Francesco Teselli – Il signor Asterisco racconta n° 6
Chissà se Asterisco parla per sentito dire o conosce sul serio le cose che dice. È una cosa che mi sono chiesto spesso, ma non ho mai avuto il coraggio di domandarglielo. Non lo so, magari ha avuto qualche esperienza di palcoscenico. Chi può dirlo. A me non verrebbe mai di mettermi a fare il professore se non ho almeno cognizione delle cose di cui parlo. Lui, poi … sempre così odiosamente coinvolgente, moderatore di sensazioni. Parlare con lui è quasi come dev’essere per un attore farsi plasmare dal proprio regista. Beh, plasmare si fa per dire. Consigliare, indicare. Insomma, se dovessi mettere in scena qualcosa che non m’appartiene per niente, un’emozione che non sento nella pancia, mi piacerebbe che qualcuno mi guidasse. Perlomeno.
Chissà se Asterisco si lascia guidare da qualcuno o se è il regista di se stesso. Un deus ex machina, supremo ed invincibile. A vederlo, sembra più un uomo semplicemente stanco, disilluso in piccole dosi e sognatore a cartucce infinite. Non esattamente il ritratto di un tiranno tronfio e irascibile, piuttosto una caricatura su tela di un comico pseudo-intellettuale.
Neanche metto piede nel suo museo di fogli usati, che lo brucio sul tempo: chi è il tuo regista, Asterisco? Chi raffigura la tua maschera?
TENTATIVO DI SENSAZIONE N°5 E L’ALTER EGO COME SOSIA
“Non saprei. Quello che posso dirti è che nel tempo libero mi piace fare l’attore. Essere quello che non sono. In realtà è una comodità. Avere sempre la battuta scritta, non poter sbagliare mai perché quello che deve succedere è già stato deciso. Io sono solo un uomo manichino dagli occhi bianchi e il sorriso di plastica. Un demiurgo onnisciente decide di che colore colorare il chiarore spettrale delle mie orbite e da che verso girare la linea artificiale del mio sorriso disegnato. E allora guardo con l’eterno negli occhi e parlo con le parole giuste, anche se sbagliate. Perché il paradosso affascinante del teatro è che se anche devo pronunciare parole che rovineranno la storia, in realtà non sto facendo altro che renderla perfetta. Anche lo sbaglio è perfetto se è stato così strutturalmente concepito dallo scrittore che ha scritto la storia. E allora anche sbagliare sarà perfetto. Nella vita se sbagli, hai sbagliato. Una battuta diversa avresti potuto scrivertela. Ma spesso non abbiamo abbastanza tempo per scriverci le parole giuste da dire. E allora diciamo quello che ci passa per la testa e se quello che ci passa per la testa è sbagliato, resta sbagliato.”
Siamo praticamente ancora sulla soglia della porta, eppure spariamo filosofia spicciola come proiettili al vento. Però, fa l’attore. Direi che ha risolto il mio dubbio iniziale.
Dopo un po’, finalmente, mi fa entrare e mi offre il solito caffè.
“Che leggi?”
“Strindberg.”
“Una passeggiata, insomma.”
“Ho sempre adorato questo suo dramma, Temporale. Lo conosci?”
“Più o meno.”
“Meno, ammettilo. Neanche a farlo apposta potrebbe avere a che fare con quella domanda a bruciapelo con cui mi hai fulminato prima.”
“Sì? Buono. Materiale per l’intervista di oggi.”
“Io so e non so perché lo faccio, il teatro. Ma so che devo farlo, che devo e voglio farlo, facendo entrare nel teatro tutto me stesso: uomo politico e no, civile e no, ideologo, poeta, musicista, attore, pagliaccio, amante, critico … me insomma, con quello che sono e penso di essere e quello che penso e credo sia vita. Poco so, ma quel poco lo dico.
Parole di Strehler. Conosci, no? Il grande regista del Piccolo di Milano. Più che di Strindberg mi interessa parlarti di lui; ma non tanto direttamente, quanto dell’importanza che determinate scelte registiche possono avere sulla messa in scena di un testo.
Il dramma è Temporale, come ti dicevo. Di August Strindberg. È risaputo che, solitamente, la struttura drammaturgica di un’opera tende a utilizzare le parole attribuendo loro valori polisemantici. Le parole quindi giocano con il senso delle cose, stimolando il lettore ad andare oltre quello che di solito è portato a intendere, affinché percepisca significati altri. Tutto ciò, nel testo, avviene solo se il lettore di volta in volta è pronto a lasciarsi provocare; altrimenti, la pigrizia intellettuale si limiterà a intendere il significato convenzionale delle parole, e basta.
Diverso discorso deve essere fatto per quanto riguarda la messa in scena di un testo. Il lettore, diventato spettatore, non si troverà più davanti a parole scritte, bensì davanti ai personaggi della storia che agiscono in un contesto ben preciso e realmente visibile. Dovrà quindi fare i conti con l’interpretazione che il regista ha dato delle parole e confrontarla con la propria: scelte simboliche quindi atte a esprimere un significato ben preciso, ma che come tutti i simboli, si prestano senza difficoltà anche ad altre interpretazioni.
Ma la cosa che più mi appassiona è proprio la messa in scena di Temporale, rappresentata al Piccolo di Milano nel 1980 da Giorgio Strehler, appunto. Prima però, è necessario che mi addentri un tantino nel testo strindberghiano per cercare di capire a fondo quelle scelte registiche che tanto mi interessano.
La cosiddetta drammaturgia dell’io, di cui Strindberg è uno dei massimi rappresentanti, viene fuori in tutta la sua potenza in questa raffinata opera, scritta dal drammaturgo svedese nel 1907 per la sua Intima Teatern. Una storia d’amore finita male, di questo parla il dramma in superficie. In realtà però, i temi che a Strindberg preme trattare sono ben altri: il tempo che scorre, l’importanza del passato, i ricordi che sono la poesia del presente. Un’amara riflessione, dunque, sulla terza età che si manifesta in tutta la sua vibrante tensione: un uomo anziano combatte la propria solitudine, tormentato dal desiderio di una tranquilla vecchiaia e dai ricordi della vita passata. Il ritorno della moglie, molto più giovane di lui e fuggita anni prima con un avventuriero, sembra in grado di sconvolgere la sua esistenza e di abbattersi su di essa come un temporale. Ma non sarà così: in questo dramma da camera che rivela tutta la meschinità della famiglia borghese, l’attesa quasi angosciosa di un temporale di fine estate – ebbe a dire Strehler – con a tratti solo un lontano rombo di minaccia che arriva, non uccide e non trasforma, né lava, né risolve alcunché per coloro che l’hanno aspettato perché prigionieri del loro piccolo mondo privato, della loro privata disperazione, della loro sostanziale mancanza di reciproca pietà.
Mentre il temporale minaccia e lampeggia, ma non scoppia, i personaggi fatalmente s’incontrano e si scontrano dando vita ad una catena di attività vane: il signore tenta di non lasciarsi coinvolgere dalla vita, il nuovo marito di fuggire con una nuova amante, la moglie di tornare a casa, il fratello di darsi da fare. E così la famiglia borghese ci rivela la sua tragica meschinità, la crudeltà dei rapporti. Passato il temporale, tutto sembra rientrare nell’ordine. Nel buio che scende, resta la luce pallida di un lampione a rischiarare la facciata della casa, mentre il signore pronuncia l’ultima battuta: adesso è arrivato l’autunno, la stagione di noi vecchi; quest’autunno anch’io me ne andrò da questa casa del silenzio.
La casa quindi come metafora dell’animo umano. Non a caso il protagonista del dramma non ha nome. Il signore, come a dire che tutto ciò che succede all’interno di quelle mura in realtà sta accadendo nel più profondo inconscio di una persona ferita dalla vita e tormentata dagli spettri del passato: mi sento legato a questa casa piena di ricordi, è curioso guardare dal di fuori la propria casa; alle volte mi figuro che ci sia qualcun altro a viverci.
La lettura che Strehler dà al dramma aggiunge qualcosa in più, si presenta fin da subito come un’ulteriore interpretazione critica di un testo già pienamente moderno. Strindberg si muove nel solco della tradizione ottocentesca, nel solco del teatro borghese già incrinato dal suo contemporaneo Ibsen; ma in particolare i suoi ultimi testi sembrano già annunciare quei cambiamenti della drammaturgia europea che, qualche anno più tardi, avrebbero preso pienamente corpo nei drammi pirandelliani. Strehler non fa altro che leggere Strindberg come un moderno, non fa che mettere in risalto quegli elementi che possono rendere attuale il testo senza delegittimarlo.
Ma l’interpretazione del regista e gli elementi simbolici ideati per la messa in scena del testo sono il punto che mi solletica di più. Innovativo lo spazio scenico pensato da Ezio Frigerio, che moltiplica i punti di vista: buona parte del palcoscenico è occupato da una parete di plexiglass scuro, di volta in volta riflettente, opaca o trasparente che rappresenta la facciata della casa del signore e, attraverso un gioco di luci, permette di scorgerne, in determinati momenti, anche l’interno. Lo spazio restante è diviso in due luoghi fondamentali: la zona antistante alla casa, come luogo dell’uscita da sé, della riflessione, dell’oggettività, e la ripresa dell’interno dell’abitazione, luogo della coscienza, della tensione e degli scontri.
Quindi, quello che Strindberg aveva inserito solo fra le righe delle sue battute, Strehler lo rende assolutamente visivo, tangibile; coinvolge lo spettatore nel gioco esplicativo e quasi didascalico di una metafora. La parete scura divide il palco: esterno e interno, vita e ricordi, potremmo dire in un certo senso anche vita e morte. Sul lato sinistro del palcoscenico c’è una sorta di atrio, simbolico anch’esso perché posizionato in una zona assurda, come galleggiasse tra l’esterno del viale e l’interno della casa. È lì, non bisogna chiedersi il perché pragmatico. Bisogna vederlo come una stanza della coscienza del signore: è dove ci sono gli scontri, è dove esclama di voler un giorno andarsene da quella casa, facendo prima nervosamente, poi quasi con rassegnazione, il gesto con le dita di spararsi. Lo sta ammettendo a se stesso, in quella zona oscura della sua anima dove però si confida, ignaro e inconsapevole, di essere osservato – o potremmo addirittura dire, psicanalizzato – dal pubblico.
Gli occhi di Tino Carrara, l’attore protagonista, sono spesso rivolti al cielo, sognanti, segno che l’austerità della sua immagine è in contrasto con quelli che sono i suoi reali e segreti sentimenti. Tutto è taciuto, ma il regista tutto rende visibile: la coscienza attraverso la metafora della casa, i sentimenti attraverso gli occhi dell’attore, la vita attraverso i lampi e poi la pioggia liberatoria del temporale. La vita quindi, che si risolve quando l’intreccio sembra sbrogliarsi; ma non è così. Tutto finisce senza risolversi. Proprio come i temporali estivi, che rinfrescano l’aria per un po’, ma poi l’afa ritorna più forte di prima.”
Mi guarda e si rende conto che ho gli occhi letteralmente incastrati nei suoi. Quasi deve riprendere fiato per quanto ha parlato, senza fermarsi mai, vittima ignara del suo stesso vortice di passione.
“Chi mi ha detto tutte queste cose, oggi? L’uomo, l’attore o il regista?”
“Asterisco.”
Come dargli torto.
Gli elenco il solito bollettino di commenti al numero della rubrica di maggio. Lo colpiscono soprattutto le parole di Gilda che dice “gli strani incontri sull’autobus. Gli sguardi nelle case delle persone. La tua destinazione. Non sai neanche quanto sia giusto il fatto che stai andando. Se hai una destinazione. Tante persone, come piccole formichine laboriose che corrono. Sembrano le schegge di un ordigno esploso. Si muovono in tutte le direzioni e dopo esserti passati attraverso, scompaiono. Vanno tutti da qualche parte, hanno tutti una destinazione. A te è mai capitato di uscire senza avere un posto in cui andare? Siamo diventati moderni clochard, stiamo ad elemosinare il tempo e le attenzioni delle persone che però devono sempre andare da qualche altra parte. Alla fine dei conti un viaggio è anche questo, un breve tratto, quattro passi, con te stesso, o con qualcuno, con un pensiero o con le paure. In quei quattro passi può succedere di tutto: affrontare le criticità, superare l’impasse o arrendersi all’ineluttabile.”
Lo saluto. Gli do appuntamento a luglio, tanto non andrà a mare. Figuriamoci: quando si tratta di blaterare, c’è sempre. E saluto anche voi, cari lettori. La parola chiave per questo mese è ALTER EGO. Lo so, sono due parole, ma il concetto è uno solo! Come siete pignoli, che pesantezza! Su, vi lascio e – pensate un po’ – vi auguro pure una buona lettura.
Passo e chiudo.
Francesco Teselli
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