
Il parco è già alle spalle – Alessio Lepri

Il parco è già alle spalle, ai bordi del centro della città vecchia. L’albergo è lì a due passi.
«Ora lascia parlare me.» Con quella faccia sbattuta e le ginocchia sbucciate lei può solo combinare guai.
Quello della reception se ne sta a braccia larghe, come a reggere il bancone dal pericolo che cada. È un cane che fa la guardia alla sua gabbia: pelato sopra, rossiccio dalle parti, pare un irlandese e sorride, di un sorriso sordido sopra una cravatta storta. «Spiacenti, siamo al completo». Lo dice come se ci godesse. «Ma ce n’è un altro qui sulla destra, se volete provare a sentire».
Sì, ora ci andiamo. Ma anche lì, stessa storia. «Ci dispiace, nessuna camera libera, tutte prese».
Lei mi fa: «Proviamo qui!» Leggo la targa sul muro: “Confraternita delle Clarisse del buon Gesù”. È il portone di un convento: alto, di legno antico e serrato. Qui non ti aprono nemmeno se reciti il Padrenostro in aramaico.
Ora mi sento come Giuseppe con Maria al seguito, sfollati da Nazareth e non accolti dalle locande di Betlemme. Non c’è un’anima in giro, a parte la nostra. Dalla strada si coglie l’eco delle nostre voci, anche se non mi pare di urlare.
All’angolo un’altra speranza, una pensioncina più modesta, che sembra proprio promettere piattole, ma andrà bene lo stesso. «No, ragazzi, non abbiamo più posto. In questi giorni c’è il tutto esaurito».
Lei mi fa: «Io sono stanca, non ce la faccio più.» Mi ricorda un uccellino caduto dal nido, come quello che avevo raccolto da bambino e poi mi morì tra le mani.
«Ormai manca poco, ce ne sarà un altro qui vicino».
«Come fai a essere sempre così sereno?»
«Se c’è una soluzione, che ti preoccupi a fare? E se non c’è, perché preoccuparsi?» È notte fonda, ma sono lucidissimo, infatti le ho appena citato Epicuro, più o meno, e me ne compiaccio. Dovesse andarmi buca, almeno mi restano le gioie intellettuali. Nel portichetto della pensioncina c’è una panca con cuscini di stoffa.
Lei mi fa: «Io mi stendo qui, tanto la portiera non mi vede». È stremata, la lascio lì e vago ancora da solo per quelle strade. Ora sì che sono davvero Giuseppe, ma senza l’aureola del santo e, soprattutto, senza nessuna certezza del Paradiso.
Mi tocca andare a quell’ albergo in fondo, quello grosso.
Il portiere mi parla come se mi aspettasse, come fosse già al corrente di ogni cosa: di me, della mia situazione, di tutto quello che mi è appena successo. «Sì, c’è rimasta una camera sola. Ci vogliono duecentoventi euro, pernottamento e prima colazione inclusa. Più l’imposta di soggiorno. Due euro a stella, quindi nove per uno, sono altri diciotto».
Pure l’imposta di soggiorno! Non m’ero accorto di essere in un quattro stelle e mezzo e non credevo, in ogni caso, costasse così tanto! Gli dico di sì, che esco giusto per prendere la mia compagna e veniamo subito a vedere.
Fuori, però, che silenzio che c’è ancora! Taccio, ma sento lo stesso l’eco: dei miei pensieri. Guardo l’orologio, sono le due e mezzo. Ci faccio le tre passate, come minimo. È capace che come entra in camera e sente il letto comodo, lei mi si addormenti subito. Poi domattina non ci sarà tempo, oppure quando si sveglia e mi trova lì accanto, vede quanto sono brutto e mi manda a cagare.
Ma chi la conosce, in fondo? Non so nemmeno come si chiami. Chi può sapere cosa aspettarsi da una così? Non mi ricordo nemmeno da dov’ero venuto, né come tornare dove l’ho lasciata.
Da che parte andare? La strada è così vuota e silenziosa, pronta a inghiottire chiunque non abbia un tetto sulla testa. Ma laggiù a diritto c’è ancora il parco, un approdo sicuro, invitante.
Sarà meglio che m’incammini.
Una natività postmoderna accompagna il randagismo del Lepri che, barcollando tra incerte strade cittadini, cerca alloggio nelle vie intasate dell’editoria italiana. Trova albergo qui da noi, sperando che l’alloggio per lui e le sue storie sia di suo gradimento. Si riposi, intanto, e nel mentre rinfoderi la biro: le serviranno più tardi, quando s’incamminerà per nuove rotte narrative.
Alessio Lepri
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