Gordiano Lupi – Amianto
Alberto Prunetti
Amianto – Una storia operaia
Feltrinelli – Euro 11 – Pag. 142
Il mio grande e sfortunato amico Valerio Evangelisti definisce bene questo libro nella prefazione, soprattutto quando dice che si può anche irridere un passato proletario, da forgiatore di metalli, si possono pubblicare romanzetti di successo in cui la fabbrica è solo sfiorata, richiamata nel titolo e poi ignorata. Ma il passato di un operaio resta orgoglio e passione per il suo lavoro, un involucro funzionale a produrre miseria propria e ricchezza altrui. Amianto non è un romanzetto scritto per fare successo, è esistenza vissuta, sono pagine che sgorgano sincere dalle ferite della vita. A un certo punto l’autore si rende conto d’essere stato concepito a Casale Monferrato, nel luogo dei lutti e dell’amianto, il paese simbolo del genocidio operaio. Non solo, è nato a Piombino, nella città dell’acciaio, quindi i suoi geni hanno avuto origine tra la polvere assassina e le colate degli altiforni, infine è cresciuto tra i fanghi rossi di Rosignano e Scarlino, giocando a calcio nel campetto di terra e veleno dell’ex Ilva. Prunetti racconta la storia del padre, morto a 59 anni per un tumore provocato dall’amianto, narra la storia di una famiglia operaia, ma al tempo stesso scrive la storia della classe operaia, prima e dopo il boom, che si arresta nel 1973, più o meno quando nasce lui, che è vissuto tra Follonica, Rosignano e Piombino. Nel ricordo di Prunetti gli anni Settanta sono bellissimi (gli Ottanta una tragedia), anni di pace sociale dovuta al rapporto DC – PCI; l’autore racconta la vita degli operai con una leggerezza infinita, mettendo in primo piano il lavoro da saldatore – tubista, le pause al caffè per un ponce, la partita la domenica allo stadio, il rito del derby tra Rosignano e Cecina, le gite in montagna … insomma la vita di una famiglia operaia degli anni Settanta. Non torneranno quei tempi, sembra dire, ma erano così naturali quei giochi dei bimbi, le pallonate alle serrande, le palline di carta con le cerbottane per colpire le bimbe nel fondo schiena. E poi gli anni Ottanta, Alberto Camerini e il Mundial vittorioso di Spagna, il calcio giocato da piccolo protagonista, passando dai Super Tele al pallone vero nel NAGC del Follonica, che tutti chiamavano nagghe. Prunetti trasferisce su pagine intrise di rabbia e nostalgia tutta la sua passione per i libri e per il calcio, trova posto anche per ricordare un brutto episodio accaduto a Follonica, la morte di un uomo che ho conosciuto bene – Guido Pepe, dicono fosse un buco, scrive l’autore con dolcezza -, accusato ingiustamente di pedofilia, di molestie su un bambino, un uomo buono e mite che non resse alle infami accuse e si gettò da un terrazzo. Piccola storia di provincia con l’odio maremmano per i preti (preti e polli non son mai satolli) e la figura divertente del prete di Follonica che aveva sempre la chiesa vuota quindi
decise di dedicarsi a una religione nuova, fondò uno Juventus Club e si mise ad andare in giro con i fedeli calcistici per pellegrinaggi pallonari, come la finale di Coppa dei Campioni ad Atene contro l’Amburgo. Ci sono peccati peggiori che essere un prete juventino, commenta l’autore, magari che ama bere di tanto in tanto un buon bicchiere di vino e mangiare bene. Fare il prete in Maremma era come fare il carabiniere in Sardegna, scrive Prunetti in uno dei suoi molti passaggi umoristici di cui è pieno un libro drammatico, tragico, scritto con leggerezza e con stile sopraffino, con una cura estrema per il linguaggio semplice e maremmano, costellato di espressioni gergali e di modi di dire locali. Il protagonista della storia è il padre Renato, che odia i preti, perché a suo parere sono dei nullafacenti, non lavorano, così come lui non sopporta la cassa integrazione – con la crisi degli anni Novanta – perché lo costringe a non lavorare. E allora ecco la piaga dei lavoratori esterni, sottopagati e con meno tutele, delle partite IVA che ti sembra di guadagnare di più ma è un’illusione che paghi al momento della pensione; in definitiva chi guadagna è solo il padrone. Prunetti racconta i paesi stretti nella morsa della fabbrica che dà pane e lavoro, ma in cambio pretende il diritto di inquinare senza controlli, che sia Piombino come Terni, Busalla come Scarlino o Rosignano. E ci sono i figli che non devono fare lo stesso mestiere dei padri, perché un libro in più che leggi è un calcio in culo in meno che prendi dai padroni, anche se è sempre più difficile per un figlio di operai trovare un posto che conta, pur con la laurea. Il libro è costellato di riferimenti al cinema di genere italiano degli anni Settanta, che siano le commedie sexy con la Fenech come i film polizieschi di Umberto Lenzi, senza dimenticare i fumetti di Tex Willer e Black Macigno. Non può mancare il rito della schedina Totocalcio, la voce di Ameri sullo sfondo di Tutto il calcio minuto per minuto, il figlio insieme al padre a controllare i risultati per vedere se hanno fatto 13, mentre si fa il tifo insieme nello stadio di paese. Struggente e doloroso il finale, commovente e intenso, ma sempre leggero, senza drammi eccessivi, con il gusto pieno della narrazione maremmana, tra citazioni di Bianciardi sui ragionieri mingherlini che non sanno fare lavori manuali, tratte da quel capolavoro che è Il lavoro culturale. Un libro bellissimo e utile (sì, esistono anche libri inutili, le librerie ne sono piene!), che se fosse un film avrebbe la colonna sonora unica e inimitabile di Paolo Ciampi e della sua Livorno: Triste triste / troppo triste è questa sera, lunga sera. / Ho trovato / una nave che salpava / ed ho chiesto dove andava. / Nel porto delle illusioni, mi disse quel capitano. / Terra terra / forse cerco una chimera, questa sera, eterna sera.
Gordiano Lupi
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