Luca Palmarini – Ostrava la nera. Una città industriale può essere letteraria?
Le città industriali mi hanno sempre affascinato, sin da ragazzo. Mi immagino spesso di potervi trovare un ambiente dove vive gente temprata da una vita dura, legata alle miniere o agli stabilimenti che costituiscono il tessuto urbano, dove il turista e soprattutto il sistema turistico ̶ il secondo è ben più pericoloso del primo ̶ sono fatto assai raro. Appena arrivo mi metto subito alla ricerca delle prime testimonianze di quello sviluppo industriale che ha cambiato radicalmente l’aspetto di quel luogo, sia nell’estetica che nell’anima. Torno con la mente a quella rivoluzione dell’Ottocento che faceva arricchire i proprietari delle fabbriche, sfruttava il lavoro manuale di migliaia di operai e che ci ha lasciato interessanti testimonianze architettoniche come i vecchi stabilimenti in mattoni rossi, le ville e i palazzi dell’alta borghesia di allora, così come le case popolari per le famiglie degli operai.
Ostrava la vidi per la prima volta verso la fine del 1992, seppur di passaggio. Il treno mi stava portando in Polonia. Stavo attraversando un paese ormai morente, quella Cecoslovacchia che in un recente passato aveva fatto paura per le sue guardie di confine minacciose, per la sua rigida dottrina comunista, per poi commuoverci con la primavera di Praga, con il gesto tragico di Jan Palach che in segno dei protesta contro l’invasione delle truppe del patto di Varsavia si diede fuoco in piazza Venceslao a Praga. Era passato poco tempo da un altro momento storico per questo paese, la Rivoluzione di velluto, che avrebbe riportato a pieno diritto il paese a far parte della nuova Europa per poi consacrare un altro eroe nella storia della Boemia e della Moravia, Vaclav Havel.
Ostrava si avvicinava. Dal finestrino del treno che corrreva verso Katowice osservavo le ciminiere che sputavano fumo nero, tubi di metallo che si aggrovigliavano l’uno sull’altro, fiamme, impianti siderurgici arrugginiti all’inverosimilie che sembrano dover crollare da un momento all’altro. Sembrava un inferno dantesco reinterpretato in chiave moderna da un imprecisato e provocatorio regista teatrale. Il treno fece una pausa alla stazione in stile asburgico e poi via, mi mossi verso l’universo polacco, futuro oggetto dei miei studi e delle mie passioni.
Rimasi comunque con quella curiosità dentro di me di visitare quel buco nero, parte di quel paese che stava diventando la Repubblica Ceca, una città praticamente non segnalata dagli itinerari turistici, spesso e volentieri da molti semplicemente definita “brutta”.
Quando finalmente qualche tempo dopo decisi di recarmi a visitare Ostrava, ci arrivai proprio dalla Polonia in un sorta di mistico ritorno. Già in lontananza troneggiavano nuovamente le ciminiere che vomitavano senza sosta il loro fumo nero. Qua e là alcuni pozzi carboniferi, che si alternavano a impianti metallurgici, facevano girare le loro grandi ruote in un movimento ripetitivo, di routine. Sulla sinistra una chiesetta in stile neogotico, tutta in mattoni rossi, attirò la mia attenzione. Il suo orologio biancheggiava mentre l’edificio cercava di stagliarsi verso Dio. Chissà quanti minatori, dopo essersi spaccati la schiena con turni massacranti nelle viscere della terra, si sono soffermati sulle panche di quel tempio a pregare il Signore, congiungendo le mani ancora annerite dal carbone ̶ mi venne da pensare. Una chiesa in stile gotico con tutt’intorno uno scenario cupo, grigio. Mi addentrai tra la vie della città trafficate da severi filobus che, guidati da moderni Caronti, trasportano persone in qualche grigio palazzo della periferia. In quelle rotaie o nei cavi dei filobus la città sembrava avere sorte di tentacoli che sottolinevano la sua espansione, il suo dominio.
Ostrava ha un centro. Chi arriva per la prima volta in quel groviglio industriale si può chiedere: un centro di cosa? Un centro invece esiste. Eccome. Non ha i monumenti fiabeschi di Praga o Olomouc è vero, ma il centro c’è e racconta di sé nelle facciate dei suoi edifici. Ostrava è la città delle discordanze: i palazzi degli industriali che durante la rivoluzione industriale fecero fortuna, sono poco più in là sostituiti da orribili palazzoni di regime degli anni Cinquanta e Sessanta i quali a loro volta lasciano il passo a qualche decadente deposito industriale. Ci sono, però, anche zone realizzate in un interessante stile modernista.
Sono dunque tre le epoche che prevalgono a Ostrava, se ne scansioniamo l’urbanistica. La prima è quella del miracolo industriale avvenuto in quell’Austria-Ungheria, quel paese “felix” che di lì a poco sabbe stato spazzato via dalla follia della prima guerra mondiale. Nell’Ottocento Samuel Rotschild fondò le acciaierie, trasformando in pochi anni il bacino industriale di Ostrava nel “cuore di Acciaio” dell’Austria-Ungheria. Ad aumentarne il vertiginoso sviluppo industriale fu l’arrivo, qualche anno più tardi, della ferrovia. Successivamente si osserva l’Ostrava della Prima Repubblica Cecoslovacca, uno stato inventato un po’ a tavolino dalle potenze occidentali e che invece nei vent’anni tra le due guerre si sarebbe affermato come solido esempio di stato democratico purtroppo circondato da vicini non troppo concilianti. A seguire si osserva l’Ostrava della Cecoslovacchia socialista, in parte orgoglio del regime a causa della forte presenza industriale, ma anche luogo d’esilio, di punizione, per gli oppositori del comunismo.
A testimonianza della prima Ostrava ci sono i palazzi del vecchio centro, dove a volte lo stile liberty letteralmente fiorisce nei dettagli. Anche la chiesa sulla piazza principale con la cupola di rame mi rammenta che storicamente mi trovo in quella Mitteleuropa da sempre osannata nell’arte e nella letteratura. Questi palazzi ricordano il secolo d’oro di Ostrava, immortalando la presenza della classe borghese di allora e della sua ricchezza. Successivamente, adiacente alla parte vecchia, appare l’Ostrava del modernismo, dell’art decò e del razionalismo, in quegli anni visibilmente alla ricerca di una propria impronta culturale. Passeggio davanti al Municipio nuovo realizzato in stile modernismo, con la sua torre avveneristica per quei tempi. Nella piazza antistante trionfano la geometria e l’ordine. Il paesaggio urbano è senza monumenti di grande impatto, Ostrava resta anonima ai più, le sue bellezze si scoprono nei dettagli di questi palazzi dove con gruppi statuari e bassorilievi si celebrano fabbriche e miniere, operai e minatori. Poi penso alla terza Ostrava, quella del socialismo reale, dai palazzoni squallidi e dai magazzini industriali. Quella più brutta, insomma. Mentre osservo questi astrusi passaggi architettonici e mi immagino le persone che hanno passato la propria vita a Ostrava durante il rigore comunista, mi chiedo: qualche letterato ceco avrà pur scritto di questa città, dei suoi contrasti. Dopo un po’ mi viene in mente Lo scherzo di Milan Kundera (in Italia edito da Adelphi), una delle mie opere preferite. Uno dei suoi personaggi, di cui tra l’altro raccontai su queste pagine, dopo aver spedito una cartolina in cui si ironizzava sul regime comunista, per punizione venne espulso dall’università e mandato a svolgere due anni di servizio militare proprio qui a “Ostrava la nera”. Dovrà lavorare duramente nella Legione nera, ovvero i sovversivi anticomunisti che portavano le divise del colore con cui allora veniva identificata la città intera. Cominciano, dunque a raffiorare in me i ricordi di quella lettura, dove Kundera sembrava trasmetterci l’idea di una nuova vita in Cecoslovacchia, una vita difficile:
Era iniziata una nuova vita, davvero totalmente diversa, e il volto di questa nuova vita, così come si è impresso nel mio ricordo, era di una rigida serietà […] quegli anni si autoproclamavano i più radiosi fra tutti e chi non si dimostrava felice era immediatamente sospettato di essere triste per la vittoria della classe operaia, oppure di essere individualmente nelle proprie malinconie interiori [p.41].
Oggi è facile pensare: come possibile essere felici in un paese dove c’era il socialismo reale? E ancora, come si fa a essere felici in una città di un paese comunista, senza troppe bellezze e con paesaggio industriale da inferno di Dante? Eppure Ostrava ha vissuto e vive, in uno sviluppo disordinato che ha provato a creare il nuovo ordine, o meglio l’ordine del nuovo. Ed è così che, spostandomi per l’immensa periferia seguendo con lo sguardo i cavi dei filobus che si dipartono agli incroci, mi ritrovo in zone impensabili e anonime. Mi sento quasi come Milan, straniero in patria, che vede questa città come una sorta di luogo lontano dalla sua realtà, ma che invece reale lo è, fino allo spasimo:
Presi il trenino locale, un vecchio tram che correva su strette rotaie, collegando i quartieri lontani di Ostrava e mi lasciai portar via. Poi scesi a caso e salii su un’altra linea; tutta quella sconfinata periferia di Ostrava, dove in uno strano amalgama si mescolavano una fabbrica e la natura, campi e depositi di immondizia, boschetti e cumuli di detriti, caseggiati e costruzioni di campagna mi attirava e mi turbava in maniera particolare; scesi nuovamente dal tram e cominciai una lunga passeggiata a piedi: percepivo quasi con passione quello strano paesaggio cercando di arrivare sino al fondo del suo spirito; cercavo di esprimere con parole ciò che dava unità e ordine a quel paesaggio costituito da elementi così eterogenei; passai accanto a un’idilliaca casetta coperta di edera e mi venne in mente che quello era il suo posto proprio perché non si adattava affatto ai caseggiati screpolati che le stavano accanto, e nemmeno ai contorni delle torri dei pozzi, delle ciminiere e delle fornaci che ne erano lo sfondo; passai accanto a basse baracche provvisorie, quasi un villaggio nel villaggio. Ero turbato dalla scoperta di tutte quelle discordanze […] in loro scorgevo l’immagine del mio destino, del mio esilio in quella città; e naturalmente, quel proiettare la mia storia personale sull’oggettività di un’intera città mi concedeva una sorta di rassegnazione; capivo che quello non era il mio posto […] io dovevo stare lì,in quella orribile città di discordanze, in una città che stringeva in un abbraccio implacabile cose tra loro estraneee [pp. 81-82].
Eppure il protagonista riesce a trovare l’amore in un centro urbano difficile, complesso, dove l’uomo soffre per l’assenza di colore. Kundera narra dunque l’amore nella città nera:
Vagabondammo nella strana estate di Ostrava, un’estate nera e piena di fuliggine, sulla quale al posto di nuvole bianche passavano carrelli di carbone attaccati a lunghi cavi d’acciaio [p.93].
Anche chi abita in un luogo più brutto di un altro, per fortuna ha il diritto di amare e a volte ci riesce, anche senza i paesaggi romantici, senza troppi colori. Sarò banale, ma l’amore è più forte di ogni cosa, anche della fuliggine di Ostrava.
Un destino e una vita storti quelli di Ostrava. Storti come la chiesa di Karvina, dedicata a San Pietro d’Alcantara, tempio del Settecento che presenta un’inclinazione di quasi 7 gradi dovuta proprio alle estrazioni minerarie del sottosuolo, spesso causa di pericolosi cedimenti. Sembra quasi che il volere divino si sia piegato al potente e miracoloso sviluppo industriale. Quasi una bestemmia.
Anche chi nasce qui avrà assimilato le discordanze. Penso a un famoso poeta ceco, Petr Hruška. Nato proprio in questa città, Hruška ama unire il colto con il colloquiale, l’alto con il basso, ciò che è chiaro con ciò che non lo è, il corretto con lo sgrammaticato, l’insensibilità con la sensibilità. Un poeta che queste discordanze le unisce. Ostrava, nel corso degli anni, ha fatto lo stesso.
Oggi Ostrava è cambiata; i luoghi dell’acciaio e del carbone sono diventati una meta turistica: altiforni e miniere sono infatti visitabili e raccontano al visitatore un mondo in continuo cambiamento. Non saranno il Colosseo o la Tour Eiffel, è vero, ma se uno ha una vaga idea di cosa sia stata Ostrava nel passato, una visita a queste strutture ha un valore inestimabile. Nel centro storico sono state rispolverate le palazzine di fine Ottocento e inizi Novecento, passeggiare lungo il fiume che attraversa la città ha ora un che di piacevole; chi lo fa non si trova più in una città anonima, bensì in un punto di unione: il fiume, infatti, segna il confine tra la Moravia e la Slesia, Ostrava con i suo strano tessuto urbano invece unisce le due regioni. La Polonia e la Slovacchia sono lontane poche decine di km, Ostrava sta assumendo il valore di città di interscambio, anche culturale, con la sua attiva università e i suoi teatri. Il citato Nuovo municipio con la sua torre di di 73 metri ci permette di dominare la città che, sebbene di 300.000 abitanti, è a misura d’uomo e si può visitare a piedi. Ostrava la nera non più nera ha scelto la via del colore. In luglio, infatti, ha luogo il “Festival dei colori”, manifestazione musicale che sta assumendo una certa importanza internazionale. Le acciaierie sono state chiuse nel 1994 e oggi sono uno dei più grandi complessi di archeologia industriale d’Europa. Un turismo specifico, lo so, ma profondamente impregnato di storia. Cammino tra altiforni, tubi, pozzi e serbatoi in questa immensa “cattedrale del lavoro” che celebra lo sviluppo industriale di quell’epoca e il sacrificio di migliaia di persone. Si tratta di un qualcosa che, dopo le prime sensazioni di inquietudine, lascia spazio allo spettacolo.
Le persone con cui parlo si fermano volentieri a chiaccherare e mi raccontano del passato comunista, del fumo, delle industrie, di Poruba. Di Poruba? Chiedo io. Poruba, sì, la città ideale del comunismo, costruita tra gli anni 50 e 60 in stile realismo socialista, oggi un gioellino urbanistico che ci fa capire molti aspetti dell’utopia dei regimi oltrecortina. Il complesso urbano, secondo il mito locale situato in un punto in cui il vento non avrebbe portato il fumo delle ciminiere, sorprende per le sue geometrie, la sua inusuale eleganza. Il primo comunismo aveva infatti cura dei dettagli, dei materiali, poi tutto lasciò invece spazio a costruzioni e materiali scadenti, molto più economiche. Qui li chiamano panelaki.
Una città dunque da intrepretare Ostrava, da capire nei suoi vari strati architettonici di centro urbano, che finalmente oggi presenta il suo volto umano e colorato.
Chissà cosa ne direbbe Kundera.
Luca Palmarini
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