Mirko Tondi - Partire dal fallimento

Mirko Tondi – Partire dal fallimento

Nel cominciare questa rubrica ci tengo a fare una necessaria premessa: qualche anno fa (eravamo intorno al 2012), tenevo una rubrica dallo stesso titolo per un blog che adesso non esiste più; si trattava di un blog ospitato all’interno di un portale innovativo, una piattaforma nella quale gli autori vendevano i propri ebook secondo un sistema rivoluzionario. Va da sé che mettere insieme nella stessa frase le parole “innovativo” e “rivoluzionario” può preannunciare a due diversi esiti: successo o fallimento. In questo caso, l’ebbe vinta il secondo. Difatti, tutto ciò che quei ragazzi (giovani universitari della zona di Torino) avevano creato oggi è stato cancellato, risucchiato dalla rete come un fenomeno transitorio, nel quale qualcuno aveva creduto ma forse non abbastanza. O forse, semplicemente, i tempi non erano ancora maturi. Sono sicuro che un giorno quegli stessi ragazzi se ne salteranno fuori con un progetto altrettanto geniale e stavolta, magari, riusciranno a raggiungere l’obiettivo. Del resto anche Steve Jobs, lo sappiamo tutti, non dovette forse sopportare più volte i fallimenti delle sue brillanti intuizioni, persino fallimenti colossali che portarono la Apple a mandarlo via a calci in culo, per poi, anni dopo, riaccoglierlo a braccia aperte?

Fallimento: parola chiave di questo primo pezzo della rubrica. Voglio partire da qui, perché parliamo di scrittori precari, gente che può fare del fallimento una sua costante eventualità. Personalmente negli ultimi anni ho fatto della frase di Beckett “Non discutere. Fallisci ancora. Fallisci meglio” una sorta di mantra, qualcosa che però agiva in direzione opposta e diventava un’esortazione a riprovare, a migliorare rispetto a quanto non mi era riuscito come avrei sperato. Non dico certo di porsi nei panni dell’eterno perdente, che ne so, alla maniera di Homer Simpson (qui mi sarà concessa la mia prima citazione pop e per niente letteraria), che in una puntata per esempio dice “Tentare è il primo passo verso il fallimento”. Dunque non il fallimento come conseguenza delle proprie azioni, ma qualcosa che rientra nel ventaglio delle possibilità umane, questo sì. E che dire poi del discorso della Rowling ai neolaureati di Harvard? Il fallimento come opportunità di crescita e scoperta dei propri limiti, i valori, le motivazioni, gli interessi che veramente vogliamo perseguire fino in fondo. Confesso di non essere un fan di Harry Potter (anzi, a dire la verità il maghetto mi sta pure un po’ sul culo… i suoi lettori affezionati mi perdoneranno), ma quel discorso lo sottoscrivo in ogni riga (eccolo qui, se vi va di leggerlo).

Un altro grande insegnamento l’ho appreso da una celebre frase di Henry Ford, che dice “Solo chi non osa non sbaglia”. Scrivere significa a tutti gli effetti OSARE: lo metto in maiuscolo perché dovrebbe essere una di quelle parole da urlare in mezzo alla strada, oppure da tenere appiccicata allo specchio (ecco la seconda e ultima, prometto: come il ritaglio di giornale con sopra impressa la foto del pugile avversario, che Rocky Balboa osserva ogni giorno prima della sfida decisiva). Soltanto osando si può scoprire ciò che davvero si è in grado di dire attraverso la scrittura, in nessun altro modo. Mi capita di leggere, soprattutto tra gli emergenti, autori che si trattengono, che puntano più a fare il compitino anziché a raccontare una storia nella maniera migliore che possono. La scrittura risulta troppo pulita, controllata, ordinata e ordinaria, mai un picco verso l’alto. Sono ancorati alle loro sicurezze e spaventati dal fatto di spingersi troppo in là, di sperimentare in direzioni sconosciute, e non sanno che non aver osato costituisce a sua volta un fallimento, quello di non aver utilizzato la scrittura per esprimersi al massimo delle proprie intenzioni.

In questi anni ho continuato ad accumulare e a raccogliere i miei brandelli, e nonostante sia riuscito a ottenere qualche bel risultato coi concorsi, le pubblicazioni, i laboratori e tutto il resto, continuo a ritenermi uno scrittore precario. La differenza tra uno scrittore precario e uno affermato non sta solo nel conto in banca o nel fatto di essere conosciuto, io credo, ma nel rimanere sul filo dell’insoddisfazione, perennemente in bilico. Una condizione esistenziale, più che uno stato di passaggio. Io identifico tutto questo in qualcosa che non mi fa dormire tranquillo, ma che allo stesso tempo mi permette di mantenere invariata quell’eccitazione di rubare il tempo alla vita e inchiodarmi davanti a un computer per buttare già qualcosa di buono. Alla fine del 2016 ho lasciato un lavoro a tempo indeterminato che mi rendeva infelice per tentare di dedicarmi alla scrittura e all’editoria a tempo pieno, altrimenti avrei continuato a rimpiangere di non aver provato. Certo non auguro a nessuno di dannarsi l’anima per sbarcare il lunario ogni mese, trovarsi lavori da fare, inventarsi occasioni sempre nuove che possano coinvolgere le persone. Ed è una scelta azzardata della quale qualche volta mi sono anche pentito, lo ammetto. Ma l’altra sera, guardando un film in tv, mi sono ricordato di aver fatto bene: un film sentimentale sospeso tra commedia e dramma, francese (il titolo italiano è Due destini), sofisticato in alcune scelte registiche, con i suoi punti di originalità. Si parlava, tra l’altro, di universi quantici, qualcosa del genere: essere allo stesso momento in un posto e non esserci, fare qualcosa che ti cambia la vita o non farla affatto. Sono sicuro che da qualche parte, in questo momento, c’è uno identico a me che non ha lasciato il lavoro ma che è ugualmente insoddisfatto perché non è riuscito a farlo.

(Mirko Tondi)