero che poche ossa che gettò per terra.

Una piccola femmina, forse per imitazione, raccolse una pietra e la sbattè con forza sulle ossa che si frantumarono. Qualcosa di rosso e succoso brillava all’interno, che la femmina fu lesta a leccare, mugolando di piacere.

Ed ecco che tutti gli altri, chi con i denti, chi con pietre e bastoni, iniziarono a percuotere i restanti animaletti e a mangiare carne e midollo.

Loro non lo sapevano, ma non avrebbero sofferto più la fame e, con alterne vicende, i loro discendenti avrebbero prosperato sulla terra per … beh, non sappiamo ancora con precisione per quanto.

Al tramonto il capo dette il segnale di mettersi al riparo.

Purtroppo in quella piccola foresta, che sorgeva sul bordo di una palude alimentata da un torrentello proveniente dalle lontane montagne, non c’erano delle rocce abbastanza alte e soprattutto non c’erano caverne in cui rifugiarsi per la notte.

Non era un grande problema, gli ominidi erano abituati anche a dormire sugli alberi, l’avevano fatto per milioni di anni.

Si arrampicarono agilmente sulle cime più alte, cercando una posizione confortevole. Erano però tutti un po’ agitati e nervosi per le novità della giornata, quanto accaduto stava creando nuove connessioni e confuse “immagini” in quei cervellini poco più grandi di quelli degli scimpanzè.

In più, alcuni di loro, erano anche piacevolmente sazi.

Dinqinesh trovò una biforcazione comoda e si appoggiò al tronco ruvido. Pian piano si fece buio, ma il sonno non arrivava.

Nel cielo c’era la solita mezza luce sbiadita che Dinqinesh guardava così spesso. Si agitò e mugolò un po’ e diversi altri le risposero.

Il tempo passava …

-“Ma la luce a metà si era spostata? Ma come era possibile?

Allora era viva, se poteva camminare in quella grande pianura, blu di giorno e nera di notte, che era sopra le loro teste”.

Dinqinesh ricordava bene che l’aveva vista poco prima sbucare tra il ramo più grande sopra di lei e quella fronda più bassa, mentre adesso non era più lì, ma più in su, verso la cima dell’albero.

Questa nuova scoperta la fece balzare in piedi dallo stupore ed emettere uno strillo più forte.

Il suo movimento fece scappare un piccolo animaletto notturno che iniziò a correre su un ramo soprastante.

Dinqinesh “immaginò ancora” di poterlo catturare e spiccò un balzo verso di lui.

Ma quella pallida luce a metà le tirò un brutto scherzo, proiettando delle finte ombre di rami dove di rami non ce n’era, e Dinqinesh precipitò al suolo da un’altezza di circa quindici metri.

Cercò freneticamente di aggrapparsi a qualcosa, ma lo slancio del salto non le permise di essere coordinata e piombò sul terreno con un rumore sordo.

Nell’attimo prima di schiantarsi, allungò il braccio per attutire la caduta, fratturandosi l’omero destro, quindi anche il bacino si ruppe, assieme a un ginocchio  e a qualche costola.

Dinqinesh si lamentò flebilmente, quindi svenne.

Dagli altri, al sicuro sugli alberi, venivano strilli e mugugni, ma nessuno si azzardò a scendere, troppo grande la paura del Terrore Maculato, troppo radicato l’istinto di sopravvivenza.

Stranamente quella notte il felino doveva aver scelto un altro territorio di caccia, perché le prime luci di un mattino stranamente piovoso trovarono Dinqinesh ancora intera.

La piccola ominide aprì gli occhi. Una grave emorragia interna le procurava un forte dolore e anche tanta sete, quindi iniziò a strisciare verso l’acqua melmosa dell’acquitrino. Con enorme sforzo raggiunse la riva  e cercò di bere.

La pioggia iniziò  a bagnarla e lei inconsciamente strisciò ancora, un centimetro alla volta, cercando riparo in un mucchio di canne palustri.

Sfinita, giacque sul dorso con gli occhi chiusi e perse nuovamente conoscenza.

La pioggia continuava e ben presto il livello della fangosa palude si alzò, nascondendo Dinqinesh agli occhi del mondo e soprattutto dei predatori e mangiatori di carogne.

Gli altri, soprattutto il capo e il maschio grande e grosso, quando al mattino scesero dagli alberi, la cercarono sul terreno.

I loro richiami: dii..kii..ness.. risuonarono per un po’.

Dinqinesh non c’era più e loro la dimenticarono velocemente.

Era stata fondamentale per la sopravvivenza del suo gruppo che, grazie a lei, avrebbe prosperato,  tramandando con il tempo i comportamenti acquisiti ed evolvendosi in tanti altri rami  e rametti, tutti facenti parte del grande cespuglio di ominidi (o, termine più corretto, di ominini) dai quali, circa 3,18 milioni di anni dopo, sarebbe derivato il padrone del mondo.

Sarebbe passato infatti tutto questo tempo prima che i suoi fossili parlassero ancora di lei.

Ma questa è un’altra storia.

          LUCY

24 Novembre 1974

Un giovane antropologo di 31 anni, Donald Johanson, si trova nella località di Hadar, sito archeologico situato nella depressione di Afar. luogo molto gettonato dai paleoantropologi per ritrovamenti precedenti.

Il sito A.L.162 è già stato esplorato e perlustrato in maniera approfondita, ma quel giorno Donald si sente fortunato e quindi, nonostante i quaranta gradi, lascia il noioso lavoro amministrativo e. assieme al suo dottorando Tom Gray, decide di andare a dare un’altra occhiata.

Subito prima di rientrare al campo base, Donald Indica una piccola gola poco lontano, anche quella già visitata.

-”Andiamo là”

Subito nota qualcosa sul terreno:

-”Quello sembra proprio il braccio di un ominide”

– Ma no, è troppo piccolo, sarà di una scimmia”, risponde Tom.

Ma Donald è sicuro,  anche perché, lì accanto, ecco apparire un altro fossile, precisamente la nuca di un cranio, decisamente ominide, quindi qualche vertebra, alcune costole, buona parte di un bacino.

I due sono emozionati, stanchi e sudati si abbracciano nel silenzio del deserto etiopico.

_” e se appartenessero tutti allo stesso individuo”’?

_” se è così, è sicuramente una femmina, guarda il bacino”

_ “attento a non pestare qualcosa”

_ “dobbiamo cercare bene, non ci deve sfuggire nulla”.

Inutile dire che quella sera ci fu festa grande al campo base, tutti erano euforici, bevevano e ballavano sulle note di “Lucy in the sky whit diamonds”  dei Beatles.

Ed è proprio da questa canzone, suonata e risuonata quella sera, ma anche

per le successive due settimane in cui il gruppo ispezionò palmo a palmo tutta la zona, trovando ancora altri frammenti di fossili, che nasce Lucy, la nostra piccola ominide che rivoluzionerà la paleoantropologia, e che diventerà anche l’ambasciatrice delle nostre origini.

In tutto furono portate alla luce cinquantadue ossa, circa il quaranta per cento dello scheletro, una cosa mai vista fino a quel momento.

La parte superiore aveva le caratteristiche di una scimmia antropomorfa, ma il bacino e soprattutto il femore e la tibia dimostravano chiaramente l’adozione sia di una postura eretta che del bipedismo.

Tutti voi ricordate sicuramente l’iconica “marcia del progresso”, inventata e disegnata per la prima volta nel 1965 dal paleoartista Rudolph Zallinger.

Non ricordate?

Ma si, quella figura, quel disegno così famoso e ampiamente usato da scienziati, biologi e antropologi, ma anche da pubblicitari, scrittori e disegnatori.

Quell’immagine che all’inizio mostra una figura scimmiesca, antropomorfa, primitiva, piegata su 4 arti, seguita poi da altre figure, tutte un pochino più dritte, meno pelose, più alte, più “umane”, fino a terminare con le ultime due, una ancora un po’ arcaica e con la lancia in mano e l’altra decisamente uguale a noi.

Dobbiamo precisare che il disegno originale prevedeva 15 figure, accanto a ciascuna delle quali una banda colorata indicava il nome, il periodo in cui erano vissute e le principali caratteristiche di ciascun “antenato”.

Era stata disegnata per meglio illustrare la teoria espressa da uno dei massimi esperti in biologia evoluzionistica dei primi anni 50, il Dr. Ernst Mayr della Harvard University che, nel prestigioso Cold Spring Harbor Laboratory di Long Island, aveva teorizzato un’evoluzione “in linea retta”.

Nel tempo, si sono perse per strada 9 figure e anche tutto il contorno, cosa che ha contribuito a travisarne sempre più il significato.

Già, perché oggi sappiamo con certezza che quella teoria, così bella e accattivante, così tanto utilizzata in diversi ambiti per simboleggiare la nostra evoluzione è… sbagliata.

Dopo settanta anni di ricerche e soprattutto dopo numerosi ritrovamenti fossili di diverse epoche, oggi si pensa all’evoluzione non più come a una linea retta e nemmeno come a un albero (come aveva ipotizzato Darwin), dal cui tronco principale si diramano vari rami, bensì risulta pressochè universalmente accreditata l’immagine di un cespuglio, dal quale diverse linee evolutive si sono sviluppate ed evolute parallelamente, alcune arrivando fino ad oggi ed altre che si sono estinte.

Oggi sappiamo per certo, grazie all’esame del DNA mitocondriale, quale sia la distanza genetica tra le diverse specie di scimmie antropomorfe e l’uomo moderno.

La separazione del ramo dal quale si è evoluto Homo Sapiens (e quindi noi) da quello di gorilla, scimpanzè e bonobo è avvenuta all’incirca sei milioni di anni fa e, nel periodo tra i tre e quattro milioni, i numerosi fossili ritrovati dimostrano la coesistenza di diverse specie di ominini, tutti più o meno in grado di utilizzare l’andatura bipede, nonostante questo non andasse di pari passo con l’aumento del cervello, a riprova che l’evoluzione agisce su caratteristiche diverse in tempi diversi, non linearmente ma in una specie di mosaico, dove l’acquisizione di una determinata capacità (bipedismo) poi comporta a cascata il miglioramento di altre peculiarità.

Tutto questo per dire che la paleoantropologia, come molte altre discipline scientifiche,  non è una scienza esatta e le teorie possono cambiare in un batter d’occhio, anche se formulate dai più grandi personaggi.

E infatti, a distruggere la teoria del grande professore di Harvard, fu proprio la scoperta di Lucy.

Ci vollero ulteriori quattro anni perchè la piccola ominide ricevesse il nome di specie:

il fossile fu battezzato Australopitecus Afarensis, specie che in breve tempo si arricchì di molti altri individui relativi a ulteriori numerosi ritrovamenti, alcuni proprio nella stessa località dove è stata trovata Lucy. (la famosa “first family e Dikika “la figlia di Lucy”). (5)

All’epoca del ritrovamento di Lucy e nei trenta anni successivi, la comunità scientifica modificò le proprie convinzioni, finendo per considerare la piccola ominide come la “matriarca” dell’umanità.

Ma, dato che i fossili non smettono mai di raccontare la loro storia, sia per nuovi ritrovamenti che per nuove tecniche, metodi e strumenti di analisi, ecco che, ad oggi, una parte della comunità scientifica tende invece a considerare Lucy più come una “pro-pro-zia” che come una diretta  antenata.

A riprova di quanto i fossili possano ancora dirci, un recente studio (2024) dell’Università del Texas (Austin), che si è avvalso di analisi dettagliate (TAC), di consulenze specialistiche  (ortopedici) nonché del supporto di uno scheletro/replica di Lucy stampato in 3D, ha notato una serie di fratture anomale.

Ad esempio, sull’omero destro sono presenti una serie di piccole fratture nette e taglienti, con frammenti ossei che non mostrano indizi di guarigione e che quindi devono essere avvenuti nel momento della morte. Gli specialisti affermano che questo particolare tipo di fratture si ha quando, cadendo, si vuole attutire l’impatto stendendo il braccio e colpendo il terreno con la mano.

Hanno anche calcolato da quale altezza è caduta Lucy, indicando in 12/15 metri quella più probabile. Analogamente, anche le altre fratture al bacino, ginocchio e costole sono compatibili con una caduta da grandi altezze.

E chissà, forse è proprio perché Lucy era così brava a camminare che, di contro, ha perso, sugli alberi, l’agilità propria delle scimmie.

Sicuramente il suo corpo è stato velocemente ricoperto dal fango che l’ha nascosto e conservato per noi, dando inizio al processo di fossilizzazione e l’ha anche preservata dai predatori e animali spazzini.

Sarebbe stupendo se riuscissimo un giorno a scoprire di più su questa nostra piccola antenata, che sia matriarca o pro-pro-zia non ha nessuna importanza.

Perchè resta il fatto che nessuno come Lucy ha colpito l’immaginario collettivo e nessun ritrovamento può rivaleggiare, per importanza e notorietà, con lei.

E allora è anche lecito lavorare un po’ di fantasia e immaginare la vita di Lucy, le sue battaglie, le sue scoperte, il suo coraggio e perché no, anche la sua morte.

Lo scheletro di Lucy, catalogato come “reperto A.L. 288-1”, si trova nel Museo Nazionale dell’Etiopia ad Addis Abeba e, anche se quello esposto al pubblico, per ovvie ragioni di sicurezza, è una copia, tuttavia Lucy non è un numero di catalogo, non è un fossile, ma è quasi “una persona pubblica”, e il suo volto, ormai ben noto perchè ricostruito attraverso molteplici tecniche, ci guarda con occhi in cui si intravede l’umanità che sta arrivando.

Per terminare questa storia, o meglio, preistoria meravigliosa, non mi resta che dirvi il nome con cui Lucy è conosciuta in Etiopia.

Ebbene, nella regione di Afar la piccola ominide forte e coraggiosa, tenace e curiosa viene chiamata Dinkinesh o Dink’inesh, termine amarico che significa “sei meravigliosa”.

E, se ci provate, forse potete immaginare (per noi adesso è così facile) il capo del gruppo che, circa 3,18 milioni di anni fa, l’ha chiamata per la prima volta: Dii..kii..ness…

1)

Il “Dinofelis” è vissuto dall’inizio del Pliocene e fino al Pleistocene inferiore in Eurasia, America Settentrionale e soprattutto in Africa Orientale, dove sono stati scoperti innumerevoli fossili. Viene chiamato anche “falsa tigre dai denti a sciabola” a causa dei suoi canini superiori appuntiti e ricurvi, più piccoli però di quelli dello “Smilodon”, il più famoso rappresentante della famiglia.

Gli arti lunghi e robusti e la lunga coda rendevano questo antico predatore un agile arrampicatore, sia di giorno sugli alberi che di notte nelle caverne, dove scimmie antropomorfe e piccoli ominidi si ritiravano prima che facesse buio.

2)

Nel 1977/78 a Laetoli, (nord della Tanzania), a una quarantina di km. dalla gola di Olduvai (località conosciuta come “la culla della vita”), la paleoantropologa Mary Leakey scoprì  le impronte fossili di una coppia di ominini bipedi e del loro piccolo, lasciate circa 3,66 milioni di anni fa sulla cenere fresca di un vulcano che aveva appena eruttato e dal quale probabilmente stavano fuggendo. (metodo datazione radiometrica Potassio-Argon)

Nel 2015 invece è stata scoperta un’altra “passeggiata”, questa volta composta da 5 individui, probabilmente un grosso maschio, un paio di femmine e dei piccoli.

I “camminatori” più antichi trovati fino ad oggi sono dei fossili trovati in Etiopia e in Kenya all’incirca 5,8 – 6 milioni di anni fa; le ossa ritrovate e soprattutto il femore fanno pensare che fossero abbastanza abituati a muoversi su due gambe, nonostante la loro vita si svolgesse ancora principalmente sugli alberi.

3)

Circa sei milioni di anni fa le grandi foreste dell’Africa Orientale si erano in parte ritirate lasciando, tra un’isola di foresta e l’altra, ampie distese di savana dove cresceva solo erba alta che, per la continua siccità, ingialliva e seccava velocemente. Quando il cibo fornito da una foresta terminava, le scimmie antropomorfe dell’epoca dovevano forzatamente uscire allo scoperto e attraversare queste pianure bruciate dal sole, dove nell’erba alta, potevano essere in agguato i predatori. Ecco che allora avvenne quella che i paleontologi chiamano “la discesa dai rami”: gruppi di scimmie impararono che camminare sugli arti inferiori poteva essere molto utile per scorgere per tempo i predatori e anche per portare pietre e bastoni “da difesa” (del resto anche gli scimpanzè odierni usano sassi e rami per lo stesso scopo). Il bipedismo è stato forse il più importante comportamento che ha dato una grande spinta all’evoluzione e che ha portato, attraverso un lungo processo, alla nascita e successiva estinzione di almeno una ventina di “ominidi”.

4)

Gli scienziati ritengono che la vita media di un ominide non superasse i 25/30 anni.

5)

L’anno successivo alla scoperta di Lucy, durante un’altra spedizione in Etiopia nella zona di Afar, Donald Johanson e colleghi scoprirono i resti di 17/18 individui simili a Lucy, tutti nello stesso luogo. Forse uccisi da un disastro naturale (inondazione); questi individui furono chiamati la “ first family”.

Nel sito denominato Dikika, sempre nella regione dell’Afar in Etiopia,  nel 2002 è stato recuperato il fossile di un altro Australopitecus Afarensis.

Si tratta di una femmina vissuta intorno ai 3,32 milioni di anni fa e morta a circa 2,5 anni di età. La stampa dell’epoca la soprannominò “la figlia di Lucy”, ma in effetti è “più vecchia” di circa 300.000 anni.

Maria Gestri

Maria A. Gestri è nata a Campiglia M.ma nel 1955 ed abita a Piombino dal 1983.

Già Quadro Direttivo bancario per 40 anni, ad oggi felicemente in pensione.

Dal 2014 volontaria e referente per Piombino e val di Cornia dell’Unicef, comitato di Livorno.

Dal 2016 Maestra del Lavoro.

Socia e Past President del Soroptimist International d’Italia Club di Piombino.

Con le Edizioni “Il Foglio” ha pubblicato nel 2020, assieme ad altri due autori, un libro di racconti per bambini e ragazzi intitolato “Virus, giù la corona”, riferito alla pandemia del Covid 19.

Nel 2021 con lo stesso editore ha pubblicato il suo primo libro di poesie dal titolo “Infinito Inseguire”, contenente una parte della produzione poetica, in sonetti e versi sciolti (oltre 60 liriche).

Altri racconti sono stati poi a diverso titolo inseriti in libri pubblicati dal medesimo editore (Piombino in musica), e, con le “Penne Curiose” del Corso di Scrittura Creativa dell’Unitre. (Quando il tempo sembrava immobile – Piombino racconta).

Tra i vari concorsi a cui ha partecipato si evidenzia il secondo posto ex aequo della Rassegna di Poesia di Tropea del 2022, mentre recentemente una sua lirica è stata pubblicata nell’antologia del Premio Letterario Capannese  “R.Fucini”.