“Battere la concorrenza” – di Marco Ponzi
Battere la concorrenza – di Marco Ponzi
Da che mondo è mondo, le rapine si fanno di giorno, quando i negozi o le banche sono aperti. Si potrebbe obiettare dicendo che ciò dipende molto dal tipo di rapina. Altri crimini subiscono tabelle di marcia differenti; è una questione soggetta a diversi tipi di valutazione da parte di chi è coinvolto in queste operazioni.
Di solito, lo scopo è l’arricchimento personale. Altre volte si parla di vendetta, altre ancora di sadismo, per arrivare fino al collezionismo.
Varese era diventata una città senza sonno.
Da qualche anno, la città viveva senza conoscere il riposo notturno; gli odori, i rumori e i luccichii della notte erano gli stessi che popolavano il giorno.
Essa quindi brulicava di vita, senza requie; e senza requie erano anche i fatti criminosi che erano andati via via aumentando da quando era rimasta senza guida.
Un sindaco non veniva eletto da anni; non vi erano candidati perché nessuno era disposto a governare una città sulla quale gravava una maledizione.
La dissoluzione dei costumi e la tecnologia avevano paradossalmente favorito la rinascita di superstizioni e credenze. Ora si credeva, per esempio, che tutti gli spiriti malvagi, la notte del 31 ottobre, uscissero per rapire le persone e portarle con sé nel mondo dei morti.
Queste convinzioni erano così radicate nella popolazione che nessuno osava prendersi la responsabilità di affrontare il soprannaturale e dover rendere conto poi del proprio fallimento.
Per questo motivo, la città non voleva dormire e aveva iniziato a praticare orari no-stop, per essere sempre all’erta e non abbandonarsi agli oblii.
Se qualcuno dormiva, qualcun altro vegliava, e viceversa.
Strani fatti, definiti inspiegabili, si verificavano da anni e nessuno aveva più né la forza né il coraggio di indagare. Persone scomparse, mani mozzate ritrovate nei cassonetti, strisce di sangue in mezzo alla strada erano solo alcuni dei fatti di cui non si trovavano i responsabili.
La paralisi delle istituzioni e delle persone si era cementata occludendo le menti a qualsiasi tipo di ragionamento.
Quando Barbara si trasferì a Varese per lavoro, aveva soltanto intravisto la possibilità di guadagnare con il suo negozio di parafarmacia, escludendo tutte le altre valutazioni che poteva considerare.
“E’ un mercato nuovo e farò i soldi” – pensava, mentre si insediava nel nuovo negozio di via San Martino.
L’inaugurazione le regalò nuovi entusiasmi, quelli che non riconosceva più da quando suo marito l’aveva abbandonata.
La sua sfida era cominciata e voleva vincerla a tutti i costi; doveva essere anche una rivalsa.
I negozianti vicini la osservavano; chi da dietro il banco, chi, passando, gettava uno sguardo dentro.
Avevano espressioni ferme e rigide.
Barbara iniziò a cercare legami per instaurare amicizie di buon vicinato ma vi era una sorta di muro di ostilità non confessata che glielo impediva.
Anche gli affari, dopo qualche mese, parevano non decollare.
Provò ad abbassare i prezzi, a fare pubblicità e a organizzare eventi, ma le persone che frequentavano il negozio erano sempre poche e i costi superavano i ricavi.
“Avrai anche pagato poco l’affitto e la ristrutturazione, ma questo mercato è morto”, le disse una volta sua madre.
Effettivamente l’affitto era basso, forse troppo basso per non porsi domande.
Per cercare di aumentare la clientela, decise di tenere aperto il negozio anche di notte, come facevano tutti gli altri.
Ma una sera, nella via San Martino, la parafarmacia era l’unica attività aperta e un cliente entrò. Era avvolto in un mantello lacero e una puzza di muffa l’accompagnava.
A Barbara si gelò il sangue ma dissimulò la paura sorridendo.
“Dammi la fica”, le sussurrò l’uomo.
Il sorriso di Barbara si spense immediatamente e, d’istinto, il suo corpo indietreggiò verso la porta che dava sul retro.
In passato, aveva subìto qualche rapina a mano armata mentre lavorava in una farmacia notturna di Milano ma uno stupro vero e proprio non l’aveva mai subìto.
Non ebbe la forza di pensare e di parlare che l’uomo, con tutto il suo peso e forte odore, le fu già addosso.
Barbara si rassegnò alla violenza, aveva avuto fidanzati maneschi, per non parlare del padre, per il quale covava odio.
L’uomo col mantello estrasse un coltello, non prima di aver tramortito la donna.
Le infilò uno straccio in bocca e, dopo averle alzato la gonna, ritagliò il perimetro attorno ai genitali della sventurata.
Lei avvertì un dolore lancinante, le carni strapparsi, si risvegliò per pochi secondi, ma svenne poco dopo, mentre lacrime di rassegnazione sgorgavano dai suoi occhi serrati.
“Voglio metterti la fica in bocca e scoparti mentre mi fai un pompino”, le disse nuovamente, a bassa voce.
Ripresasi per poco, Barbara vide un’ombra sopra di sé con la coda dell’occhio, e un’altra ombra che si avvicinava velocemente.
Era un oggetto pesante che le fracassò il cranio.
Schizzi di sangue finirono un po’ ovunque, ma il colpo era stato vibrato con braccio esperto, un braccio che sapeva dove e come colpire.
Colpire senza rovinare la bocca.
Pochi secondi dopo, l’uomo, dopo aver rimosso lo straccio la cui funzione non era solo quella di impedire le urla, ma di mantenere la bocca aperta, pose il macabro ritaglio della morta sulla bocca di lei e, con una sparapunti, lo fissò.
Lo sguardo assente della donna, con gli occhi socchiusi e pietrificati, rivolto all’uomo e la bocca ora guarnita dei suoi stessi genitali erano un’immagine che faceva godere l’individuo che si era intanto abbassato i pantaloni.
Senza fiatare, egli abusò del cadavere, insozzandosi il pene di sangue.
“In casa mia, sono io che decido come battere la concorrenza”, disse l’assassino mentre si risistemava i calzoni.
Il giorno dopo, la notizia dell’omicidio era l’argomento alla ribalta delle cronache.
Ne parlarono giornali e tv ma il fatto venne catalogato come un gesto folle senza movente e senza indizi.
Quella placida mattina di un tiepido primo novembre, Corrado Livorni, farmacista cinquantenne, leggeva il giornale nella farmacia di sua proprietà in via Milano, non troppo distante da Via San Martino.
“Battere la concorrenza…sì, te lo faccio vedere io come batti la concorrenza…”, disse mentre una sua dipendente stava per apostrofarlo.
“Scusi dottore, il suo mantello da caccia lo devo portare in lavanderia?”
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