Mario Bonanno – Reviewing E.T.
Reviewing E.T.
Due o tre appunti sulla suspense del primo Steven Spielberg
Per approdare all’ecumenismo “storico” di E.T. L’extraterrestre (transustanziazione infantile dell’ecumenismo “cosmico” di Incontri ravvicinati del terzo tipo) bisogna prima rifarsi alla sua antitesi malevola. Cominciare cioè ancora una volta da Lo squalo (1975). Dal meta-film che, dopo Duel (1971) e Sugarland Express (1973) fortifica i meccanismi implacabili della suspense spielberghiana. Si tratta di meccanismi esatti, di un’esattezza chirurgica, nello Squalo palesata sin dal suo incipit. Si vede una battigia al crepuscolo. Si vedono dei ragazzi attorno a un fuoco. Si vede una giovane donna che entra in acqua, si vede lui che è troppo sbronzo per seguirla. Il sole irraggia la sua ultima luce (l’ora ideale per gli squali). Lei nuota da inesperta, bracciate rigide, fiato corto, sempre più lontana dalla riva. La mdp è mobile, affiora e si immerge sotto la superficie buia. Dagli abissi viene su qualcosa che ancora non si vede. Ancora qualche frame e l’oceano si tinge si rosso. Uno strappo violento. Il volto della donna trasformato in una maschera di dolore e terrore. La boa che annaspando tenta di raggiungere, e che non serve a niente. Lo riscrivo: Jaws è pura metafisica thrilling attestata sulle coordinate del perturbante e del racconto di mare. Ha tracciato il punto di non-ritorno cinefilo di almeno due generazioni, transitate dalla zoomorfica fanciullezza dei cartoon disneyani alle inquietudini del filone eco-vegeance a seguire. In parole più povere: sono fra quelli rimasti segnati da Lo squalo: l’implacabile dilatazione dei meccanismi della tensione di quel film hanno marcato tracce profonde sulle mie attitudini cinematografiche. Per non parlare delle mie nuotate in mare aperto, decisamente meno serene rispetto a quando non sapevo che a pochi metri dalla riva potessero nuotarci squali della specie Carcharodon carcharias.
Ma come accennato, i prodromi tensivi “alla Spielberg” erano già stati enunciati in Duel, una manciata di anni prima. Espressi da un’autocisterna-squalo a caccia fra i canyon del deserto del Moyave. A bordo della sua auto, il viaggiatore di commercio David Mann tenta di raggiungere un cliente in capo al mondo ed è preso di mira dall’invisibile pilota dell’autoarticolato: da lì in avanti è un continuo trattenere il fiato, con l’ansia che detta le regole di un perfido gioco gatto/topo, spadroneggiando incontrastata. Il camion come simbolo dell’orrore senza volto: un “antagonista” fra i più disturbanti della storia del cinema di paura. Steven Spielberg governa i topoi del genere da tecnico capace: un occhio a Gli uccelli di Hitchcock (per il tema della minaccia irrazionale che attenta alle certezze dell’uomo comune), uno – ulteriormente lato – alle inquietudini kafkiane, cui Richard Matheson potrebbe essersi ispirato in fase di rilettura del racconto su cui si basa il film.
E allora – per ritornare a E.T. – va bene la rivisitazione desichiana delle biciclette che ascendono al cielo invece delle scope. Va bene “ET telefono-casa”. Va bene, in sede di analisi, anche il lungo addio con lacrimoni in punta di ciglio, va bene tutto purchè non si tralasci il rito iniziatico del respiro corto e del cuore in gola: i primi quattordici minuti e spiccioli del film sono minuti-tensivi emblematici dello specifico thrilling del regista. I primi quattordici minuti e spiccioli di E.T. sono un incipit fondato sulla mise en abyme del concetto di tensione emotiva secondo Steven Spielberg. Sono cioè i minuti in cui intuisci che qualcosa di insolito (di spaventoso) sta per accadere e non sai ancora cosa. Sono l’attacco dilatato in cui vedi e non vedi. Il camion senza autista di Duel, il primo assalto notturno dello Squalo, l’incipit da film per bambini buoni (sono o non sono quelli che si cacciano nei guai più grossi?) destinato a trasformarsi in un racconto dove si intuiscono cose che strisciano nel buio. Fari di astronavi nel buio. Il cielo. Il bosco. Le ombre antropomorfe. Sono minuti di attesa che non finiscono mai. Babau piovuti dritti dal perturbante. Ricordate?
Il piccolo Elliot esce da casa per ritirare la pizza ordinata dal fratello maggiore impegnato in una partita a Dungeons & Dragons con gli amici, e avverte dei rumori provenire dalla rimessa. Improbabile possa trattarsi del suo cane Harvey. E suo papà è lontano. E tutt’attorno è notte. E la villetta dei suoi è troppo isolata, fuori dal mondo, al tempo stesso vicina-e-lontana. I grilli friniscono a una falce di luna che c’è e non c’è, controcanto alla radio di Michael (il fratello) che dall’abitazione trasmette una di quelle canzoni fatte apposta per essere trasmessa dalle radio americane quando in giro potrebbe starci Jason col suo lungo pugnale (Venerdì 13). Una canzoncina dal motivetto rassicurante, quando non c’è nulla là fuori che invece possa dirsi rassicurante (il montaggio alternato delle immagini “dentro/fuori la casa” rafforza la dicotomia sonora “radio/grilli”). Niente che possa rassicurare, nemmeno un po’. A dispetto dei suoi nove anni Elliot è però un bambino coraggioso e si avvicina alla rimessa. Poggia a terra il cartone da asporto e avanza piano verso la soglia del garage-metafora dell’antro buio. La soglia del non-conosciuto, dell’inesplorato, dunque del potenzialmente pericoloso. Assecondando la speranza che possa afferrarla il suo cane, vi lancia dentro una pallina da baseball (declinazione sci-fi della pallina da tennis che in Shining attira Danny Torrence nella stanza 237), e la pallina gli ritorna indietro. Come una specie di ectoplasma beffardo, come una sfida. Come restituita da un fantasma. Finisce che Elliot se la dà a gambe, come fa il cuore degli spettatori che scappa nella gola.
TUM TUM TUM.
Poco dopo il film imboccherà la strada dell’apologo sulla fratellanza tra piccoli – umani ed extraterrestri – e tireremo il fiato, ma di tutto questo in quei primi minuti ancora non c’è traccia. E dunque l’E.T. (che sappiamo essere comunque da qualche parte, là fuori) potrebbe avere qualunque intenzione. Essere qualsiasi cosa. Una delle tante che possono balzarci addosso e afferrarci dal buio. Dal cielo (Incontri ravvicinati del terzo tipo). Dagli abissi (Jaws). Dalle highway americane (Duel). E persino dal televisore (Poltergeist). Cose nere. Cose disturbanti. Consustanziali al cinema del/sul filo di rasoio, all’inarrivabile poetica della suspense del “primo” Steven Spielberg.
Mario Bonanno
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