Elena Giustini – “Vendesi vetrina”

Mi chiamo Michael Jackson e cerco casa. Ho abitato dietro un’anta di cristallo da quando caddi e mi si spezzò un braccio. Non volai in terra da solo, non mi muovevo allora come non mi muovo adesso. Fu la mamma della mia padroncina a buttarmi giù.

Che poi era lei che mi aveva comprato con mesi di anticipo per regalarmi alla figlia. Sono strane a volte le persone, prima ti comprano perché sei il più bello di tutti, poi ti chiudono in una scatola ricoperta di carta fiorita e la legano stretta con un nastro vistoso.

Non ho visto niente e non ho sentito nemmeno uno spostamento per tanto tempo. Sepolto. Ero stato chiuso in un armadio sotto a tutti i maglioni ad aspettare Natale.

Mi chiamo Michael Jackson perché il nome del pezzo originale, quello in carne e ossa, è stampato sulla base dove poggiano i miei piedi. Sono alto trentacinque centimetri e di quello vero so che è un cantante (perché ho davanti a me un microfono con l’asta) e so che ama i mocassini e i brillantini. Mi sento un po’ a disagio vestito così, non sono intonato con alcun arredamento, ma vedo che qui non è un problema per nessuno. A quanto pare la mia giacca che luccica è un must.

Dicevo che finii per terra con un braccio rotto. Niente di male, voglio dire che non sentii niente, il dolore non è una cosa che conosco, ma la faccia della mamma cambiò.

Dal pavimento la vidi allargare le braccia e poi battere le mani sulle gambe. Lo fece anche quando le caddero i delfini di vetro che erano del figlio più piccolo.

Una donna distratta la mamma. O forse più maldestra che distratta. No, meglio dire un elefante. Lei deve farle piano le cose o travolge tutto. Piumino e straccio da spolvero nelle sue mani diventano uno spauracchio per tutti i soprammobili.

Quel giorno aveva girato troppo velocemente il tubo dell’aspirapolvere nello spazio stretto vicino alla mensola e (come a biliardo) aveva fatto buca con me.

Mi raccolse dopo un’imprecazione con la faccia strizzata dalla disperazione e controllò che il braccio si potesse riposizionare, poi prese la colla e operò. Brava, devo dire brava. La mamma questi lavoretti li sa fare, a volte anche troppo. Insomma non è necessario riparare tutto tutto. Certe cose che si son rotte male secondo me si possono anche buttare via.

Ma lei no, non buttava via niente. Carte, tappi, bastoncini, metteva tutto da parte ché non si sa mai. E tutto quello che si spaccava cadendo, lo rincollava.

Tempo fa raccontava di una tecnica giapponese detta “delle cicatrici d’oro”. Si chiama kintsugi. In pratica secondo questi giapponesi mettendo dell’oro nella colla (almeno credo) si evidenzia la frattura e l’oggetto acquista una nuova vita (si fa per dire) e un valore in più.

Sono molto contento che la mamma mi abbia rincollato in modo invisibile, perché una linea storta e dorata sulla mia giacca d’argento sarebbe stata peggio che rimanere senza il braccio.

Fui fortunato perché lei applicava questa tecnica in modo metaforico, diciamo come una colla filosofica per riparare la relazione con il marito. Era convinta che ogni litigata si potesse trasformare in un bel ghirigoro d’oro che poteva rafforzare la loro unione.

Chissà perché le persone si convincono di certe stranezze.

Se fossi rimasto sulla mensola, sarei caduto ancora e a furia di ruzzoloni avrei fatto la fine dei delfini di Murano. Poverini a loro è bastato cadere una volta e non c’è stato il verso di raccogliere e rincollare tutte le schegge. Son finiti nella differenziata, povero il figlio piccolo ci teneva tanto.

La figlia aveva una gran considerazione di me e (sagace) decise di proteggermi: mi chiuse nella vetrina. Mille volte meglio che stare dentro l’armadio. Mi accontentai ecco.

Di cose ne ho sentite tante. Dopo che sono stato rinchiuso ho sentito le più rumorose. E li vedevo anche. Soltanto di passaggio ma capivo sempre tutto. Gli sguardi umani parlano e in un corridoio stretto a volte si dicono segreti che io non ho raccontato mai.

Capivo in anticipo se dalle camere sarebbero arrivate risate o singhiozzi.

I silenzi dei figli quando erano piccoli avevano prodotto murales, gocce di cera sparse ovunque, cene bruciacchiate a sorpresa. I silenzi del marito facevano soffrire di gelosia la mamma.

Vedevo tutti entrare e uscire. Conoscevo gli orari regolari della mamma, riconoscevo il tentennio delle chiavi del marito e le scampanellate nervose dell’amica di famiglia. Rossella arrivava quando le pareva con eserciti di farfalle a solleticarle lo stomaco. L’amore era la sua dieta preferita e invitarla a cena non comportava un gran disturbo.

Ho amato le vocine dei bambini che cambiavano nel tempo e stentai a riconoscere la mimma che da un certo giorno in poi (se non era a vista) cominciai a confonderla con la mamma. Ma anche il piccolo quando al citofono col suo nuovo vocione rispondeva “sonoGoku!”

Mi divertivo a vedere il gatto scappare da casa, a indovinare cosa c’era nelle borse della spesa e a vederli rientrare di corsa a prendere quello che avevano dimenticato. Tutti distratti in questa casa!

Io no, mi accorgevo di ogni cosa. L’avevo capito subito che non sarebbe bastata tutta la colla d’oro del mondo per la mamma e il marito.

La mamma un giorno lo cacciò, non ne poteva più di raccogliere i cocci e tenerli insieme da sola. Da sola per modo di dire, se n’erano accorti anche i figli. Via lui e tutte le farfalle di Rossella! Gli tirò dietro anche la colla e l’oro.

Lei non era più la stessa. I figli nemmeno. Senza colla si sbriciolarono tutti un po’.

Sempre dal Giappone la mamma adottò una nuova filosofia. Buttare via le cose rotte e quelle che non le piacevano più. Decise di vendere anche il mobile in ciliegio con le ante di cristallo (casa mia) che la ex amica le aveva regalato in un generoso slancio di … ringraziamento?

Prima di ritornare nell’armadio dove sono ora perché mi ci ha messo la figlia (per il momento stai qui) controllai il lavoro della cernita di tutti gli oggetti che abitavano con me e del loro trasloco.

La mamma passò parecchi giorni a guardare il mobile e pensare. Se le cose si consumassero a forza di guardarle, questa vetrina oggi sarebbe un guscio di noce con un oblò.

Poi un sabato sentii un gran tramestio in cucina e vidi borsate di roba che cominciarono a prender la porta e non tornare più.

Lei sì tornava, e voleva chiacchierare. Parlava e io l’ascoltavo con attenzione. Aveva ricevuto una proposta d’acquisto meravigliosa!

«Ti rendi conto Michael Jackson che spedirò la mia vetrina in Costa D’avorio?» Mi disse.

In Costa D’Avorio! Mi rendevo conto? No, certo che no, ma secondo me nemmeno lei. Perché mai una signora francese (che me lo ha detto la mamma che è lontana) dovrebbe comprare un mobile in Italia (dove sono io) per mandarlo in Africa (che è ancora più lontana)? Sono solo un piccolo Michael Jackson muto e speravo che qualcuno le spiegasse che non era tutto così romantico come una casa bianca, dove la sua vetrina si sarebbe intonata ai cesti pieni di lavanda.

«La Costa D’Avorio non è la Provenza, ma io me l’immagino così. Dopo tutto era una colonia francese no?» Diceva.

Si svegliò da quel sogno coloniale in mezzo a una lite coi figli che non la sopportavano più:

«Perché non l’hai perdonato?» Urlavano.

Dalle stanze erano arrivate delle belle sfuriate un giorno sì e quell’altro pure, per un mese intero.

Intanto i nuovi spazi nei pensili della cucina erano pronti ad accogliere le stoviglie che mi avevano fatto tanta compagnia.

Anche il mobiletto prediletto era stato svuotato per metterci bicchieri, liquori e libri. I libri non tutti. Quelli furono scremati bene come i soprammobili. Mi tremarono tutti gli atomi per due giorni a vedere mamma e figli che passavano e guardavano una volta il cane, una volta la trottola di legno, una volta me.

E di più mi tremarono quando la mamma cominciò a spostarmi di qua e di là per prendere le tazze zitta zitta, un giorno che era sola.

I figli schivavano i trasferimenti di roba varia, grazie ai loro impegni che coincidevano sempre con le ore libere della mamma. Fu un bene, ne sono sicuro. Complici e soli li vidi fare la loro parte con serenità.

Eravamo rimasti tre gatti dentro a quel mobile insieme ai ricordi dei viaggi. La mamma si sedette per terra e tirò vicino il libretto a fisarmonica con le cartoline di Pompei; la cenere dell’Etna; le conchiglie raccolte in Sardegna e quelle microscopiche di una spiaggia pugliese dove lei sarebbe rimasta per sempre. Lì così, a respirare e basta.

Tutto in terra come lei, tutto riflesso nell’angolo buio in basso della vetrina serrata a chiave dove s’incantò a guardare. Ci guardai anch’io e avrei voluto poter chiudere gli occhi.

Volevo dirle di guardare l’angolo in alto dello sportello aperto, dove il sole giocava con l’arcobaleno nelle sfaccettature del cristallo. Ma sono di resina e la mia bocca è dipinta come le mie ciglia. Non posso piangere e non posso parlare.

Ma io l’ho sempre pensato che gli angoli sono importanti. Ci si incastrano le cose più preziose o più pericolose. Non vanno mai persi di vista e bisogna tenerli puliti.

Anche gli angoli della bocca sono importanti e sempre secondo una filosofia orientale (tibetana stavolta) meditare col sorriso come prima cosa ogni giorno, imposta bene la giornata, parola di mamma.

Riaggiustò subito la bocca al suono del campanello. Spinse con un piede le bomboniere dei matrimoni falliti insieme alle cose da buttare, e cacciò me e gli altri prescelti sul tavolo in cucina. Non c’ero mai stato, wow!

La vetrina era in partenza e non per la Costa D’Avorio. La comprò Giorgio, un amico della figlia che era andato a convivere con il suo compagno.

Seguii bene i lavori di smontaggio e discesa per scale perché vociavano tutti.

Un’allegria così non me la ricordavo più. La figlia faceva progetti per la parete rimasta vuota. Il figlio li faceva per la parete di fronte. La mamma rispondeva che aveva la precedenza e decideva lei. Giorgio era tutto per aria e sperava di fare in tempo a rimontare il mobile nella sua casa per fare una sorpresa a Michele.

E io disteso senza tante protezioni con la tazzina del caffè bollente vicino ai piedi, per la prima volta mi sentii vivo. Feci fatica a capirlo e durò poco, ma mi piacque tantissimo!

Gli anni passano e tutto cambia, anche gli amori. È per questo che sono ancora provvisorio dentro l’armadio. Le ante non combaciano e dallo spiraglio riconosco giorni, notti e stagioni. L’udito assoluto devo averlo ricevuto in dono insieme al nome e so esattamente quello che dico se dico che qui non sento litigare più nessuno.

Mi chiamo Michael Jackson, mi hanno sfrattato e cerco una casa sicura. Non voglio rimanere rinchiuso né tornare in bilico sulla vecchia mensola, se cado ancora finisco male davvero, non sono neanche di un materiale riciclabile!