Silvia Mazzocchi – Il Rolex 

Silvia ha una bella penna e foglie stinte di una periferia che quaggiù sentiamo affini alle nostre. Il carpiato che ci porta a fare, un Invicta e mezzo fa, ci conduce in una vasca di ricordi da cui noi emergiamo più facilmente della sua protagonista. O almeno spero per voi.

Il Rolex 

Se ne stava là, in mezzo alla periferia cittadina, circondato da campi aridi. Un’immensa figura di cemento armato che ricordava vagamente una vela, ma non come le vele di Scampia che si vedono nei film, questa aveva l’arroganza di essere una vela più stilosa, ma era priva di anima e gelida alla vista. Un edificio in cui, immaginavo, tutti gli appartamenti avessero una posizione simile, per luce, costo, esposizione e servizi. 

Di fronte a me, quel monolite che ricordava vagamente l’architettura sovietica e, alle mie spalle, lo sferragliare dei cancelli che si chiudevano per sempre.

È con la chiusura di quei cancelli, che alle due e un quarto di un normale martedì di aprile, ho lasciato andare la mia vita. 

Tutto quello che non è rimasto fuori da quel cancello, è in custodia. Mi renderanno le mie cose quando me ne andrò. Dunque mai. 

Che cosa ho fatto per restare qua dentro tutto il resto della mia vita? 

Non è importante ai fini di questa storia, e poi, non mi va di ripercorrere certi episodi. Ci sono luoghi oscuri nella mia mente che non amo frequentare. 

Preferisco ricordare altre cose, quelle che ho lasciato fuori. Qua dentro, ho questo soffitto sporco di ragnatele e muffa: lo osservo per ore la notte, trasformo le macchie di umidità in visi di persone o animali, alcune volte, invece, immagino di vedere le stelle e persino la luna in qualche bizzarra macchia sul muro. Le compagne di cella hanno preso il posto delle mie vecchie amiche di gioventù, quelle con cui andavo a ballare; quelle amiche con cui ho preso la prima sbronza con il Galestro capsula viola al campeggio di Vada, cantando a squarciagola Siamo solo noi.

Le scarpe col tacco alto e i jeans stretti sono stati rimpiazzati da questi pantaloni sintetici che, ogni giorno che passa, mi vanno più larghi. Peccato non poter sfoggiare meglio l’agognato peso forma. Certe sere, vorrei che qua dentro fosse davvero buio, che con queste luci a neon non dimentico mai dove sono. Vorrei un po’ di buio per poter immaginare di essere da un’altra parte; di essere di nuovo una ragazzina di 14 anni, con lo zaino dell’Invicta pieno di scritte e i Bon Jovi che cantano: “You give love a bad name” nelle cuffie del walkman.

Ma più di tutto, vorrei potermi sedere ancora una volta nella panchina verde dietro casa, quella dove avevo scritto il mio nome con l’Uniposca Rosa. Vorrei starmene lì, una mezz’ora a fumare e scrivere sulla Smemoranda, con Marco seduto accanto a me, che mi scalda le orecchie congelate con le sue mani e mi dice che staremo insieme per sempre. Ma indietro non si può tornare. Dicono.

Apro gli occhi, il soffitto con l’immagine della luna è sempre qui, la luce gialla dei neon lo illumina e lo rende reale, come reali sono queste giornate tutte uguali. Reale è questa coperta di lana ruvida che mi fa prudere le guance. 

Ma io chiudo gli occhi di nuovo e affondo nei ricordi. Per fortuna posso ancora pensare. I miei pensieri non li ho lasciati alle guardie insieme all’orologio.

L’orologio era il regalo dei diciott’anni di mio babbo. Era così fiero di me che mi aveva regalato un Rolex. Per fortuna non deve vedermi così; è morto, ma so che si vergognerebbe tanto di me. Comunque il Rolex qua dentro non mi serve, i pensieri sì. Sono l’unica cosa che non ho lasciato ai secondini. E me li tengo stretti, ormai ho solo quelli.

Chiudo gli occhi, sono di nuovo seduta nella panchina verde, soffio fuori il fumo della mia Marlboro e, con una schicchera la lancio lontana. È tutto vero, basta tenere gli occhi chiusi. Basta il buio. 

Silvia Mazzocchi