Andrea Anforini – Panni sporchi

Frugò meccanicamente nella tasca in cerca di qualche moneta e avviò una macchina libera. Dall’oblò il ritmico sciaguattìo, si innestò sul precedente, aumentando le note dell’insolita orchestra. Il timer con i numeri rossi della lavatrice avviò il conto alla rovescia: 20 minuti. Decise di abbandonarsi su una sedia, inalando quell’odore di bucato. L’ambiente, di un biancore sfavillante sotto le luci al neon, rivelava l’incorruttibile purezza dell’azione svolta dalle macchine. Il rombo di queste, per un momento, occupò nel suo cervello il posto che di solito viene lasciato al pensiero. Sentì di non pensare alla settimana che si stava lasciando alle spalle. Il suo continuo vagare di casa in casa, di appartamento in appartamento, a riportare tutto a una pulizia primigenia. Si abbandonò su una sedia di plastica, sfogliando svogliata una rivista, e alzando di tanto in tanto lo sguardo sulla pakistana, che stava rotolando avanti e indietro il passeggino, con dentro il figlioletto. Poi il distributore automatico la chiamò a sé. Infilò un paio di monete nella fessura e un rumore sordo dal fondo le restituì una lattina di birra. La caduta improvvisa doveva averla scossa, perché nell’aprirla uno spruzzo di schiuma bianchissima si allargò per il diametro leggermente scavato della sua parte superiore. Avvicinò le labbra e succhiò quella pastosa frescura, quasi insapore, qualche goccia finì a terra, mentre cercava di allargare le gambe e ritrarle in modo da salvare la sua gonna. Poi un lungo sorso. “La birra fa decisamente schifo”, pensò, ma il fatto che fosse fredda migliorò di qualche decibel il suo sapore. “Devo berla in fretta”, si disse. La pakistana aveva già fatto partire l’asciugatrice e i suoi panni variopinti crearono un carnevale di tonfi e risalite vaporose. Nel frattempo la birra era quasi finita. E anche per lei era arrivato il momento dell’asciugatrice. La mise in funzione e attese, cullata da quei suoni sempre uguali. Quando il suo timer segnò che mancavano solo 4 minuti alla fine del processo, iniziò a prepararsi al compito che più odiava. Accoppiare i calzini. Lo trovava di una noia e di un’insoddisfazione incredibile. Anche perché in ogni lavatrice rimaneva sempre un calzino spaiato. Lei era come quel calzino. Spaiata e in attesa che da un’altra lavatrice arrivasse un giorno il suo compagno.

Il signor Anselmi fa l’infermiere e quel giorno, chissà perché, aveva un sacco di camicie, al posto delle solite divise verdi. “Dovrò risalire per stirarle tutte prima di andarmene a casa” pensò la donna. Spesso, quando il venerdì andava da loro, trovava solo lui in casa. Tempo fa le disse che poteva chiamarlo Sandro. Ma la settimana successiva, quando lo fece, sua moglie lo prese da una parte e pensando di non essere udita, lo rimproverò: “Sandro, ma che sono queste confidenze!?”. Una volta che si trovarono da soli le confidò che Paola era molto gelosa. “La vita con lei è sempre un sospetto”, diceva. Vedeva qualcosa di sporco in ogni sua espressione ed era maledettamente gelosa delle sue colleghe. Sandro le sembrava proprio un uomo rispettabile. Puro, semplice e buono. Fin troppo buono a volte. Normalmente non le piaceva stirare le camicie, ma le sue le stirava volentieri e con impegno, perché avrebbero stonato le pieghe su quella persona. La compagna, invece, non la poteva sopportare, e si chiedeva spesso come facessero a convivere due individui così diversi. La signora Paola lavorava in banca, e ce la vedeva proprio dietro a una scrivania a scrutare, con la sua faccia da poker, la solvibilità di un cliente intento a chiedere un prestito. Non riusciva a fidarsi neanche della donna delle pulizie, infatti, quando andava in casa loro c’erano sempre dei soldi, di piccolo taglio o degli spiccioli, lasciati qua e là. È il trucco più vecchio del mondo e ogni donna delle pulizie che si rispetti lo conosce. “Se devi proprio fregare i soldi, mai prendere quelli lasciati in giro, sono una trappola; piuttosto meglio frugare nei pantaloni del cesto dei panni sporchi”. 

La donna aveva quarantadue anni, ma aveva la sensazione di fare questo lavoro da una vita. Il giovedì, andava sempre dal suo “cliente zero”, così lo chiamava. Un vecchietto, mezzo cieco, che, ormai solo per abitudine, quando passava le guardava sempre il didietro e lei rispondeva con un sinuoso ancheggiamento. D’altro canto pagava bene e qualche moina non poteva certo nuocere alla brillantezza che lasciava quando si chiudeva la porta alle spalle. 

Uscì in strada con sottobraccio il cesto con i calzini già accoppiati e le camicie che odoravano di felicità ed emanavano un calore ancora leggermente umido, che contrastava con la secchezza del vento freddo che spazzava i marciapiedi. Ora le rimaneva soltanto da stirare le camicie, e poi, poteva andare a casa, dove l’aspettava la sua gatta, una cenetta fatta di qualche avanzo del giorno prima e un divano sul quale puntualmente si addormentava, risvegliandosi poi nel cuore della notte con dolori e sbuffi contrariati. 

Le era sempre piaciuto il signor Anselmi. Se avesse avuto un uomo l’avrebbe voluto così, gentile e sorridente. Di poche parole, ma mai insignificanti. Un uomo che dà una certa sicurezza. Inappuntabile, senza segreti e non troppo bello. “La bellezza stanca e si rovina col tempo. La purezza dell’animo è invece come una casa sempre pulita, senza bisogno di far fatica a strusciare continuamente il pavimento”. Suonò il campanello e poi aprì con le chiavi personali, come le avevano insegnato a fare.  

Al rientrare c’era il putiferio. Appena scattò la serratura il fitto e irritato parlottio che sentì sul pianerottolo, si spense seccamente. Paola, furiosa e con passo marziale, lasciò la stanza dove stava avvenendo la colluttazione verbale. Salutò e, come se niente fosse, andò nello stanzino del ferro da stiro. Una specie di ripostiglio stretto e lungo e freddo, nel quale non ci si girava. Sbatteva sempre il gomito in uno scaffale in quel buggigattolo. “Che strana coppia, a quei due manca solo un figlio” si disse, “l’età ce l’hanno e anche il loro rapporto sembra talmente in disfacimento da meritare una scossa, con figlio-unico-viziato-di-genitori-separati pronto per una vita anaffettiva”. Si divertì della sua argutezza e un ghigno si disegnò sul suo volto spigoloso. “Se avranno un figlio mi licenzierò. Non sopporto le case con bambini piccoli e ancor meno le loro madri”. Finì il suo lavoro, stanca, con le mani secche e screpolate per i continui cambi di temperatura e i contatti con sostanze acide. D’altronde la disinfezione ha bisogno di un po’ di veleno. Profumò il candore delle camicie inamidate con uno spray nebulizzato, recuperò le sue cose e si diresse alla porta. Di solito era Paola a darle il dovuto, ma stavolta si fece avanti Sandro, con i capelli spettinati e la fronte sudaticcia. Prese i soldi ringraziando, poi l’uomo le diede un pacchetto, rimase senza parole mentre il cuore le batteva all’impazzata. Disse che aveva visto su un suo social che questa settimana aveva compiuto gli anni. Lei non ammise che in realtà sui suoi profili metteva la data di nascita della sua gatta, in modo che solo chi si ricordava davvero del suo compleanno le facesse gli auguri. Infatti non ne riceveva quasi. Accettò con un po’ di imbarazzo e molta curiosità. Una curiosità che deflagrò quando lui le disse: “Per favore, lo apra a casa”. Ringraziò con un mezzo inchino e gli occhi lucidi e notò in lui un’espressione insolita, come di rammarico. Quel non detto le fece un po’ male al cuore, ma sul momento non se ne curò. Scese in fretta le scale e prese la linea 33 che la riportava nel suo quartiere in periferia. Le gambe unite sotto il sedile, la borsetta con le sue cose di lato a contrasto con la parete del bus e il pacchettino fra le mani; nella testa l’inquietudine dei giorni degli addii. Si chiese perché avesse voluto che lo aprisse a casa e soprattutto trovò strano che Sandro fosse andato a curiosare su un suo profilo. “A quale scopo? Perché si è interessato a me?” Non riusciva a trovare una risposta che si adattasse a Sandro, almeno per come l’aveva conosciuto fino a quel momento. “Forse era per il regalo che i due stavano litigando e non ha voluto che lo aprissi quando in casa c’era lei? O magari, sua moglie non ne sapeva niente e non deve saperne niente? O avranno già scoperto quello che ho fatto?” Decise di aspettare di essere sola con la sua Margot, la sua amata gattina che riempiva a tal punto le sue due stanze di pelo, che quando tornava a casa le sembrava sempre di non aver lavorato abbastanza. 

“Cara Lucia, sono spiacente di comunicarle che io e mia moglie abbiamo deciso di interrompere il rapporto di lavoro con lei. Mi scusi il modo, ma avevo paura di qualche scenata. Mi creda quando le dico che sono molto addolorato e che mi mancherà la sua presenza e la sua professionalità. Le auguro comunque un buon compleanno e tutto il bene possibile. Sandro” 

Sotto al biglietto, che lesse con avidità, spuntò un buono per un centro massaggi. Perché a lei? E perché così? Aveva sempre fatto il suo dovere e in quel momento sentì di amare quell’uomo che la stava liquidando con quel tono tanto freddo quanto inusuale per lui. 

Questo placò solo un poco la sua inquietudine e il senso di colpa di aver lasciato, in fondo e solitari, nel cesto dei panni sporchi, un suo paio di slip usati. Pensò che fosse giusto che venisse punita col licenziamento per quella unica e grave macchia concessa alla solita e incorruttibile purezza che lasciava al suo passaggio.

Andrea Anforini