Matteo Mancini -  Jan Švábenický un italiano di cekia

Matteo Mancini – Jan Švábenický un italiano di cekia

A distanza di un po’ di tempo dalla mia intervista a Ernesto Gastaldi, ho il piacere di scambiare quattro chiacchiere con un mio amico e collaboratore: Jan Švábenický.

Conosco Jan fin dai tempi dell’uscita del mio primo volume dedicato allo spaghetti western, uscito nel 2012 per le Edizioni il Foglio di Piombino. Da allora è entrato nel mio progetto e ha partecipato con interessanti omaggi, collaborando con articoli e interviste inedite, nel terzo e quarto libro della mia tetralogia. Andiamo allora a conoscerlo meglio, soprattutto perché è fresco di stampa, avendo sdoganato per primo lo spaghetti western in patria, in Repubblica Ceca, dove è uscito Fenomen Italsky Western. Cercheremo in questa intervista di non ripetere domande già apparse altrove, anche se alcune saranno obbligatorie e di circostanza per introdurre Jan ai lettori della rivista.

M.M.: Ciao Jan, ben tornato. Ti avranno fatto più volte questa domanda, ma come capirai è di rito. Chi sei, che percorso di studi hai fatto e quali sono le tue passioni?

JŠ: Ciao Matteo, grazie molto per il benvenuto e per l’invito all’intervista. Sono uno storico del cinema, ricercatore e pubblicista, ma anche un appassionato come la maggior parte di noi interessati al cinema, perché senza entusiasmo non c’è mai vero interesse. Ho completato gli studi cinematografici nelle università di Olomouc e poi a Nitra, dove ho conseguito il dottorato. Sono specializzato principalmente nel cinema italiano, nei suoi generi popolari, ma anche nei western nei singoli cinema nazionali. Questi temi sono anche le mie grandi passioni.

M.M.: Partiamo subito con una domanda sul tuo Fenomén Italský Western che, correggimi se sbaglio, è il primo saggio dedicato al cinema western italiano uscito nella lingua della Repubblica ceca. So che è un volume unico. Che tipo di struttura gli hai dato e come affronti lo sterminato mare magnum di film, visto che si parla di oltre quattrocento pellicole?

JŠ: Non ti sbagli, questo è storicamente davvero il primo libro sul western italiano in Cecoslovacchia e nella Repubblica Ceca. Il libro ha due parti principali. La prima è storica, dove seguo lo sviluppo del western italiano dal periodo muto al 1964. La seconda è interpretativa, dove analizzo i singoli elementi e i motivi come l’iconografia cristiana, gli anacronismi, i paradossi e l’intertestualità, e la musica e le colonne sonore dei film. Il libro è completato da una prefazione dello sceneggiatore Ernesto Gastaldi e dalla mia intervista al regista Giancarlo Santi. Ho scelto un approccio interdisciplinare che mi permette di esaminare il western italiano da diverse prospettive possibili e ottenere così una visione più completa del genere.

M.M.: Come hanno reagito i lettori all’uscita del tuo libro? Hai ricevuto riscontri in termini di apprezzamenti e vendite?

JŠ: Il libro sta vendendo abbastanza bene e ha suscitato molto interesse nei media cechi. Anche ai lettori piace molto. Ho ricevuto reazioni molto favorevoli da molti e di questo sono soddisfatto. Lo storico e teorico slovacco del cinema Peter Michalovič, che si occupa anche di western, ha scritto una recensione molto positiva e dettagliata del libro, che mi ha fatto molto piacere. Fenomén Italský Western ha suscitato interesse anche all’estero, Italia compresa, dove sono stato intervistato da Alessandro M. Colombo. Anche lo storico americano del cinema Tom Betts e Sebastian Haselbeck, che è il fondatore di un database online internazionale di grande successo dedicato ai western europei, hanno condotto interviste dettagliate che mi hanno riguardato in prima persona.

M.M.: Parliamo dell’evoluzione del cinema western italiano e del rapporto col western americano. Sappiamo che il western americano delle origini è più legato a concetti di rilievo sociale, quali l’importanza della famiglia, della legge, del ruolo ristoratore dell’eroe chiamato a ripristinare l’ordine e soprattutto dell’epopea western e della corsa all’oro. Modi attraverso i quali, potremmo dire, i cineasti americani delineavano la nascita della società americana. Noti un qualcosa del genere anche nei western italiani oppure erano profondamente diversi? Quali erano le coordinate, secondo te, seguite dai registi italiani e quale delle due impostazioni ritieni più interessante.

JŠ: Secondo me il western italiano è molto diverso da quello americano, ed è marginalmente ispirato da esso. Molti storici e critici fino a oggi ignorano questo fatto perché non esaminano la vera storia del western italiano a partire dall’era del muto, quando il cinema era agli albori. La storia e l’iconografia del West americano non è molto essenziale per il western italiano. Nella maggior parte dei casi rappresenta una cornice modificata per uno spettacolo di tensione. La fortissima presenza dell’iconografia cristiana e della geografia mediterranea indica che il western italiano proviene da fonti socio-culturali diverse. Gli esempi da citare sono tanti, basta guardare i variegatissimi western di Sergio Corbucci, che sviluppano fortemente l’identità culturale italiana.

M.M.: Tra i film western italiani affidati a registi, per così dire, secondari, quali sono quelli che, a tuo avviso, sono sottovalutati e meritevoli di essere riscoperti?

JŠ: Per molti anni, lo stesso western italiano non solo è stato trascurato, ignorato e condannato dai critici cinematografici, ma è stato anche erroneamente definito un’imitazione del western americano, una conclusione questa molto distorta e sbagliata. Ci sono tanti registi sottovalutati. Oltre alla ristretta cerchia di nomi iconici che si sono affermati nel tempo, come Sergio Leone, Sergio Corbucci, Duccio Tessari, Tonino Valerii, Sergio Sollima o Giulio Petroni, ci sono altri registi ingiustamente dimenticati. Penso a nomi come Sergio Garrone, Edoardo Mulargia, Vincenzo Musolino, Giuseppe Vari, Alfonso Brescia e altri che, per me, non sono affatto registi minori. Sono registi interessanti degni di attenzione. Allo stesso modo Demofilo Fidani, i cui cupi western crepuscolari hanno una grande atmosfera e ambiente, presentano scene e protagonisti paradossali al limite dell’assurdità culturale.

M.M.: Dopo i primi western derivativi che cercavano di scimmiottare le trame dei prodotti americani, nel 1964 arriva Per un Pugno di Dollari e il genere cambia, sposa la violenza, i ritmi serrati e un registro fumettistico esaltato da colonne sonore che sono diventate leggenda. La politica entra nel genere e non viene censurata. Nasce il tortilla western finché nel 1970 arriva Lo Chiamavano Trinità che cambia ancora tutto. Come descriveresti queste fasi, da un punto di vista qualitativo, tecnico e registico?  Che influenza hanno avuto, a tuo avviso e se ritieni, le vicende socio-politiche nel determinare questi passaggi epocali?

JŠ: Il primo western di Sergio Leone, che ha avuto un successo di pubblico inaspettato, è stato sicuramente un film molto influente e seminale che ha aperto una nuova strada alla formazione del western italiano. Tuttavia, non credo che possa esser definito il primo e fondamentale film nel campo dell’iconografia, della violenza, ecc. Basti pensare all’oscuro e violento western Minnesota Clay (1964) di Sergio Corbucci, che fu anche il primo western italiano proiettato negli Stati Uniti. Allo stesso modo, altri film realizzati ancor prima di Leone, come Le pistole non discutono (1964) di Mario Caiano o Jim il primo (1964) di Sergio Bergonzelli, aprivano ai controversi temi della violenza e dell’uccisione a sangue freddo, pur non essendo mostrati in modo troppo esplicito. Da Bergonzelli ci sono anche accenni erotici nel costume trasparente del personaggio femminile, oltre a un tentativo di stupro, tema che poi sarà ripreso più volte nel western italiano.

M.M. Ritieni come Sergio Leone che i film di Terence Hill e, con loro, il cosiddetto fagioli western abbiano ucciso il genere poi ibridato (persino dal kung-fu) da continui tentativi di rinnovazione oppure hanno avuto un loro ruolo nella storia del western italiano?

Jan Švábenický con Ennio Morricone a Praga (2015)

JŠ: Sì, tutte le forme e le modifiche del western italiano hanno il loro posto nella storia del cinema. Del resto si trattava della reazione di produttori, sceneggiatori e registi alla contemporanea situazione della distribuzione italiana e internazionale. Per sopravvivere e continuare ad attrarre il pubblico, era quindi necessario adattare anche il western italiano a nuove formule di genere e iconografiche. A mio parere, la combinazione con il kung fu o anche le successive variazioni crepuscolari sul western italiano con elementi apocalittici funzionano in modo molto suggestivo.

M.M.: A dispetto di quanto diceva Leone, saprai che negli anni trenta, nei pulp magazine americani, celebri autori come Robert Ervin Howard, che sarebbe poi diventato celebre per l’ideazione del personaggio di Conan il Cimmero, avevano già anticipato tentativi di ibridazione, sia con l’horror che con una commedia prossima al “sorrisi & cazzotti” tipicamente italiano. Penso alla saga del Breckinridge Elkins, molto simile ai film di Bud Spencer & Terence Hill o alla saga El Borak che, un po’ come farà Luigi Vanzi, sposta la figura del pistolero in medio-oriente. Storie che vendevano molto bene tra i lettori, pur essendo totalmente diverse dalle classiche avventure dei vari Louis L’Amour e del successivo Elmore Leonard, più concentrate su un western dai tratti seriosi e convenzionali. Hai mai letto questi racconti o i pulp magazine western americani usciti negli anni trenta? Cosa ne pensi? Ci sono pubblicazioni di testi di questi autori in lingua ceca?

JŠ: Sfortunatamente, non ho letto i racconti che citi, quindi non posso giudicare quale influenza abbiano avuto sui diversi generi cinematografici. Non credo che siano molto conosciuti in Repubblica Ceca, ma non lo so per certo perché è un settore che non ho ancora approfondito. Ma ci sono noti autori letterari nel nostro paese che citi. Soprattutto Louis L’Amour, che è molto rappresentato nel nostro mercato librario e molti dei cui romanzi sono stati trasposti.

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