Da cui non si fa ritorno - Francesca Bersani

Da cui non si fa ritorno – Francesca Bersani

foto di Riccardo Marchionni

Non potevamo resisterti, buttati nella soffitta dov’eri pensionante. Noi, pelle delicata e scarpine per l’inverno, esercito di tradizioni e buona creanza. Noi, attraverso la mia carne, stracciavamo una compostezza di secoli su di un materasso grigio scampato al ritiro della nettezza. Mi trafiggevi che non t’eri lavato da giorni. Poi si dormiva, il viso contro la tua schiena, che era come un campo florido quando la canicola forte solleva la rugiada. Al mattino, ci alzavamo che tu non ti muovevi ancora, per tornare nella nostra casa imbottita di rovere massello e glorie familiari, che non riconoscevamo più. Guardavamo libri aperti senza leggerli. Leggevamo invece, tutto il giorno, la sensazione del tuo corpo. Non ci saremmo presentati al prossimo appello. Né a nessun’altro esame, mai più.

Ti avevamo incontrato in autunno, suonavi una chitarra sbeccata alle Cascine, tra venditori di lampredotto e tappi di birra, odore caldo di mandorle tostate e quello sabbioso delle foglie secche. Ci fermammo ad ascoltarti. Quando finisti di suonare, ci chiedesti di comprarti un panino. La sera dopo, eri sotto la nostra finestra, a gridare il mio nome. Tutti ti guardavano, sulla piazza, dai balconi, puntino sporco sul selciato maestoso alla Santissima Annunziata. Scendemmo in pigiama, per farti smettere. Ci portasti via così.

Una mattina ti svegliasti mentre ce ne stavamo andando. Ti mettesti a sedere sul materasso, con gli occhi ancora socchiusi. Indicasti lo zaino stanco.

Riparto.

Dove?

In Europa.

Siamo in Europa.

Un altro posto.

Veniamo con te.

Hai la tua vita qui.

Non più.

Riempire una borsa, molto difficile, ma lo facemmo. Non c’erano nei nostri guardaroba vestiti adatti per andare in Europa. C’erano vestiti adatti per abitare in Europa. Non lasciammo messaggi, tu avevi fretta. E mamma, un addio, non lo avrebbe voluto scritto in fretta: lo avrebbe voluto come Dio comanda.

Ci affacciammo alla finestra e guardammo la luce dentro alla cornice che braccio e spada della statua di Ferdinando facevano al cielo. C’era qualcosa di folle e bruciante nel lasciarla, la Santissima Annunziata, per seguire un randagio. Ma l’esercito di ancestori che mi pulsava dentro voleva ancora il tuo corpo, voleva, per tramite del mio, arraffare la vita come non l’aveva mai avuta. Non potevano, gli ancestori, immaginarti trafiggere un altro corpo di buona famiglia, questa olandese o parigina, a Monaco, a Cascais o sul Mare del Nord. Quello che agli ancestori non volevo dire: il tuo cuore senza radici non m’avrebbe amata ancora a lungo. Non era lui, che io seguivo. Il viaggio da cui non si fa ritorno anch’io l’avevo iniziato, quando, appena lasciato il grembo di mia madre, questa vita aveva iniziato a repellermi di pretese insultanti.

E quindi addio, Ferdinando. Ciao, Santissima. E giù, verso di te, mano che stringeva la nostra. Le punte delle dita, rese scabre dalle corde della chitarra, ci accarezzavano la pelle del collo, in attesa su un binario che finalmente usavo per il vero scopo.

Molti treni dopo, a Calais. Il vento faceva mulinelli di sabbia scura, nessuno sulla spiaggia. Solo tu e noi, davanti al mare, il confine naturale che pensavi t’avrebbe aiutato a lasciarci indietro. La sera prima avevi sorriso ad altri denti, e m’avevi lasciata al tavolo gonfio di birra di una taverna di porto. Ti chiesi di star zitto, avevo capito. Quando il mare d’argento inghiottì te e la tua chitarra sbeccata, non so se solo o in compagnia d’altra, gli ancestori fecero male. Mordevano e straziavano dentro. E poi chiesero di tornare, prima che qualcuno, con compassione, ci venisse a riprendere. Avevo previsto che avrebbero sofferto. A casa non ci ritornai.

Francesca Bersani