Alessandro Pieralli - Veniamo a prenderti

Alessandro Pieralli – Veniamo a prenderti

La prima volta in cui mi accorsi che la realtà si stava sgretolando fu mentre ero in macchina, al rientro dal lavoro.

Ricordo perfettamente l’ordine preciso degli avvenimenti.

Alzai gli occhi, attratto dal volo disordinato di un uccello, e vidi staccarsi un lembo di cielo. Come quando si strappa la carta di un regalo o la pagina di una rivista: il pezzo di cielo si lacerò, si accartocciò e rimase lì, pendente.

Spalancai la bocca, rischiai di sbandare e una volta rimesso in carreggiata – con i clacson di protesta delle altre auto che risuonavano dietro di me – osservai nello specchietto retrovisore: non era stata una mia allucinazione, non era l’inganno di luce o l’effetto distorto di un riflesso sul vetro. No il cielo era lì, come sempre. Solo un pezzo, però, pendeva arricciato, rivelando sotto di sé il buio più intenso che avessi mai visto.

Ero scosso. Sapevo di aver assistito a qualcosa di unico, ma per la quale non riuscivo a dare un senso.

Un martellare nel petto segnalò tutta la mia emozione mentre accendevo la radio, alla ricerca di qualche notizia.

Avvertii solo energia elettrostatica; mossi freneticamente la manopola dell’autoradio, ma l’effetto era sempre lo stesso: nessuna nota, nessuna parola, ma solo il frusciare continuo che fuoriusciva dagli altoparlanti.

Avevo quasi rinunciato alle notizie della radio, quando distinsi un suono totalmente diverso: prima ci fu un “bip” che divenne un ritmo costante e poi ci fu un suono come un respiro rauco. Una volta e poi, a distanza di qualche secondo, di nuovo.

Lanciai uno sguardo nello specchietto retrovisore e la striscia di cielo pendeva ancora. Non ne ero sicuro ma sembrava che lo squarcio adesso fosse ancora più grande.

Raggiunsi casa con un mix di sensazioni: ero eccitato e intimorito allo stesso tempo.

Lasciai la macchina senza preoccuparmi troppo di aver fatto un buon parcheggio. Chiusi l’auto a distanza e mi fiondai in casa.

Il mio cervello registrò due informazioni: nel cielo albergava una luce strana, come se sulla realtà fosse stata depositata una pellicola color seppia; l’altra cosa anomala, che non apparteneva al mondo come io ero abituato a conoscerlo, riguardava invece il fatto che il quartiere sembrava disabitato. A voler esser precisi avevo la percezione che, man mano che mi ero avvicinato a casa, il numero di persone fosse diminuito in maniera sostanziale: meno macchine in circolazione, meno persone per le strade. Adesso mi sembrava di essere addirittura solo.

Entrando, mi sarei aspettato di trovare mia moglie intenta a guardare la televisione. Tutti dovevano parlare di quello che stava accadendo e, soprattutto, tutti dovevano dare delle spiegazioni in merito: che cosa rappresentava quello strappo nel cielo? A che cosa era dovuto? Era solo un’illusione ottica dettata dallo smog o dalla luce? Perché la radio non prendeva? E cos’era quel buio che c’era dietro?

Nella casa, però, si era depositato un silenzio innaturale.

– Lisa! – gridai, muovendomi verso il soggiorno.

La luce entrava dall’ampia vetrata e in quella giornata di primavera le ombre si rincorrevano veloci per la casa. Di mia moglie, però, non c’era traccia.

Mi fiondai sul televisore, sbattendo il ginocchio contro il tavolo. Neanche il principio di dolore che mi avvolse, mi distrasse dal mio intento.

La prima immagine che trovai, accendendo la televisione, fu quella di uno sciame di puntini grigi, neri e bianchi.

Gridai nuovamente il nome di mia moglie, con la voce che rimbombò da parete a parete, senza incontrare ostacoli, senza suscitare cambiamenti.

Provai a cambiare canale. Una, due, tre volte: sempre lo stesso identico risultato, sempre quella manciata ipnotica di puntini che scoppiettavano sullo schermo.

Il nervoso si impossessò di me, generato dalla paura e dall’incomprensione di quello che stava accadendo.

Gettai a terra il telecomando e poi mi mossi verso la camera da letto.

– Lisa! –

– Lisa! – il nome di mia moglie si ripercosse una, due, tre volte.

Sempre il solito, incomprensibile silenzio.

Nel muovermi verso la camera matrimoniale, il mio sguardo penetrò attraverso la finestra e si scontrò contro il cielo. Le mie gambe ondeggiarono pericolosamente e il cuore mancò un battito. Quello che prima era lo strappo di un lembo di cielo, adesso era raddoppiato, rilevando una porzione di nero intenso e profondo. Adesso la lacerazione sembrava quasi poter raggiungere l’asfalto. La luce attorno a me era sempre più simile a quella di una fotografia scattata con troppo flash.

Quando mi voltai, nel tentativo di riprendere la ricerca di mia moglie, mi trovai davanti il volto di Lisa.

Non fu solamente il fatto di avermi colto di sorpresa a spaventarmi a morte, ma anche il suo sguardo. Fu la prima cosa che notai e che accentuò ancora di più la sensazione di disagio che provavo.

Era uno sguardo lucido, vuoto. Era come osservare gli occhi di una bambola di porcellana.

Toccai la sua mano. Avevo bisogno di sentire un contatto, la sensazione di realtà, ma quello che provai fu simile al tocco della pelle di un serpente: la mano di mia moglie era fredda e viscida e terribilmente finta.

– Lisa… hai visto? Hai visto il cielo? – furono le prime parole che riuscii a dire, riprendendo fiato.

– Stanno venendo – la sua voce era meccanica, lo sguardo fisso.

– Chi? Chi sta venendo? –

– Stanno venendo – si limitò a ripetere.

La presi per le spalle, iniziando a scuoterla. Era catatonica, non aveva mai sbattuto le palpebre e a ogni tocco mi appariva ancora più fredda.

– Ma hai visto che cosa sta succedendo in cielo? Hai visto?! –

– Stanno venendo. –

Niente. Strinsi ulteriormente le spalle di mia moglie, con il rischio di farle male, ma anche quel gesto non cambiò di una virgola la sua espressione.

Fu in quel momento che il telefono squillò.

Ruppe il silenzio in una maniera inaspettata e il mio cervello si aggrappò a quel suono, quasi come se potesse rappresentare la salvezza, il senso a tutto quello che stava accadendo.

Raggiunsi veloce l’apparecchio.

– Pronto? –

Il rumore che percepii dall’altra parte mi accapponò la pelle e venni attraversato da un brivido che rappresentava il grido di dolore del mio corpo.

Bip.

Bip.

Poi una specie di respiro rauco. Erano gli stessi identici suoni che avevo sentito alla radio, in macchina.

– Pronto? – provai a ripetere, cercando di scacciare quel suono.

– Stiamo venendo. – fu una voce di bambino a parlare, immobilizzandomi come una statua. Una nenia.

– Pronto? Chi sei? –

– Stiamo venendo. Veniamo a prenderti. – questa volta la voce che parlò era rauca, vecchia di mille anni.

Deglutii a fatica. Lentamente, la presa della mia mano sulla cornetta si allentò e dopo qualche attimo lasciai che cadesse nel vuoto.

Mi voltai e non ero più in casa.

Le pareti si erano allungate e il soffitto era più alto, rivelando una conformazione della stanza che conoscevo molto bene: era la casa di mia nonna, dove ero cresciuto da piccolo. Si trattava di un vecchio casolare di campagna, nel quale passavo gran parte delle estati e che apparteneva ormai a un tempo dimenticato.

Cosa stava accadendo?

Stavo forse impazzendo?

Fuori, intanto, lo squarcio aveva occupato gran parte del cielo e adesso più lembi pendevano come brandelli di pelle. Dietro, ovviamente, sempre quel buio.

Gridai. La figura di Lisa non c’era più: ero di nuovo solo.

Corsi verso la porta e uscii.

Di nuovo quel “bip” e il suono di un respiro; solo che questa volta furono potenti, assordanti.

Raggiunsi la macchina e ingranai la prima.

Non sapevo dove stavo andando. Volevo solo correre via, scappare da quel luogo e dalla follia che si trascinava dietro di me.

Provai ad accendere di nuovo la macchina e mentre venivo investito dall’energia elettrostatica mi accorsi del sangue: le mie mani erano intrise di un liquido rosso che proveniva dal volante.

– Veniamo a prenderti… – la voce proveniva dall’autoradio. O forse era accanto a me o era generata dal mio cervello.

Respiravo affannosamente, mentre cercavo di togliermi il sangue dalle mani.

La luce era sempre più oscura e le ombre si allungavano come artigli.

Ero solo per strada.

Imboccai una galleria.

Dove mi trovavo? Ero consapevole che non ero più nella mia città. Riconoscevo quel posto, proprio quella galleria, ma non riuscivo a capire che cosa rappresentasse.

Accelerai, mentre mi toglievo nervosamente il sangue che sembrava non andare via.

Quando rialzai lo sguardo il camion era a meno di dieci metri. Provai a inchiodare, ma l’impatto era ormai inevitabile.

Fu in quel momento, un secondo prima dello schianto, che il cielo si squarciò del tutto: le strisce di cielo si arricciarono come tirate da una mano invisibile, e tutto fu carta straccia. La luce si spense e il buio oscuro ammantò la realtà.

***

Bip.

Bip.

­- Come sta, dottore? – la voce di Lisa era rotta dalla stanchezza di tutti quei giorni.

– Si sta riprendendo. – il dottore aveva un modo di parlare piatto.

– Davvero? Ma starà bene… – Lisa si stringeva il petto, quasi a trattenere il cuore.

– Pensiamo di sì. È questione di momenti e si dovrebbe svegliare. Non è da tutti sopravvivere a un incidente come quello che ha avuto suo marito… –

– Il coma porterà dei danni? –

– Non permanenti. Dovrà fare riabilitazione, ma poi credo che potrà tornare a vivere una vita normale. –

– Grazie al cielo. – Lisa liberò la propria voce e le emozioni in un pianto.

– Adesso credo che sia opportuno lasciarlo riposare ancora. Quando si sveglierà potrà tornare a vederlo. – il dottore fece strada alla donna, che, ondeggiando per la stanchezza e per le emozioni, uscì.

La porta venne richiusa e il rumore delle macchine attanagliò la stanza.

Bip.

Bip.

***

Riemergere dal buio fu come fuoriuscire dall’acqua e assaporare l’aria. Anche se il percorso fu più doloroso.

Avevo avvertito delle voci nella stanza, tra le quali quella di mia moglie e un’altra che non conoscevo.

Parlavano di un incidente, di coma, di risveglio.

Ma si riferivano a me?

Il primo impatto con la luce dopo il buio fu doloroso, come aghi puntati dritti negli occhi. Mossi lentamente una mano, quindi un braccio.

Bip.

Bip.

Mi accorsi che avevo il respiratore, che emetteva un suono rauco.

Che gli scampoli di tempo che avevo vissuto negli ultimi istanti dei miei ricordi si riferissero a quella situazione?

Ero stato in coma?

Per quanto?

Mi sentivo spaesato, ma anche sollevato: il buio acquisiva un senso e mi ero liberato dalla sensazione di essere inseguito.

Tornare alla realtà fu bello, mi lasciai cullare da quelle emozioni. A breve, sicuramente, sarebbero tornati a visitarmi e tante cose sarebbero state chiarite.

Stavo quasi per risprofondare nel mio sonno, quando gli occhi impattarono su una televisione: era in alto, sorretta da un braccio metallico, un vecchio modello con tubo catodico che aveva visto molte stagioni.

Era spenta.

Ma proprio quando il mio sguardo ci si fermò, si accese. Improvvisa, autonoma.

Un’esplosione di puntini invase lo schermo. Un leggero fruscio di sottofondo.

Bip.

Bip.

Poi, nel silenzio della stanza, una voce. Tre semplici parole:

– Veniamo a prenderti. –

Quindi la televisione si spense e il buio calò nuovamente.

Alessandro Pieralli