Stefano Loparco – Anteprima da “L’ultimo sguardo. Gian Maria Volonté”
Gian Maria aveva il toccasana per ogni malanno. Un unguento dal nome possente e l’olezzo irreprensibile di mentolo, chiodi di garofano e canfora: il balsamo di tigre di Singapore. Quando qualcuno si buscava un male di stagione o un accidente qualsiasi, ecco saltar fuori la pomata levantina che Gian Maria somministrava con aria compiaciuta. Anche su di sé. Ma dove non riusciva il medicamento, quando il male di vivere finiva per scorticargli l’anima, era l’abbraccio di Velletri a dargli conforto, un paesone di nemmeno cinquantamila anime a quaranta chilometri da Roma sulle pendici dei colli Albani, e che agli occhi di Gian Maria aveva preservato tutta la sua vocazione popolana e partecipata.
Nato a due passi dalla sede milanese del Corriere della sera di via Solferino ma cresciuto in quella Torino borghese e asservita fino alla caduta del regime fascista, la città delle camelie era entrata nella vita dell’attore nel 1987, da quando aveva lasciato la casa trasteverina per trasferirsi nella villa che fu di Eduardo De Filippo assieme alla sua compagna, l’attrice Angelica Ippolito.
Amava molto quella magione al civico 29 di via Colle Ottone, Gian Maria, anche per quel transito illustre che lo aveva preceduto; prima dei Volonté la casa era stata abitata da alcuni celebri nomi del mondo dello spettacolo, da Anna Magnani a Andreina Pagnani e, appunto, De Filippo che nella campagna laziale trascorreva gran parte della stagione estiva.
A Gian Maria piaceva dedicarsi alle tante incombenze della tenuta cui non mancava mai di aggiungerne una. Per necessità, per ingannare la noia. Ma la cosa che più gli piaceva fare era cucinare. Era il suo modo di darsi alle persone che amava. «Che pappa ci mangiamo oggi?» – era la domanda che seguiva il risveglio. Poi s’infilava in cucina. Se nei paraggi c’era Maria Serangeli – governante di Eduardo De Filippo prima, e dei Volonté dopo – finiva sempre col suggerirle una nuova ricetta, una personale rielaborazione culinaria. Faceva anche una paella straordinaria che lo rendeva particolarmente vezzoso agli occhi dei suoi ospiti cui sottraeva, sornione, la questione spinosa della faccenda: spesa la mattina verso le undici e nel pomeriggio, alle sedici. Due volte al dì. E non c’era verso di fargli cambiare idea. Quante volte Angelica aveva storto il muso ma poi, davanti alla faccia fintamente desolata del compagno, soccombeva: «Dai, dai, Angelica andiamo a fare la spesa!» – smaniava Gian Maria. E via alla solita Coop o al mercato rionale. Spesa veloce al carrello, pagamento alla cassa e poi verso casa? Niente affatto. Gian Maria sfilava tra i banconi con l’aplomb del topo di biblioteca, rimirava le carni, il pesce, il bollito come tomi preziosi e non scioglieva le riserve senza aver discettato le qualità organolettiche del prodotto col salumiere, il macellaio o il pescivendolo, come in un dibattimento di laurea. Con la stessa meticolosità aveva formato la sua selezione di vini in bottiglia che giacevano sulle rastrelliere nello scantinato della villa, luogo in cui amava trascorrere le ore, pari almeno a quelle dedicate alla cura delle piante grasse, nella serra in giardino.
Per un certo periodo s’era messo in testa di coltivare kiwi e allevare conigli e per un po’ le cose avevano funzionato, anche grazie alle dritte di alcuni agricoltori del paese. Poi s’era stufato. E aveva smesso.
S’era stufato anche di guidare. E non lo avrebbe più fatto se non fosse per quella casa di via della Lungara – acquistata alla metà degli anni Ottanta durante le riprese de Il caso Moro – e che, di quando in quando, lo spingeva a raggiungerla in preda al magone trasteverino. Ma le volte che si era affacciato al traffico capitolino, ne era uscito frastornato. Troppo caos per un uomo sempre più votato all’isolamento. Poi in un giorno qualsiasi del 1993 la patente, rimasta nella tasca del pantalone, era saltata fuori logora dalla lavatrice. E Gian Maria aveva smesso di guidare. E così dopo l’A112 e la Fiat Panda, era Angelica a scorrazzarlo per Velletri a bordo dell’Alfa Romeo 164, la nuova auto di famiglia. Per non essere d’intralcio alla compagna, aveva pensato di acquistare un appartamentino nel centro cittadino da utilizzare alla bisogna, ma Angelica lo aveva dissuaso. Lo avrebbe portato ovunque e la cosa – lo aveva rassicurato – non la infastidiva affatto.
Amava le cose genuine, Gian Maria. L’olio che sa di olio, le fettuccine fatte a mano, il vino buono, le cose semplici, insomma. Mozart lo esaltava, Sciascia e Stanislavskij lo intrigavano almeno quanto i migliori versi di Montale e Ungaretti che conosceva a menadito ma se da qualche parte in paese, al bar o a casa di un amico, c’era una partita a scopone scientifico o a poker – che passionaccia, il gioco! –, probabilmente c’era anche lui a dare le carte nella sua consueta mise: giaccone da marinaio, tuta e scarpe da ginnastica.
Era fatto così Gian Maria, un uomo splendidamente complicato che a Velletri aveva ritrovato il senso di una storia autentica, ricca di tradizione: sezione di partito, associazione culturale o taverna, non c’è ambiente popolare che non l’abbia ospitato. Amava circondarsi della gente comune, senza filtri o sovrastrutture: semplicemente gli piaceva stare dalla parte di chi non sarebbe mai finito nei libri di storia. Era semmai diffidente con chi, la storia, s’incaricava di scriverla. Per inclinazione naturale, per le delusioni ricevute. Come quella volta, nell’agosto del 1991, che un sedicente amico politico – uomo di spicco della sinistra e futuro governatore della Campania – si era rifiutato di farsi riprendere assieme, fuori dall’ambasciata sovietica dove l’attore s’era precipitato appena diffusa la notizia del colpo di stato contro il presidente Michail Gorbačëv.
Forse la presenza di un divo internazionale del calibro di Volonté era troppo ingombrante per l’immagine ‘operaistica’ del deputato comunista che al sopraggiungere dei reporter si era dileguato nella folla. O quell’altra volta ancora, nella primavera del 1994, in cui il suo nome era stato cassato dalla corsa alle imminenti elezioni del Parlamento europeo. Dopo aver sollecitato la sua candidatura, il Partito democratico della Sinistra aveva fatto quadrato attorno al nome di Enrico Montesano che, infatti, finirà a Strasburgo un paio di anni, il tempo di lasciare lo scranno e il partito. E quella scelta di via delle Botteghe Oscure Gian Maria l’aveva interpretata nell’unico modo possibile: all’icona internazionale del cinema impegnato, il partito aveva preferito il volto rassicurante di un comico che in quegli stessi mesi stava promuovendo il suo nuovo film, Anche i commercialisti hanno un’anima.
Per Volonté lo smacco è grande. Come se le tante battaglie in favore dei diritti – fuori e dentro i set – non fossero servite a nulla. Come se è l’esempio stesso a non dettare più la linea in una società ammalata di consenso. E tutto ciò mentre sul paese tirava una brutta aria. E tutto ciò mentre le forze di Gian Maria si stavano affievolendo.
Si ripropone così il ‘caso’ Gianni Amelio e quel carico d’ingiustizia che l’attore sentiva di aver subito. Amelio lo aveva fortemente voluto in Porte aperte, un film che aveva riportato il nome di Volonté sulla ribalta internazionale regalando al regista una nuova stagione di successo e riconoscimenti. Eppure la lavorazione era stata funestata dalle incomprensioni: Volonté lamentava la direzione troppo interventista del regista, Amelio la sua eccessiva, e mal tollerata, autonomia.
Nel 1993 è stata la volta di Lamerica con Volonté chiamato ad interpretare il ruolo di ‘Spiro’, un ex miliziano fascista ripiegato nella follia. Una parte scritta appositamente per Gian Maria che da mesi si stava preparando con il consueto rigore. Le scaramucce sul set di Porte aperte sembravano ormai alle spalle e il regista calabrese, in più di una circostanza, era stato invitato in via Colle Ottone, un’apertura abbastanza infrequente per l’attore. Poi il finimondo. Durante una telefonata a ridosso delle riprese, i toni dei due si accendono; l’attore è imbufalito con il regista per la sua decisione di ridimensionare la parte di Ennio Fantastichini. Ce l’ha anche con la produzione per come intende trattare il suo nome in cartellone. Amelio s’impone. È stufo dei toni bellicosi di Volonté, le sue ingerenze autoriali: insomma è stufo di Gian Maria. Ricorda Angelica: «L’indomani mattina fu Antonio Severini a dargli la notizia. ‘Gian Maria, ho saputo che non lavori più con Amelio, è vero?’; ‘E come lo sai?’; ‘Me l’ha detto lui’. Gian Maria ebbe una smorfia di dolore. A quel ruolo teneva moltissimo. Quella stessa mattina Antonio ed io partimmo da Velletri in macchina alla volta della casa romana del regista. Gli chiedemmo di ripensarci, che Gian Maria l’aveva presa malissimo. Il fatto di non essere stato informato dell’estromissione – come Gian Maria ci aveva ripetuto – l’aveva mortificato. Nulla da fare. Amelio fu inflessibile: ‘Volonté è fuori!’».
È una pagina amara per Gian Maria. Che segue la mancata elezione alla Camera dei deputati del 1992 – è il secondo dei non eletti nelle liste del P.D.S. nella circoscrizione Roma-Viterbo-Latina-Frosinone – e precede l’esclusione dalla corsa al Parlamento europeo del più europeista degli attori italiani.
«È stato l’inizio della fine» – chiude amara Angelica.
Con un sistema cinematografico sempre più avido di ruoli adeguati alla sua straordinaria bravura, Volonté presagisce un futuro iniquo, fatto di particine – qualche cameo o poco più – grazie alla sola benevolenza di registi più giovani e bendisposti. Sapeva di aver dato tanto al cinema, forse tutto. Ma la frattura con Amelio giunge sbagliata nel momento sbagliato, riacuendo quella depressione il cui insorgere era dovuta al cancro che nella primavera del 1980 lo aveva risparmiato, al prezzo del polmone sinistro rimasto in sala operatoria. Operato il 21 marzo nella clinica romana Villa Stuart, l’intervento era riuscito, la diagnosi si era rivelata benigna e un mese dopo l’attore era già sul set de La vera storia della signora delle camelie di Bolognini la cui lavorazione era stata interrotta a causa della malattia. Ma il cancro te lo porti dentro. E dalla depressione Volonté non guarirà mai del tutto. Per lunghi periodi – e ciclicamente – viveva ai margini di sé stesso, senza interessi, né la forza per realizzarli. Quando il peggio sembrava passato, tornava a lavoro con il consueto fervore. Ma poi l’ombra si allungava. Cambiava progetti, ne scopriva di più stimolanti per poi lasciarli a metà.
Velletri gli è servita anche a questo: ristabilire un rapporto di necessarietà con il suo ecosistema sociale, non mediato dagli altri: il partito, il produttore, il regista. Gian Maria voleva e sapeva fare da solo. E così, vistosi diradare gli impegni professionali, l’attore aveva intensificato la sua partecipazione alla vita politica, sociale e soprattutto culturale di Velletri. Al Palazzo del Vignola – sede del municipio – era di casa, per proporre, discutere, lamentare – spesso davanti all’amico sindaco Valerio Ciafrei –, e la battaglia per la riapertura del teatro cittadino Artemisio – che oggi porta il suo nome – gli aveva procurato un grande consenso tra i concittadini cui si concederà con grande generosità.
Anche così – pensava Volonté – si poteva fare politica dal basso, sul territorio, riproponendo quegli ideali mutualistici che erano il cardine del suo pensiero e che per molti anni avevano trovato un’ancora nell’allora Partito Comunista Italiano, il P.C.I. Quello di Longo, Ingrao, Berlinguer e Natta.
Nonostante l’antica contiguità al partito – suggellata con la donazione di un’enorme tela di Mario Schifano alla sezione trasteverina di Campo Marzio nel 1970 –, Volonté non era mai stato un militante organico. Dopo gli anni della militanza attiva, nel 1977, mentre la violenza urbana esplodeva nelle piazze, Gian Maria aveva riconsegnato la tessera contrariato dalla svolta governativa del suo partito, per avvicinarsi agli ambienti della sinistra extraparlamentare. La riprenderà anni dopo senza più liberarsi dallo scetticismo di quell’appartenenza. Negli anni della maturità il rigore e la riservatezza che gli erano propri – tanto più nobili quanto discreti nonostante le ingenti elargizioni a favore di chi meno aveva e di cui in pochi sapevano – gli rendevano impraticabile la lotta politica che conduceva esclusivamente sul piano delle idee; gli impulsi anarchici e radicali lo rendevano disomogeneo e per questo inviso all’ala moderata del partito eppure Gian Maria considerava la centralità del P.C.I. uno strumento di trasformazione della società italiana e di emancipazione delle masse popolari. Ci credeva veramente. Perciò l’inaspettata fine della stagione comunista preannunciata dal segretario Achille Occhetto il 12 novembre del 1989 alla Bolognina, era stata vissuta dall’attore con grande dolore. Il giorno dopo Volonté, dalle pagine de «l’Unità» aveva fatto sapere: «Per quel tanto di squisitamente politico che i pronunciamenti generalmente esprimono, io sono curioso e contrario».
Quella che inizialmente appariva una frattura insanabile, era andata rinsaldandosi sul valore fondativo dell’antifascismo e della Resistenza e alla Festa dell’Unità di Bologna del 21 settembre 1991, la prima all’ombra della Quercia, Volonté calcava lo stesso palco alle spalle del segretario Occhetto: per il rispetto che sentiva di dovere alla sua gente e alla sua stessa storia personale, perché gli era nemmeno concepibile l’idea di tradire la casa comune, Volonté è rimasto nel Partito Democratico di Sinistra. Ma lo ha abitato da militante critico e da uomo deluso che, in fondo, non ha mai condiviso le ragioni di quella svolta.
E poi? Com’è andata a finire? Le elezioni del marzo ’94 avrebbero dovuto registrare una vittoria scontata della coalizione progressista all’indomani del crollo dei partiti tradizionali sotto i colpi dell’inchiesta giudiziaria «Mani Pulite». Ma la discesa in campo di Silvio Berlusconi e la sua soverchiante forza mediatica aveva annichilito «la gioiosa macchina da guerra» messa a punto da Occhetto che non sopravvivrà alla disfatta elettorale.
Con Emilio Fede che il 28 marzo del 1994, dall’edizione serale del suo TG4 annunciava con la voce rotta dalla commozione la vittoria di un uomo «contro tutto e contro tutti», ha inizio il ventennio berlusconiano che, al netto di otto anni all’opposizione, plasmerà profondamente l’identità nazionale. E anche la notte di quell’altro uomo «contro tutto e contro tutti» che, dietro al cancello della sua villa di Velletri, ricurvo sulla Olivetti 35 dello studio privato, la attraverserà battendo a macchina il copione di Ivo Levi, il curatore della cinemateca di Sarajevo che, come lui, un mondo non l’ha più.
(Stefano Loparco)
Commenti recenti