La fabbrica pensata

RAPPORTO TRA IL TERRITORIO DI PIOMBINO, LA FABBRICA E LA CULTURA OPERAIA NEL SECOLO SCORSO

Essendo stato detto e scritto tantissimo sulla centralità delle fabbriche(Magona ed Ilva), costruite  sul territorio di Piombino dalla fine dell’ottocento, sarà invece analizzato l’impatto della fabbrica nella vita quotidiana dei lavoratori, con particolare attenzione sia alla politica padronale, sia al tipo di cultura operaia che si viene via via affermando e consolidando.

Partiamo dalla gestione del tempo libero, da parte padronale, fin dagli anni trenta, in epoca fascista.

Già da allora, finite le scuole elementari, in un’epoca in cui si passava immediatamente al periodo lavorativo, per i poco più che bambini, come per la famiglia, l’obiettivo era “avere il posto sicuro in fabbrica”(in Magona, dove c’erano più certezze e dove si guadagnava meglio, più che all’Ilva), intanto che i ragazzini gravitavano, per un piccolo compenso, intorno all’indotto di allora (Bernardini, Mattoni Refrattari, Segheria).

Il Dopolavoro Ferroviario era  gestito dalla Magona e la Colonia Marina di Baratti, riservata ai Balilla, dall’Ilva.

A livello urbanistico, l’immigrazione dal territorio circostante, grazie alla richiesta di nuovi posti di lavoro  e quindi l’aumento della popolazione a Piombino, avevano indotto l’Amministrazione comunale, fin dai primi del novecento, a costruire i quartieri operai del Cotone, adiacenti all’Ilva, mentre la dirigenza Ilva decideva la costruzione e l’affitto dei villini per gli impiegati in via Cavallotti, vicino al centro della città, ed ancora quartieri operai in località Tolla Bassa e alcune case di ringhiera in via Dalmazia,  assecondando il modello di espansione della fabbrica verso il centro.

La Magona aveva ubicato le abitazioni per lavoratori in via Pisa, via della Ferriera e via Buozzi, fin dagli anni trenta.

L’Ente Locale aveva fatto costruire, a sua volta, fin dagli anni venti, il Quartiere di via Felice Cavallotti, formato da tipiche case operaie, fornite di servizi collettivi (cortili, lavatoi ecc.),che sarà poi demolito verso la fine degli anni sessanta, in seguito ad un allargamento degli impianti. In questo periodo è ormai portato a compimento il disegno di città-fabbrica.

Negli anni ’60, nel periodo del boom economico e delle public relations, la dirigenza dell’Ilva indirizza i suoi sforzi verso una compartecipazione dell’operaio non solo nel campo del lavoro, ma anche culturalmente. Oltre all’acquisto delle azioni, uno dei tanti modi per far sentire il lavoratore maggiormente in sintonia con l’azienda,  c’ era la cassetta delle idee, che premiava il lavoratore che proponeva una migliore organizzazione nei procedimenti di lavoro, perché diventassero più rapidi e si potesse così economizzare. La politica padronale si concretizza, inoltre, con la Befana Ilva (giocattoli molto belli per i figli di operai ed impiegati fin dagli anni ’50, la distribuzione dei libri strenna a Natale negli anni ‘’60). Quest’ultima è un’iniziativa di tipo”illuministico-paternalistico,” che propone in regalo grandi nomi della letteratura italiana e straniera, saggi divulgativi di illustri medici e scienziati, e che sembra andare incontro ad un’idea di cultura, ancora cara ai lavoratori, come chiave interpretativa ed anche affascinante della realtà. ”L’uomo, l’universo, la scienza; Cinque modi per conoscere il teatro; I giorni di tutti; I racconti del Risorgimento”, tanto per citare alcuni titoli. In questo tipo di politica,  che ha l’obiettivo di dare un senso di appartenenza alla fabbrica, si inserisce l’iniziativa delle proiezioni gratuite al Cinema Metropolitan (per esempio i capolavori western; valga per tutti Sfida all’O.K. CORRAL), e l’attività del Circolino degli impiegati, che organizza già negli anni ’50 attività sportive e corsi di danza anche per i figli di operai, e che, negli anni ’70 permette, attraverso la visione di film, gratuiti per tutta la cittadinanza, la conoscenza della migliore cultura borghese e di sinistra, attraverso opere di registi come Visconti, Pasolini, Scola, Zurlini, Pontecorvo, mentre continua il patrocinio della stagione teatrale; inoltre, fino alla fine degli anni ’60, vengono date borse di studio, su base solo meritocratica, ai figli dei lavoratori e funziona, con il prestito, una fornita biblioteca.

E’ evidente la latitanza dell’amministrazione comunale o di associazioni; tutte le attività culturali, tra l’altro di buon livello, sia pure rispondenti ad una concezione precisa, sono promosse e finanziate dai dirigenti dell’Ilva-Acciaierie.

E’ probabile che queste attività abbiano rafforzato l’interesse per la cultura, particolarmente accentuato nei lavoratori piombinesi,  unito al naturale desiderio di promozione sociale per i propri figli, tanto che gli operai sembrano disposti a fare tutti i sacrifici, purchè questi ultimi non entrino in fabbrica, dove il lavoro è pesante e faticoso, anche se sicuro.

In effetti a Piombino, che ha avuto un’amministrazione di sinistra ininterrottamente, dalla fine della seconda guerra mondiale, hanno contato molto, più delle esigenze borghesi, le pressioni delle organizzazioni dei lavoratori e del partito comunista, per l’apertura del Liceo classico, fin dagli anni ’50, tipo di scuola assente in altre realtà operaie vicine (per es. a Rosignano Solvay comune e fabbrica contribuiscono all’apertura dell’istituto tecnico).

Mancando anche all’interno della sinistra un dibattito per costruire un progetto che valorizzi la cultura operaia e che fosse capace di sensibilizzare le masse (impresa tra l’altro difficilissima, essendo il ministero della Pubblica Istruzione da sempre in mano al partito della Democrazia Cristiana; a parte la lotta, all’inizio degli anni ’60, per il prolungamento della scuola dell’obbligo fino alla terza media, che si concretizzerà con il primo governo di centro-sinistra), l’esigenza sentita dai lavoratori e la richiesta non poteva essere che quella della migliore scuola borghese, appunto il Liceo classico.

Esiste, tuttavia, un patrimonio culturale tipicamente operaio, che si trova, fino alla fine degli anni ’70, a casa, nella piccola biblioteca dei genitori: sono i libri neorealisti di Pratolini e di Moravia, la letteratura della Resistenza, tra cui Un popolo alla macchia di L. Longo o L’Agnese va a morire di Viganò, quella  antimilitarista, come Un anno sull’altipiano di Lussu o All’ovest niente di nuovo di Remarque, o consapevole dell’olocausto come Se questo è un uomo di Levi, ed i classici di Zola, come l’Assommoir, o quelli del Verga (I Malavoglia), che evidenziano una memoria ed una coscienza di classe fortemente radicati. Questi libri saranno letti, con amore e commozione, dai figli e costituiranno il primo trait-d’union di passaggio di ideali.

Gli anni’60 vedono di nuovo un interesse padronale per la scuola. All’Istituto professionale industria-artigianato, indirizzo siderurgico, che scomparirà negli anni ’80, sede al Cotone, (scuola pubblica voluta e finanziata dall’Ilva), gli alunni migliori hanno il “posto sicuro” in fabbrica.

Si giunge così al ’68 ed alle grandi lotte operaie del  ’69, l’autunno caldo. E’ evidente come in questo periodo lo “schiacciamento” sulla lotta di classe e sulla dimensione sociale sia completo. A livello familiare i valori sociali (l’impegno, la lotta, la memoria storica, la centralità della classe operaia, la politicizzazione) sono completamente mutuati dal padre, sia per i ragazzi che per le ragazze. Molte madri (tralascio quelle politicizzate e militanti in partiti di sinistra o nell’UDI, per cui il discorso è diverso) sembrano trasmettere alle figlie solo valori negativi: rassegnazione, sacrificio, chiusura nella famiglia. Questo non è spiegabile soltanto tenendo conto della tradizionale impostazione patriarcale della famiglia, accentuata tra gli operai. “Gli operai non divorziano” si dice, anche se, a cominciare dagli anni ’80, il maggior numero di separazioni a Piombino, rispetto ad altre città operaie, mostra anche in questa problematica, una peculiarità, dovuta ad una persistente tradizione laica.

C’è, comunque, a Piombino, da decine di anni una particolare condizione femminile che potremmo definire quasi “priva di identità”. Non solo perché il lavoro è esclusivamente maschile (nelle fabbriche pochissime sono le donne impiegate, o addette alle pulizie; negli anni ’80 il tentativo di inserire sette donne nella produzione fallirà), ma perché,  fin dagli anni della seconda guerra mondiale, i bombardamenti anglo-americani su Piombino e la conseguente distruzione degli alloggi costringeranno, per tutti gli anni ’50, le donne alla coabitazione con le rispettive madri e suocere, per cui la generazione delle “figlie” non conquisterà la conduzione della casa e non avrà nemmeno, a pieno titolo, il ruolo e la dimensione di casalinga.

Intanto, nel ’68 e nel ’69 gli studenti idealizzano la classe operaia, ricercando una difficile unità (“Studenti ed operai uniti nella lotta”), mentre le ragazze combattono il proprio padre, restio a concedere qualsiasi forma di emancipazione, come uscire la sera o partecipare all’impegno politico, ed è grande, in generale, la diffidenza degli operai verso gli studenti, soprattutto verso quelle studentesse che distribuiscono i volantini a portineria.

A livello politico la classe operaia è percepita come protagonista, centrale, eroica, estremamente virile. Ci sono aspetti di cultura maschilista che influenzano in questa direzione. E’ la mentalità che ancora vige in certi lavoratori dei reparti a produzione, il cuore della fabbrica come importanza, ma dove il lavoro è pesantissimo e l’ambiente estremamente inquinato (Acciaieria, Fossa). Basta fare un esempio: in campo di colata, ai primi del novecento, lavoravano gli ergastolani. Si diffonde proprio da questi settori il “mito” degli operai che si organizzano da sé, secondo i loro ritmi, e dove nessuno interviene: né la dirigenza, né l’infermeria di fabbrica e nemmeno il sindacato. E’, purtroppo, una sovrastruttura culturale operaia, ma sostenuta e sottilmente diffusa, che fa accettare uno sfruttamento ancora peggiore ed un ambiente estremamente inquinato, attraverso la retorica dell’operaio eroe e superuomo, sprezzante di ogni pericolo, di tipo quasi ottocentesco.

Una delle conquiste culturali dell’autunno caldo è l’istituzione delle 150 ore, che si configurano come esempio di cultura tipicamente operaia. Il diritto allo studio ha come obiettivo il conseguimento del diploma di terza media, considerata una modalità di inserimento sociale. Per frequentare le 150 ore viene scelta la scuola pubblica, per evitare il rischio della separatezza e quello di istituire una scuola che sia utilizzata dal padronato per ottenere soltanto una migliore professionalità, in vista di una ristrutturazione. I valori trasmessi  dalle 150 ore sono quelli egualitari, la presa di coscienza dei problemi sociali e dei principi dei meccanismi della società capitalistica, la politicizzazione. Inoltre quest’esperienza ha l’ambizione di far pressione sulla scuola pubblica per rinnovarla ed aprirla al rapporto scuola-lavoro.

Nel 1974 la scuola delle 150 ore di Piombino, che è frequentata dai lavoratori più politicizzati, elabora, attraverso l’apporto di utenti, insegnanti, l’intervento dei sindacati FLM e CGIL scuola, un programma estremamente interessante, che ha come tema il territorio. Esso prevede un’analisi geografico-urbanistica, un paragone con aree industriali inglesi, lo studio del movimento operaio a Piombino e della Resistenza, con particolare attenzione alla Battaglia di Piombino contro i Tedeschi del 10 settembre 1943, per cui la città otterrà dapprima la Medaglia d’argento e poi quella d’oro al valor civile e militare.

Nei due anni scolastici successivi cambia il modo dell’utenza di avvicinarsi alla scuola e alla cultura. I lavoratori –studenti non appartengono più soltanto al gruppo estremamente politicizzato (si può definire l’intervento dei sindacalisti soltanto come ruolo guida e di stimolo), ma l’utenza è più “normale”. C’è un certo rifiuto ad occuparsi ancora della fabbrica; c’è invece interesse ad affrontare problemi sociali e politici più generali e di tipo molto diverso: dalla mafia al modo di leggere il quotidiano, fino all’educazione dei figli. La presenza delle prime donne, infermiere e casalinghe, guardate dapprima con diffidenza, contribuisce a spostare l’attenzione sulle tematiche dell’aborto e dell’educazione sessuale.

Il desiderio di conseguire il diploma di terza media  come mezzo, sia pure minimo, di promozione sociale, convive con una concezione viva del desiderio di conoscenza, della concezione della cultura come chiave interpretativa della realtà, ingenua e quasi magica. “Lo sciogliersi a parlare”, la scoperta del dialogo, l’acquisizione di una certa sicurezza, che permetterà , da qui in avanti, di esprimersi , per esempio anche davanti al Consiglio di fabbrica, e quindi di contare di più, sono le acquisizioni ricordate più volentieri, anche a distanza di anni, da chi ha frequentato le 150 ore. C’è, comunque, anche una forte richiesta di scuola tradizionale, da parte di molti lavoratori-genitori, che essi  portano avanti impegnandosi negli organi collegiali, negli istituti frequentati dai propri figli, perché la cultura tradizionale è considerata più affidabile, più “alta”, in termini di promozione sociale. Il quadro è dunque contraddittorio, complesso ed interessante per quanto riguarda le esigenze poste. E’ un altro esempio di ciò la profonda diffidenza che alcuni mostrano verso lo studio della storia contemporanea ed altri problemi di attualità, percepiti da alcuni, nel modo in cui sono trattati, come propaganda ideologica, come una “sottoscuola” per figli di operai; c’è, invece, una grande richiesta dello studio di autori classici, gli stessi che, si pensa, studiano nei licei i figli dei borghesi. C’è, dunque, il ricordo di come la scuola è stata percepita nel passato, che convive con il desiderio di offrire ai propri figli una reale uguaglianza, ma anche una certa stanchezza per un linguaggio ed idee che, si percepisce, cominciano a diventare vuote formule e cominciano a perdere la spinta propulsiva.

Queste richieste e queste esigenze, complesse e contraddittorie, si saldano anche con la particolare formazione della classe insegnante di Piombino che, formata in gran parte da figli di lavoratori, tende a differenziarsi da una “cultura di fabbrica”, preferendo ed approfondendo, quasi per rigetto, soprattutto quella umanistica.

L’esperienza delle 150 ore , negli anni ’70, è molto significativa per gli insegnanti che vi partecipano, scelti secondo la graduatoria provinciale e non perché politicizzati, visto che l’obiettivo è quello di infondere nuova linfa anche nella “scuola del mattino”. E’ particolarmente importante, per i docenti, la “familiarità “ con la contemporaneità che, grazie anche a corsi di formazione all’avanguardia, sarà in parte trasferita nella chiusa scuola pubblica. Infatti alle 150 ore intervengono esperti esterni; si trattano i problemi dell’antiinfortunistica e della sicurezza sul lavoro, si discute dell’inquinamento in fabbrica e nel territorio, contribuendo così a diffondere  il patrimonio della lotta contro la monetizzazione della salute e contro il superamento della logica della pensione per le malattie professionali della silicosi e della sordità.

Negli anni ’70 diventa sempre maggiore il desiderio di una casa tranquilla, lontana dalla fabbrica. Quest’esigenza è raccolta da un’edilizia che comincia a costruire lontano dalla fabbrica, a Calamoresca e ai Diaccioni. E’ forse anche la bellezza del paesaggio, sia pure deturpato e sacrificato alle esigenze degli stabilimenti (e basti come esempio il sacrificio della bellissima spiaggia di Pontedoro, ceduta all’Ilva, per lavori di ampliamento, negli anni ’50), che permette di compensare l’alienazione lavorativa. Con i finanziamenti statali l’Ilva e la Dalmine costruiscono il complesso residenziale dei Diaccioni, primo modello europeo di quartiere di “aristocrazia operaia,” con strutture nuove anche antisismiche, una serie di servizi e di negozi (che però, snobbati dai residenti, che continuano a servirsi per ogni necessità in centro, scompariranno alla fine degli anni ’80), con zone verdi; case “a riscatto”, cioè con un mutuo venticinquennale,mentre contemporaneamente si formano le Cooperative a proprietà indivisa, di intento egualitario.

I bui anni ’80 macinano conquiste e valori e segnano un’arretratezza della coscienza civile e la sconfitta di tante conquiste operaie. E’ forse anche per pudore che cessa una comunicazione di conoscenza e di esperienza tra genitori e figli. Scompaiono dalle biblioteche di casa i libri prima elencati, sostituiti dai best seller imposti dall’industria consumistica e che nessuno più legge.

Si giunge così alla privatizzazione delle Acciaierie e ai 38 giorni di sciopero degli operai nel 1993.

All’IPSCT Ceccherelli, istituto frequentato in gran parte da figli di operai, alcuni insegnanti somministrano un questionario per rendersi conto di come il genitore percepisce la fabbrica e di come essa è percepita da studenti, giovani lavoratori, cassintegrati.

Il primo sondaggio dà risultati omogenei. I padri intervistati confermano di non volere che i propri figli vadano a lavorare in fabbrica.

La fabbrica è sentita però centrale nella loro vita, per i valori costruiti dagli operai stessi: lo spirito di organizzazione, il senso di responsabilità, l’onestà, la solidarietà, l’amicizia, la convivialità; il sindacato, il cui ruolo era percepito come positivo fino agli anni ’70, è ora avvertito, per lo più, come incapace di salvaguardare i diritti dei lavoratori.

Molto diversa è l’immagine che ne hanno gli studenti. La fabbrica è percepita come un luogo tetro e faticoso, dove si spera non si debba mai entrare e dove lo “spolverino” non dà più un pane sicuro. Quella della fabbrica è un’immagine perdente, che suscita rabbia perché ha ostacolato altre scelte per la città, a livello economico, come quella del turismo. I ragazzi che lavorano in fabbrica sono visti dagli altri giovani come coloro che non sono stati capaci di procurarsi altre chance.

I giorni di sciopero sono vissuti con disagio e con senso di precarietà, perché in casa il padre è preoccupato e nervoso, ma il disagio è avvertito solo se colpisce personalmente; si sta cioè perdendo la dimensione collettiva della situazione. Invece la maggior paura è quella di una compressione dei consumi. Gli studenti universitari figli dei lavoratori percepiscono la fabbrica come un dato di fatto, una realtà immutabile ma lontana e poco interessante. Gli studenti che appartengono agli altri strati sociali la ignorano ed, in un certo senso, la disprezzano.

Dagli anni ’80 i giovani vanno in fabbrica non per scelta ma per necessità. Preferirebbero un altro ambiente ed un lavoro indipendente, perché in fabbrica non ci sono stimoli o gratificazioni. Molti tuttavia hanno recepito dal padre, se anche lui lavora in fabbrica, un’immagine positiva di lotte e di politicizzazione. Ma la novità consiste nel fatto che i valori trasmessi dai genitori non sono più fondamentali; è l’esperienza esterna che forma e muta i valori. La fabbrica non è più centrale; si lavora per guadagnare ma si vive fuori. Si può affermare che i valori della classe operaia sono ancora vitali, ma sono messi in crisi da un’opprimente concezione gerarchica; si avverte un’incrinatura nel sentimento della solidarietà; è aumentato lo sfruttamento e sono forti le divisioni causate dai ricatti padronali.

I cassintegrati intervistati sentono per lo più il peso dell’espulsione dalla produzione (così come molti prepensionati), proprio a livello di identità. L’indennità di disoccupazione percepita non riesce più a rendere i figli uguali agli altri, ma soprattutto è avvertita come un umiliante assistenzialismo, da parte di una classe operaia che ha sempre messo al centro l’etica del lavoro. Eppure i giorni di sciopero non sono stati sentiti come una sconfitta, ma come una lotta che ha dato di nuovo dignità. Tra l’altro è da sottolineare che in tutti è viva la consapevolezza dell’importanza di produrre merci e la sua insostituibilità rispetto al terziario. Pur in una situazione difficilissima, sembra ancora possibile trasmettere ai propri figli il senso di una vita basata sul valore del lavoro. Interessanti sono le testimonianze vissute, la storia orale di questo periodo, che saggisti e storici locali hanno raccolto, per iniziare una riflessione su valori ed intenti. La storia futura dimostrerà se la fabbrica sarà ancora centrale nel territorio di Piombino e quali cambiamenti culturali e sociologici si verificheranno.

 

Prof.ssa Loretta Mazzinghi

 

 

La Fabbrica pensata è una riflessione inserita nel ciclo di conferenze RICORDANDO IL FUTURO, organizzate dall’assessorato alla Cultura del comune di Piombino nel 1993