Mirko Tondi – Lavorare sulla struttura: settima e ultima parte

Torniamo a parlare di struttura, chiudendo finalmente il viaggio iniziato diversi mesi fa. Sempre Milan Kundera (che avevamo già citato nell’articolo precedente) definisce quella che lui chiama “sezione polifonica” come “la chiave di volta di tutta la costruzione. Lì dentro c’è tutto il segreto dell’equilibrio architettonico”. Per polifonia romanzesca non intende qui una varietà di punti di vista, semmai la coesistenza di differenti elementi all’interno dello stesso libro, come per esempio una parte di saggio, una parte di racconto autobiografico, riflessioni filosofiche e musicologiche. E poi, ancora lui, aggiunge: “la forma di un romanzo, la sua «struttura matematica», non è qualcosa di calcolato; è un imperativo inconscio, un’ossessione”. Ossessione (o estrema meticolosità) che può condurre alla creazione di veri e propri capolavori, talvolta opere magari complesse ma a loro modo epocali, uniche nella loro composizione. Ora, credo che la maniera migliore per concludere questa lunga disamina sul tema della struttura non possa essere che citarne alcuni esempi significativi, giusto una manciata, senz’altro utili per approfondire il discorso intrapreso.

Cominciamo dai capostipiti di tutti i libri-mondo:

Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust (sette volumi che ruotano attorno ai suoi ricordi) e Ulisse di James Joyce (circa mille pagine per raccontare un giorno della vita dei suoi protagonisti; non a caso, la struttura nella quale Joyce inscrive la sua opera è proprio quella del poema omerico); l’intera produzione di Thomas Bernhard, con la sua struttura in un unico blocco, senza capitoli né stacchi di alcun tipo (ripresa poi da W.G. Sebald in libri come Austerlitz, ma con l’ausilio di fotografie a intervallare la narrazione); Georges Simenon e i suoi 11 capitoli, che accomunano molti romanzi della sua vasta bibliografia; Le città invisibili (con una cornice che racchiude, in un meccanismo combinatorio, i racconti di 55 città inventate, le quali rientrano in 11 categorie distinte)e Se una notte d’inverno un viaggiatore (un gioco metaletterario a orologeria), entrambi di Italo Calvino; gli esponenti del postmodernismo americano come Thomas Pynchon(L’arcobaleno della gravità, uno dei paradigmi del romanzo massimalista), Don DeLillo(Underworld e la palla da baseball che passa di mano in mano, guidando la narrazione), David Foster Wallace (Infinite Jest, la cui struttura è plasmata sul triangolo di Sierpinski, un frattale matematico, insomma non la cosa più semplice in circolazione, diciamo la verità...); I detective selvaggi (già citato in altre occasioni per la presenza, nella sua sezione centrale, di 54 diversi punti di vista)e 2666 di Roberto Bolaño (quest’ultima, suddivisa in cinque parti, è forse la sua opera più ardita e monumentale); Limonov di Emmanuel Carrère (un prologo e un epilogo a raccogliere 9 capitoli suddivisi in base al luogo e al periodo in cui sono ambientati); Tony & Susan di Austin Wright e Libertà di Jonathan Franzen (li cito assieme, perché ambedue contengono un libro dentro al libro, ma il primo si distingue sicuramente per una sorprendente disposizione a incastro, alternando i capitoli dell’una e dell’altra narrazione). Non sempre è una struttura singolare o addirittura iperbolica a colpire, ma qualche volta anche la sua esemplare semplicità, che si rivela ancor più efficace, come nel caso del romanzo biografico Compulsion di Meyer Levin, diviso in due parti denominate così: “Il delitto del secolo” e “Il processo del secolo”.

E va detto che la struttura non è solo affare del romanzo, ma anche – e soprattutto – il racconto può essere utilizzato per tentare degli esperimenti in questo senso; se volete prendere qualche spunto, c’è solo da scegliere: da Cechov (con la sua mirabile eloquenza, in poche pagine e spesso – non mi stancherò mai di ripeterlo – senza neanche dire ma semplicemente evocando) a Salinger (prendete il suo Un giorno ideale per i pescibanana e date un’occhiata alla perfezione della sua suddivisione in tre atti, dove si distinguono chiaramente inizio-sviluppo-fine), da Barthelme (che, al contrario, era abilissimo nel destrutturare le forme) fino a George Saunders (forse uno degli autori più originali del nostro tempo, di cui segnalo, oltre alle notevoli raccolte di racconti, pure l’eccentrico romanzo Lincoln nel Bardo).

Mi fermo qua, dopo questa giostra di nomi eccellenti. Può darsi che, nonostante tutto, il serbatoio sulle cose da dire a proposito di questo argomento non sia nemmeno esaurito. Bene, meglio così: vuol dire allora che in futuro avremo ancora la scusa per tornare a parlarne.

Mirko Tondi