Fabio Marangoni – “The Ward” di John Carpenter

Bentornati nella cripta, ehm, volevo dire nella Camera Oscura. Mi sono fatto prendere dal revival Anni Novanta, quando il Nostro presentava i film che mi piacciono tanto su Italia 1. Ora la striscia alla “Tales from the Crypt” con lo Zio Tibia è sparita da un pezzo e pure i film annessi si vedono col contagocce d’estate, ma chissà, a volte ritornano…

Uno che probabilmente ha sfogliato quei giornaletti da ragazzino è il protagonista di questa seconda puntata, o meglio lo è un suo film, sto parlando di John Carpenter, classe 1948.

Del suo cinema avevo accennato nella prima puntata quindi mi sembra giusto chiudere il cerchio affrontandolo, ma non aspettatevi Halloween, La Cosa, 1997 Fuga da New York: troppo facile e inutile, l’importanza di queste pellicole è universalmente riconosciuta dagli addetti ai lavori e cinefili tutti, continue retrospettive e pubblicazioni ne sono la testimonianza, mentre qui tratto il dimenticato, il poco noto e il poco visto. In questo caso parliamo di The Ward (“Il reparto”).

The Ward è l’ultimo – ad oggi – film del regista di Halloween, arriva nelle sale quasi dieci anni dopo l’ultima pellicola – Fantasmi da Marte (2001) – un lasso di tempo notevole, una pausa durata fino al 2010 e interrotta nel 2005 con la partecipazione al progetto “Masters of Horror”, una serie televisiva ideata da Mick Garris composta di mediometraggi diretti

dalle vecchie glorie dell’horror, al quale farà seguito una seconda stagione, con due lavori interessanti, soprattutto il primo Cigarette Burns (2005) seguito da Il seme del male (2006).

Siamo nel 1966 e fin dall’inizio assistiamo a una “fuga” della protagonista Kristen (A m b e r H e a r d) attraverso la boscaglia per fermarsi dinanzi una graziosa casetta sulla collina e appiccarvi il fuoco. Lì inebetita la trova la polizia che la preleva e la scena si sposta subito al manicomio – pardon, l’istituto psichiatrico – dove una carrellata con visuale lettino ci porta dentro i meandri della struttura fino al famigerato reparto. Qui tra capo reparto arpia, dottore mellifluo e infermiere taurino l’attende un gruppo di ragazze, ognuna col suo segno distintivo… saranno le compagne di disavventura, insieme a una non specificata “presenza” e di più non vi dico.: altrimenti che gusto c’ è? La vicenda si muove su due fili narrativi, il principale basato sui fatti che avvengono dentro il reparto – qualcuna fa una brutta fine, altrimenti che horror sarebbe? – e il passato della protagonista che riemerge lentissimamente con qualche flashback di pochi secondi, per esplodere solo nel finale, un’altalena tra la follia della mente e quella del quotidiano a cui cercherà di sfuggire, fisicamente e… mentalmente. Non sarà facile.

Buona la prova delle attrici e anche dei ruoli minori, così come non mancano i cosiddetti jumpscare, ossia i balzi sulla poltrona tipici del genere, taluni prevedibili per i patiti, e un po’ figli di certo cinema asiatico degli anni passati, ma funzionali: l’originalità non è il piatto forte di The Ward, ma Carpenter è uno specialista e conosce i tempi, fa del suo meglio per ottimizzare la sceneggiatura non sua, e non ci si annoia.

John Carpenter n o n passerà alla storia per questa pellicola – che a mio avviso merita comunque una visione perché moderna e godibile – anche perché è una delle poche firmate da lui solo come regista, niente sceneggiatura e soprattutto niente musica che è sempre stato un marchio distintivo della sua carriera, fin dagli esordi. L’ elettronica dei sintetizzatori e delle tastiere si è legate a filo doppio con i suoi film di maggior successo, magari non sempre di pubblico (questo The Ward non lo è stato come incassi, tanto che dopo quelli magri europei in USA è uscito direttamente in home video) ma diventati nel tempo dei cult grazie a un pubblico di appassionati che ormai comprende più generazioni. Questa assenza dalle sale è forse anche dovuta a un mutare del sistema cinema di Hollywood in generale. Si vedano le carriere di Wes Craven, Tobe Hooper, George Romero, tutti recentemente scomparsi, Maestri e appartenenti alla stessa “vecchia scuola” di Carpenter; durante gli ultimi anni faticavano a fare cinema, per fortuna il Nostro si è re-inventato o forse semplicemente è tornato a suonare come faceva al liceo. A settant’anni gira il mondo con una band, accompagnato dal figlio Cody e riempie i teatri – è stato anche in Italia – proponendo proprio le colonne sonore del suoi horror, dai Settanta a oggi, non solo. Nel 2015/2016 ha pubblicato ben due album di brani inediti, Lost Themes e Lost Themes II, una vera macchina del tempo sonora, musica da film, dei suoi film, ma senza questi; ci dobbiamo accontentare di una manciata di videoclip dove interpreta se stesso. Insomma, se la macchina da presa gli manca non lo sappiamo, certo ha trovato un’altra via parallela per esprimere le sue immagini tra sogno e incubo: l’infinita musica.

Ho cominciato questa chiacchierata su carta citando, o evocando, lo Zio Tibia, non a caso, o meglio non solo per fare atmosfera alla “Atmosfear”, bensì perché il Nostro nel 1993 dirige con il collega Tobe Hooper un film per la televisione Body Bags – Corpi estranei dove ha il compito di aprire e chiudere la pellicola – composta da tre episodi – in un ruolo analogo al famoso Guardiano della Cripta.

“Era il genere di film che amavo guardare quando ero ragazzo, ma credo che la mia propensione per i film claustrofobici abbia anche un significato più ampio e profondo. Non è la vita un assedio? Non siamo tutti un po’ claustrofobici? Il nostro lavoro è sopravvivere alla notte”!

“- Noodles, cos’hai fatto in tutti questi anni? – Sono andato a letto presto.” C’era una volta in America.

Fabio Marangoni