Patrice Avella – La sanguinosa tragedia

Magenta, giovedì 11 dicembre – Sacrestia della chiesa San Martino– ore 10

A Magenta, cittadina nei pressi di Milano celebre per la battaglia napoleonica, il seminarista Ernesto era venuto con fare agitato a chiamare il parroco in sacrestia dopo la messa. Aveva appena ricevuto una chiamata da Roma, dal Vaticano. L’uomo di Dio, don Corrado Espedito, lasciò perdere quello che stava facendo e si diresse verso il prezioso telefono correndo dietro al seminarista più svelto di lui. Ancora un po’ affannato, si presentò, ascoltò con attenzione e deferenza. Accettò il compito che gli avevano affidato genuflettendosi con devozione di fronte al telefono nero e immobile. Riagganciò e rimase immerso nei suoi pensieri per un minuto. Il seminarista non osò chiedergli nulla.

«Non capisco,» disse alla fine il prete, «un monsignore mi ha chiesto di andare domani pomeriggio a pregare di fronte all’arcivescovado di piazza Fontana vicino al Duomo, e di aspettare il messaggio di Dio!»

«E siccome le vie del Signore sono imperscrutabili…» rispose Ernesto.

«Non devo rivelare a nessuno questa conversazione con il Vaticano, e nemmeno tu, mio caro.»

«Forse questo monsignore di Roma ha ricevuto un’illuminazione?» ipotizzò il seminarista. «Come si chiama?»

«Oh Dio, non mi ricordo più, ma… Chissà se me l’ha detto?»

«Posso accompagnarla laggiù domani?»

«No, grazie, mio buon Ernesto. Devo andarci da solo… E fare il mio dovere.»

«Si porti dietro il messale!»

«Certo, hai ragione,» concluse Don Ernesto.

Milano, venerdì 12 dicembre – Basilica del Duomo – ore 16:25

Don Espedito aveva trascorso il freddo pomeriggio di quel venerdì pregando a lungo e con devozione nella cattedrale del Duomo, a qualche passo da piazza Fontana. Poi si era diretto tranquillo verso la piazza, l’animo confortato dalle preghiere. Però non notò niente di anormale. Solo la frenesia esagitata di una giornata di compere in vista delle feste natalizie. Sentì le campane suonare le 16:30. La banca era ancora aperta. Nonostante l’ora tardiva, non aveva ancora chiuso i battenti. Niente di sorprendente: il venerdì, soprattutto durante i periodi di compere, il numero di transazioni bancarie prima della chiusura del weekend era molto più importante rispetto agli altri giorni della settimana. Si diresse verso la piazza per ammirare la spettacolare quercia centenaria, l’acqua chiara che scorreva limpida nella fontana decorata con le statue che rappresentavano due giovani contadine allegre. Il fondo della vasca era tappezzato di foglie ingiallite che davano un bel colore autunnale a tutto l’insieme. Si guardò intorno in attesa di un messaggio. All’improvviso sentì un’enorme esplosione il cui boato venne moltiplicato dal riverbero del luogo chiuso dell’interno della banca.

Il prete fece appena in tempo a mettersi le mani sulle orecchie e venne scaraventato a terra dal movimento d’aria. Inebetito e frastornato dall’onda d’urto, alzò la testa e sentì dei proiettili attraversare tutta la piazza. Si asciugò la fronte con il palmo della mano. Sul viso gli stava colando un fluido caldo e vischioso. Alzandosi, si asciugò le guance e si guardò le mani: erano coperte di un liquido rosso, coperte di sangue rosso. Tuttavia non sentiva dolore, non aveva ferite apparenti, solo qualche vertigine e un senso di nausea, niente di più. Anche dalle due statue femminili stava colando un’acqua rossastra in gran quantità, tanto che sembrava provenire dalla fontana stessa. Il fondo della vasca non era più di quel giallo grazioso, ma c’erano detriti e altri frammenti insanguinati. Un forte odore di esplosivo accompagnava il fumo denso, grigio e blu, che usciva dalle porte e dalle finestre. All’improvviso il grido di una donna che usciva di corsa dalla banca lo riportò alla realtà. La donna era ferita e aveva il corpo cosparso di sangue, i vestiti ridotti a brandelli. Urlava. Non si sentiva più il braccio… E aveva ragione, il suo braccio era sparito, spazzato via dall’esplosione. Perdeva moltissimo sangue. Don Espedito la prese tra le braccia, la appoggiò a terra, cercò di calmarla e chiamò aiuto. Un uomo, ancora sconvolto dall’esplosione, si fermò vicino a lui facendogli capire a gesti che aveva perso improvvisamente l’udito: il prete si tolse il cappotto e lo appallottolò. Fece capire all’uomo di fermare con forza il sangue che fuoriusciva dalla spalla della donna per evitare una grave emorragia, mentre aspettavano i soccorsi. Il prete finalmente capì la ragione del messaggio di Dio, doveva soccorrere quelle anime perse. Prese dalla borsa alcuni oggetti di culto e si precipitò verso l’ingresso della banca devastata. Arrivato senza fiato sulla scalinata, un ferito lo afferrò ancor prima che riuscisse a entrare.

«È una fortuna che sia qui, padre, così potremo morire da cristiani con la coscienza pulita e in grazia di Dio» profetizzò prima di svenire.

«È una grazia che tu possa sentire Dio in questo momento terribile, prega per noi, figliolo.»

Il sergente Chulivniuk accorse sentendo l’esplosione che gli ricordò le bombe che scoppiavano vicino al suo rifugio in tempo di guerra. Urtò il prete di fronte a lui ed entrò nel locale distrutto. In mezzo al fumo spesso, venne aggredito da un odore terribile. Si fece largo tra i feriti premendosi un fazzoletto sul naso per evitare di intossicarsi con la polvere rilasciata dall’esplosione. La scena sembrava un campo di battaglia, grida d’orrore, pianti dei feriti, preghiere dette a voce alta. Venti, trenta persone, o forse più, chiamavano aiuto, lo tiravano per i pantaloni. Supplicavano di essere liberati dai pesi che immobilizzavano i loro corpi, un armadio o un pezzo di cemento del soffitto. Sotto l’enorme baraonda ammassata nel grande atrio centrale giacevano uomini e donne atrocemente mutilati con il viso coperto di sangue. Molti erano stati trafitti dalla caduta di vetri della cupola andata totalmente in frantumi per via dell’esplosione. Pezzi di vetro taglienti come lame erano caduti a pioggia sulle vittime a terra. Qualcuno aveva avuto la forza di proteggersi il viso. Altri, più deboli, avevano la faccia tagliata. Una giovane aveva le guance perforate da una scheggia. E dire che il sergente aveva visto gli orrori della battaglia di primavera di Praga, ma si era dimenticato il dolore che la guerra poteva causare ancora in tempo di pace. Cercò di andare dall’altra parte della stanza. Lì, vide una persona morta consumarsi tra le fiamme. Trovò un cappotto abbandonato e coprì il cadavere annerito del poveretto. Poi sentì parlare in russo. Trovò il tenente sdraiato a terra, imprigionato da una struttura metallica che gli bloccava le gambe. Si chinò per cercare di sollevare il pesante pezzo di metallo senza riuscirci, poi un prete e un impiegato della banca lo aiutarono. L’ufficiale bolscevico riuscì a strisciare e tirarsi fuori da quella trappola, per poi svenire per lo sforzo. Il prete, credendolo morto, si fece il segno della croce e mormorò:

«Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis. Cum Sanctis tuis in aeternum : quia pius es… L’eterno riposo dona a lui, Signore, e splenda a lui la luce perpetua: poiché tu sei misericordioso. Per Dominum.»

Il sergente Oleg sollevò il corpo inanimato del tenente e se lo caricò sulle spalle per portarlo fuori da quell’inferno nel quale Don Espedito continuava a pregare di fronte tutti i corpi traumatizzanti, dando assoluzioni e benedizioni. Ti perdono e ti assolvo dai tuoi peccati, assicurava in latino:

«Ego te absolvo a peccatis tuis, in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti, amen.»

Ad ogni metro che percorreva, il prete scopriva nuove atrocità e rimaneva sconvolto da quelle immagini infernali. Spargeva gocce di acqua benedetta con ampi gesti troppo disordinati per via del pianto e dell‘emozione che provava di fronte all’orrore di quel disastro.

«Per istam sanctam unctionem!»

Oleg fu urtato dai barellieri che presi dal panico si erano precipitati nell’edificio. Per sbaglio lo fecero cadere a terra con il suo carico sulla schiena. Il tenente riprese conoscenza con un grido di dolore. Scusandosi, il medico lo auscultò rapidamente e fece una smorfia scrollando la testa. Il medico lo abbandonò al suo triste destino: di fronte al massacro doveva scegliere i feriti curabili. Corse verso un altro corpo inanimato e fece lo stesso movimento del capo. Allora prese una coperta grigia dalla barella e coprì il viso della persona deceduta. Ancora più scioccato, il sergente lo vide inginocchiarsi di nuovo di fronte a un ragazzino imbrattato di polvere e sangue con le gambe a brandelli. E subito il medico urlò ai colleghi di occuparsene il più velocemente possibile: un barelliere gli applicò una mascherina sul viso e cominciò a premere il pallone di ossigenazione, un infermiere tentò di mettergli dei lacci emostatici, mentre il dottore tastava la cassa toracica del giovane che rantolava.

Il sergente reagì e si caricò di nuovo sulle spalle il corpo inerte del tenente e uscì dalla banca a fatica, scese di volata la scalinata d’ingresso, attraversò la piazza piena di curiosi e raggiunse l’Alfa Romeo. Piano piano Oleg fece sedere il tenente sul sedile anteriore e poi si mise al volante della Giulia Rossa. Fece ruggire il motore e si mise a suonare il clacson a tutto spiano per farsi strada frala gente di fronte all’auto. I due agenti del Kgb scapparono velocemente dal luogo dell’attentato per raggiungere l’ambasciata sovietica.

Nel frattempo il prete Don Espedito si diresse al centro del grande atrio dove vide l’enorme buco provocato dall’esplosione che doveva essere avvenuta nello scantinato diretta verso l’alto perforando il pavimento. Accanto al cratere scoprì alcuni corpi sepolti, altri smembrati e lembi umani sparpagliati qui e là. Nonostante il fumo grigio e acre distinse qui un orecchio isolato, là un pezzo di mano sanguinolenta, laggiù il resto di un viso femminile. Lanciò la sua acqua benedetta su tutto l’insieme dei resti umani per terra. Vide avvicinarsi le luci di un’ambulanza che fecero luccicare i pezzetti di vetro. In quel momento sentì un gemito dietro di lui: lo stava chiamando un ragazzo sfigurato. Era scocciato perché non riusciva a trovare la sua gamba sinistra scomparsa. Voleva trovarla per rialzarsi e scappare da quell’inferno. Il prete, che gli disse di essere un uomo di Dio, lo prese dolcemente tra le braccia per confortarlo.

«Reverendo! Mi salvi, ho visto le fiamme dell’inferno!» gridò il ferito con le orecchie sanguinanti.

«Sì, por fieu, ma il Signore è con lei in questo momento… Quietass» lo rassicurò Don Espedito, nonostante sapesse che quel figlio di Dio non poteva sentirlo.

«Pora num! Il bancone è esploso, alcuni uomini sono stati proiettati in aria e non sono più tornati giù. Ho visto el diaul, padre, el diaul! Una palla di fuoco si è diretta verso di me e mi ha colpito le gambe. Sacrista! Ovunque grida di dolore, che cosa orrenda! Pater, mi chiamo Angelo, non voglio morire in questo inferno…»

«La riporterò sulla terra di Dio, figlio mio, e pregherò per lei» gli disse l’ecclesiastico rendendolo tra le braccia citando un versetto della passione di Cristo.

«… Cominciò ad avere paura e a esserne afflitto… Coepit pavere et taedere et maestut esse, se ne va serenamente in grazia di Dio…»

Il prete camminava con difficoltà sotto il peso dell’uomo ferito a morte, cercando di ritrovare la luce del giorno e aprendosi un varco verso l’uscita ancora piena di fumo.

«Ecco qui, siamo al sicuro, Angelo, guardi il cielo e le nuvole lassù, adesso! Risplenda ad essi la luce perpetua, Signore…»

«Ah, finalmente! Che belle le nuvole, il cielo, la luce… Reverendo, sento freddo.»

L’uomo di Dio lo strinse ancora più forte contro di lui. Il viso deforme del ragazzo si girò verso di lui e gli rivolse un debole sorriso di riconoscenza. I suoi occhi lo fissavano ancora quando lo sorprese la morte. Quel bel viso di martire perse luce poco a poco, per poi spegnersi del tutto, il corpo si fece inerte. Il prete lo depose delicatamente all’ingresso della banca. Lo baciò e gli disse:

«Va in santa pas , fieu, beato te! Sii felice perché presto ti ricorderai di me quando sarai vicino a Dio.»

Don Espedito provò la strana sensazione di aver baciato il corpo straziato di Gesù Cristo e scoppiò a piangere per la devozione. In lacrime, le mani insanguinate, nonostante il suo sentimento di impotenza, continuò a professare il suo sacerdozio in quel luogo infernale dove sapeva che avrebbe trovato altre “anime straziate”, come gli aveva già preannunciato la misteriosa telefonata premonitrice che aveva ricevuto dal Vaticano. E Don Espedito continuò a pregare ancora e ancora.

Tratto dal libro di Patrice Avella: Piazza Fontana – Edizioni Il Foglio Letterario