Il cielo stellato - Monia Verardi

Il cielo stellato – Monia Verardi

Foto di Riccardo Marchionni

Se guardo in alto, stasera, dopo che una granata è esplosa in questa casa circa una settimana fa, posso contare le stelle dallo squarcio che si è creato nel tetto. Quando posso lo faccio sempre, di contare le stelle per restare vigile, da quando l’ultima volta a casa di Vesna un’esplosione mi ha quasi uccisa mentre dormivo incautamente.

Mi ero intrufolata in casa mentre tutti stavano correndo giù nei rifugi antiaerei: ero arrivata al secondo piano, con la mia zampetta destra avevo aperto la porta di legno lasciata socchiusa nella fretta ed ero entrata lesta. Fuori era notte: si sentivano colpi, grida e all’improvviso vidi scie di missili che disegnavano curve rossastre in cielo. Quelle forme tonde e colorate mi ammaliavano: peccato che invece avrebbero potuto uccidermi da un momento all’altro. Decisi allora di mettermi sotto il sottoscala a ridosso della poltrona dove la sera Vesna leggeva sempre circondata dai suoi libri accanto al caminetto, avvolta da una coperta; la trovavo quasi sempre così quando andavo a trovarla con la mia cara mamma. In quell’angolino, cullata da dolci ricordi, mi sentii così al sicuro che caddi subito in un sonno profondo e riposante.

Ora ne sono cosciente: mai in tutta la mia vita avevo fatto fino a quel momento un errore più grande. Quando stavo sognando me stessa che dormiva sul tappeto di fronte al caminetto di Vesna, con sopra di me la zampetta dolce di mia mamma, all’improvviso esplose la finestra e mentre le schegge volavano dritte verso la libreria e tremava tutto, solo la mia prontezza di riflessi mi permise di svignarmela. Il mio piccolo cuore batteva a mille. E dopo la paura arrivò la consapevolezza: non era rimasto un solo posto sicuro in tutta la città. La città stessa non esisteva più: i primi se n’erano andati prima che scoppiasse la guerra mentre gli altri a guerra iniziata quando era già diventato troppo rischioso. Anche Vesna aveva provato a fuggire troppo tardi, con sua madre e il loro canarino, ma dopo essere state respinte alla frontiera per tre volte, tornarono a casa e decisero a malincuore di andare in un campo profughi poco lontano dalla città. Vivere nella loro casa sulla linea del fronte era diventato troppo pericoloso.

La casa di Jadranka, dove mi trovo stasera, ha invece una crepa gigante sulla parete e uno squarcio nel tetto dove conto le stelle, come vi ho detto all’inizio. La casa senza di lei sembra spettrale. Mi ricordo ancora quando la mia povera mamma, prima di essere ammazzata per sbaglio da un cecchino – ironia della sorte – , mi  portava in questa casa tutti i mercoledì per bere il latte che caldo che ci preparava sempre Jadranka con tanta premura. Lei era una signora educata, gentile e colta, e in casa sua non mancava mai un po’ di musica e un odore di caffè turco in quasi tutte le stanze. E’ stata seppellita qualche mese fa nel giardino condominiale perché nei cimiteri veri – dicono –   non c’era più posto per seppellire i morti. La signorina Jadranka aveva capito subito che non avrebbe mai potuto sopravvivere in una città sotto assedio. Infatti non erano passati neanche due mesi dall’inizio della guerra che le bastò andare a fare la fila per il pane caldo la mattina presto, che fu freddata da un cecchino posto sopra il ponte. 

Ogni tanto, la sera, quando anche i soldati dormono, mi chiedo cosa spinga gli uomini a fare così tanto male ad altri esseri umani. Non riuscendo a darmi una risposta ogni giorno cerco un’altra casa disabitata dove passare la notte, dove poter contare le stelle, cullata da dolci ricordi ma sempre in allerta perché ogni notte non diventi per me l’ultima.

La protagonista del racconto non è – come potrebbe sembrare – un cucciolo di cane randagio. Lo siamo tutti, consapevoli e inconsapevoli, che assistiamo ogni giorno inermi ai massacri che dilaniano storie, identità, terre. Senza motivo, neanche apparente. C’è solo da nascondersi, forse, perché con l’assurdità della violenza si parte già sconfitti: e allora prima, muoversi prima. Sempre che non sia già troppo tardi-  

Monia Verardi