Gordiano Lupi – La vita agra di Luciano Bianciardi
Nasco a Grosseto, il 14 dicembre del 1922, la mia Kansas City, il luogo dal quale scappare per poi ritornare, la casa di mia madre e di mio padre, dove compio gli studi. Due persone così diverse, mio padre e mia madre; il primo quasi un amico, cassiere di banca con poche pretese, a parte una vita tranquilla in provincia; la seconda fin troppo esigente, maestra in casa come a scuola, voleva che fossi il primo della classe, che mi facessi valere. Studio violoncello, lingue straniere, leggo tanto, non per mia madre, solo perché mi piace; a otto anni scopro il libro della mia vita – I mille del garibaldino Giuseppe Bandi – e mi appassiono al Risorgimento. Non ho mica un bel ricordo dell’infanzia, con mia madre oppressiva, neppure il liceo di provincia mi dà molto, solo tanta voglia di fuggire. A Pisa frequento la Normale, lettere e filosofia, conosco Geno Pampaloni e Tullio Mazzoncini, giochiamo a fare i piccoli libertari, tra goliardate e atti inconsulti che avrebbero potuto costarci caro. Scrivo una lettera a Mussolini dove chiedo le sue dimissioni, cade nel nulla, per fortuna nessuno si cura degli scritti d’un ragazzo. E non mi posso neppure laureare, ché la guerra impazza, sconvolge, distrugge, modifica la vita di noi tutti. Nel 1943 vengo arruolato, mi fanno un po’ d’addestramento dove m’insegnano l’amore per la patria, ma ho appena il tempo di vedere Foggia bombardata, poi con l’armistizio di Cassibile tutto finisce, posso tornare a casa. Dopo la guerra m’iscrivo al partito d’azione, il mio unico partito, il solo in cui ho creduto, anche se si sciolse poco dopo, ché non aveva alcun collegamento con le masse. Non ho più avuto voglia di prendere la tessera d’un partito, pure se qualcuno m’ha detto comunista, mica era vero, ero un libertario, un po’ anarchico, indipendente, antifascista, un uomo solo, soprattutto solo, contro un sistema borghese che non sono mai riuscito a sopportare. Riprendo a studiare, arriva la laurea in lettere nel 1948, pure mi sposo in quello stesso anno, con Adria Belardi, dopo un anno nasce Ettore, il mio primo figlio. La rabbia cresce in me per tutti i fallimenti, per due guerre assurde combattute, per tutti quei morti, quella distruzione, per la fame e la miseria, uniche eredità di tanta speme. La nascita d’un figlio m’impone di prender posizione perché cose tanto assurde non dovessero accadere, perché più non si dovesse ricorrere alla guerra per risolvere i problemi. Intanto uso la mia laurea per insegnare ai ragazzi le cose che ho imparato, in fondo mi piace, come amo i libri e quella biblioteca antica, la Chelliana, che mi chiamano a dirigere. Il Bibliobus è una mia idea, un furgone che porta la cultura alle campagne, partendo da Grosseto, dove i contadini non possono arrivare, le raggiunge con i nostri libri. E insegno nel liceo della mia vita, quel Carducci – Ricasoli che mi fece soffrire da ragazzo, pure se ero bravo non capivo le cose assurde che studiavo, soprattutto la retorica fascista. Il cinema è un altro amore, anni Cinquanta epoca di furore, fondo un cineclub, organizzo conferenze insieme al mio amico Carlo Cassola, grossetano e ribelle, almeno quanto me, ché insieme ci prendiamo a cuore il problema dei minatori, fondiamo il movimento di Unità Popolare, combattiamo contro la Legge Truffa del 1953, quel premio di maggioranza che doveva consegnare ai democristiani il governo assoluto del paese. Ma la vita a Grosseto mi diventa agra, quando a Ribolla muore tanta gente perché un pozzo esplode e io niente posso fare. Solo viaggiare con il Bibliobus e portar libri, scrivere su L’Avanti, Il Mondo e Il Contemporaneo come vivono i nostri poveri operai, raccontare con Cassola la storia dei minatori maremmani. Poca cosa scrivere in provincia. Decido di accettare l’invito di chi mi chiama, vado a Milano dove sta nascendo un editore nuovo, voglio aiutare Feltrinelli a cambiare il mondo editoriale. E poi a Milano scrivo su Nuovi Argomenti e persino L’Unità, senza la tessera del partito comunista. Nel 1955 nasce Luciana, la mia seconda figlia, sempre di Adria, pure se a Milano mi raggiunge la nuova compagna, Maria Jatosti, una poetessa che da un po’ frequento. Tradurre diventa la mia vita, il solo modo per campare, dopo aver messo in belle lettere italiane Il flagello della svastica di Lord Russell, il secondo libro edito dalla neonata Feltrinelli. Lavorare in casa editrice non è cosa adatta al mio carattere, troppo ribelle e indomito, pure se ha idee libertarie vicine al mio pensiero. Preferisco tradurre che fare il lavoro culturale, preferisco leggere, rendere in italiano gente come London, Faulkner, Steinbeck, Miller e il calore dei suoi tropici erotici. Finisce che Feltrinelli mi licenzia come redattore, pure se il mio primo romanzo esce con loro, proprio Il lavoro culturale, autobiografia d’un tormento di provincia fino a quel mondo industriale. Nasce il mio terzo figlio, Marcello, questa volta di Maria, siamo alla fine degli anni Cinquanta, esce L’integrazione che completa la storia d’un autore partito da Grosseto e andato a vivere a Milano. Scrivo solo il fine settimana, traduco nel tempo che rimane, lavoro per campare, anche se resta sempre un lavoro culturale. Viene fuori il mio amore per il secolo passato, frutto di quel libro che da piccolo mi avevan regalato, scrivo la mia storia garibaldina, una spedizione dei Mille romanzata. Non sarà il solo, ché la mia vena storica è genuina, mi permette di sognare, di rivedere le cose del passato, gli occhi d’un bambino trasognato che legge grandi imprese, si sente un eroe alla Garibaldi. Il successo arriva con La vita agra, ultimo capitolo, dopo Il lavoro culturale e L’integrazione, in cui racconto i fatti miei, ma così bene, che diventano una sorta di anatema contro un mondo borghese, un finto miracolo economico che si specchia nella Milano ottusa, quella che più rifiuto, che più non m’appartiene. Divento famoso, cosa che m’interessa poco, ma il libro vende un sacco, cinquemila copie in pochi giorni, interviste Rai, persino un servizio dove mi riprendono mentre racconto la mia giornata tipo, il caffè con le sigarette, straniero in una terra che non amo. Sarà stato il jazz di Charlie Parker e di Gaslini, sarà stata la mia scrittura vera, non lo so, finisce che La vita agra diventa un film di Lizzani, interprete Tognazzi, pellicola che devo anche sceneggiare e se state bene attenti a un certo punto mi trovate pure come attore. M’intervistano in tanti in quel periodo, persino Giorgio Bocca, mi chiedono i misteri della notte di Milano, una città che tanto mia non è ma fa lo stesso, mi parlano d’una malavita che non conosco, mentre potrei parlare di osterie, di bettole, dove di tanto in tanto vado a bere. Ma non amo apparire, non amo presentare, non m’interessa mettere in scena il mio romanzo davanti a tanta gente ed esibirmi, concedermi alla folla, firmare dediche, autografi a chi chiede. Non è vita per me far lo scrittore, almeno come pretende il lavoro culturale, io son scrittore davanti alla mia carta, la penna in mano, le cose che ho da dire. Tutto il resto no, non m’interessa, sono alieno al meccanismo commerciale che mi stritola, non mi fa respirare. Meglio tradurre, solo con me stesso, gli scrittori che mi fan sognare. Non voglio scrivere neppure sui giornali, diventa un meccanismo traditore, devi fare solo quel che chiedon loro, ciò che la gente pensa sia da dire. Per un po’ scrivo su Il Giorno, qualche racconto appare su Playboy, altri su Le Ore, roba non certo culturale, uno di questi ci faranno un film, proprio l’anno che me ne dovrò andare. Torno al mio Ottocento, a Garibaldi, ai Mille, ai miei eroi, ai sogni d’un bambino del passato, scrivo La battaglia soda e tante cose che resteranno nei cassetti, persino un Garibaldi che uscirà soltanto dopo morto. E poi basta Milano, me ne vado da questa città infernale dove la vita si fa sempre più agra, mi trasferisco in Liguria, verso Rapallo, sempre meno incazzato, sempre più stanco e solo. Scrivo per mangiare, un po’ per tutti, riviste popolari, rispondo alle lettere di calcio sul Guerin Sportivo, butto giù racconti per Playmen, Le Ore, Kent, Executive … Traduco e bevo, poco altro resta da fare. Tradurre Il piccolo grande uomo di Thomas Berger è l’ultima cosa importante della vita, insieme a un libro un po’ incazzato come Aprire il fuoco, ma l’alcol mi ha reso prigioniero, pure tornare a Milano serve a poco. Ho quarantanove anni, muoio, a Milano, il 14 novembre del 1971, non vedo neppure Il merlo maschio di Pasquale Festa Campanile, non sfoglio il Garibaldi che uscirà per Mondadori. Scende l’oblio su Bianciardi e la sua vita, agra o non agra, moderna o antimoderna, perduta o non perduta, ormai passata, persino un po’ sprecata, visto il genio. Passeranno gli anni, sarà compito dei figli ricordare. Ettore e Luciana, pure Marcello che di cognome fa Jatosti, ci sarà Pino con la biografia, uscirà un antimeridiano, pubblicheranno tutto, pure troppo, Baraghini e i Bianciardini, una Fondazione, la mia Grosseto ad accogliermi di nuovo. Tanto sarò morto e non darò fastidio. Resteranno soltanto le cose che scrivevo. Quello che conta in fondo per me che son scrittore.
Gordiano Lupi
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