Silvia Mazzocchi - Il bersaglio

Silvia Mazzocchi – Il bersaglio

Gli occhi di Sylvia Von Harden mi colpirono dritti al petto come una pugnalata, subito avvertii una sensazione acuta di dolore, come se qualcuno mi avesse trafitto il cuore con uno di quegli assurdi coltelli “Miracle Blade- Serie Perfetta” che mia mamma tiene nel primo cassetto del mobile di cucina.

“Alessio, sono davvero delusa, quello che hai fatto è indegno. Spero vorrai spiegarmi.“

Sussurrò con voce fredda e legnosa e, senza mai abbassare lo sguardo butto giù avidamente un sorso del suo Martini.

Io avrei voluto davvero darle una spiegazione credibile, avrei voluto trovare una qualche giustificazione, ma come potevo?

Non ne trovavo neppure per me stesso, quindi, come potevo spiegarlo a lei?

Sylvia poggiò sul tavolino del bar il suo Martini e si accese una sigaretta.

Da che ho memoria lei ha sempre bevuto Martini e ha sempre fumato come una turca.

Ha la pelle ingiallita e delle mani orribili, mani che adoro; sono enormi, sproporzionate con le unghie opache e senza smalto. Mette sempre il rossetto rosso fuoco e disegna perfettamente il contorno delle sue labbra. Non ha una bella bocca, specialmente adesso.

L’essere così arrabbiata fa apparire i suoi sgraziati incisivi ancora più sporgenti e la sua bocca rossa, con gli angoli verso il basso, rende ancor più evidenti le sue rughe.

I suoi occhi spietati cercano risposte ma io, in realtà ho solo domande che mi rimbalzano nella testa come biglie impazzite.

Non riesco a darmi spiegazioni, non riesco a capire il perché della mia bravata ma, più di tutto, non mi capacito di come proprio Sylvia possa essere stata protagonista di questa mia idiozia, lei che ho sempre ammirato, amato e dipinto in diecimila versioni è stata inaspettatamente spettatrice di questo mio vile modo di comportarmi.

Sylvia ha sbuffato fuori il fumo di sigaretta e ha tentato goffamente di tirarsi su una calza facendo attenzione a non farsi vedere da me.

Quel suo insolito imbarazzo mi ha commosso, ho sorriso con malinconia osservando le sue calze sottili e trasparenti la cui consistenza mi ha ricordato le rughe del volto di mia nonna.

Ho provato la tentazione, quasi incontrollabile di poggiarle la mano sulla sua coscia per toccarle le calza calata.

Mi sono trattenuto con fatica.

“E allora? Non provi nemmeno a spiegarmi com’è successo?”

 

Non sapevo da dove iniziare.

Potevo partire da lontano, da quando avevo 4 anni e frequentavo ancora l’asilo e, mentre gli altri bambini giocavano con le macchinine o con i robot, io trascorrevo il mio tempo disegnando mostri e strane creature fantastiche su grandi album da disegno.

O magari potevo partire dal dopo.

Dalle scuole medie, dalla ragazzina con i boccoli biondi e perfetti che mi prendeva in giro perché avevo gli occhiali spessi come culi di bottiglia e i denti storti, esattamente come i tuoi mia cara Sylvia, ma forse l’avrei tirata troppo lunga.

 

Tanto valeva partire dal dopo.

Da quando mia mamma mi ha costretto ad iscrivermi a ragioneria per studiare matematica, diritto e altre materie che detestavo ma che “mi sono fatto piacere ” per amore suo perché:

 

“Dove vuoi andare con il liceo artistico? “ 

“Dammi retta, fai ragioneria che se ti diplomi bene magari trovi anche un lavoro in banca!”

Potevo forse partire da li, ma chissà se Sylvie avrebbe capito dove volevo arrivare con le mie assurde divagazioni.

Ero solito raccontare in modo confuso e mi perdevo in inutili dettagli e citazioni, alcune pertinenti, altre buttate là solo per cercare di chiarire il mio contorto modo di essere.

Conveniva forse partire da periodi più recenti per provare a spiegare alla mia adorata amica come ero arrivato a compiere quella sciocchezza.

Sylvia continuava a osservarmi, la sua ira era celata dietro un apparente distacco ma il modo in cui aspirava il fumo della sigaretta non lasciava dubbi.

Lo vedevo dal collo irrigidito, dalle sue spalle tese dalla narici allargate, era furente ma la cosa peggiore è che era delusa da me e questo non riuscivo a sopportarlo.

Odiavo deludere le persone, figuriamoci lei!

Indossava il solito abito con il collo alto, quello con i quadretti neri e rossi, un abito in misto lana e acrilico che mi faceva prudere il collo solo a guardarlo.

Mi ricordava gli orrendi maglioni con le trecce fatti a mano da mia nonna, quei maglioni che mi dovevo sempre mettere perché :

 “ La nonna ci resta male se non li indossi!”.

“E’ un regalo! L’ha fatto a mano per te! Sei un ingrato se non lo metti con la scusa che ti prude!”

 

Ecco. Forse potevo partire da quel particolare per spiegare come erano andare le cose a Sylvia.

Potevo partire dal mio senso di inadeguatezza, da come mi ero sempre sentito diverso, da come avevo sempre vissuto con questo terrore di deludere le aspettative dei miei genitori, delle poche ragazze che avevo avuto e dei falsi amici dei quali mi circondavo.

Potevo raccontarle di come mi avevano sempre schernito i ragazzi con cui ero cresciuto, di come mi avevano sempre appellato come :

“Quello diverso”, 

“Quello a cui piacevano cose strane”, 

“Quello che non ha fegato, che non ha coraggio “

“Quello che sa solo disegnare mostri!” 

Forse avrebbe capito se fossi partito da li a raccontare.

Del resto anche lei non era bella in senso oggettivo del termine e chissà, forse in alcuni momenti della sua vita aveva provato sensazioni simili alle mie, magari si era sentita inadeguata o non all’altezza delle sue amiche o delle altre belle donne che lavoravano insieme a lei.

O forse no.

Sylvia aveva sempre avuto un aura di superiorità che cozzava con il suo aspetto poco attraente.

Chissà, forse hanno ragione quelli che dicono che la bellezza sia un atteggiamento, uno stato mentale.

Infatti per me Sylvia era sempre stata bellissima nella sua arroganza e nella sua superiorità.

L’avevo sempre considerata una musa, un icona e mi ero disegnato nella testa questa immagine di lei di imperfetta bellezza assoluta.

La spietata Sylvia che con il suo Martini in mano, fumava pacatamente una sigaretta e mi scrutava, in cerca di spiegazioni con i suoi piccoli occhi cerchiati da profonde occhiaie.

Era ormai giunto il momento di spiegare, attendeva chiarimenti da troppo tempo e di lì a breve si sarebbe stufata, ne ero certo.

Dovevo dire qualcosa, dovevo quantomeno iniziare.

Vedi Sylvia, io sono un ragazzo cresciuto con il dorso della mano sporco di grafite e con le dita sempre macchiate di colore a tempera.

Sono un ragazzo che non ama andare in discoteca o fumare spinelli al barrino con gli amici.

Non bevo e non ho mai fatto a botte con nessuno, sono uno di quei ragazzi “bersaglio”.

Sono il bersaglio dei miei presunti amici, quello da prendere in giro, quello che li fa sentire superiori.

Sono quello che non viene chiamato a giocare il mercoledì sera alle partite di calcetto perché con il pallone sono una schiappa.

Sono uno sfigato.

Lo sono sempre stato e non puoi immaginare quanto sia brutto essere uno sfigato.

Tu sei una donna forte Sylvia, una giornalista affermata e in carriera e magari non puoi capire ma spero davvero che ci proverai.

Io sono un modesto impiegato che trascorre le sue notti a disegnare figure mostruose e a scrivere racconti fantasy, che però non faccio leggere a nessuno perché mi imbarazzano.

Vivo le mie giornate recitando una parte, cercando di farmi accettare da quelli “fighi”, “ da quelli che ci sanno fare” sia con le ragazze che con la vita.

Cerco continue conferme dai ragazzi del “barrino”, quelli a cui non fa differenza il fatto che io ci sia o meno, ma sono gli unici amici che ho e vorrei che mi volessero un po’ bene e non mi facessero sentire solo un “bersaglio”.

Sono uno sfigato Sylvia, questa è la verità, lo sono sempre stato, sono quel genere di amico che non veniva invitato ai compleanni dei compagni di classe, quello che era bravo a scuola e che passava i compiti a tutti per essere accettato e loro come ringraziamento, mi chiamavano solo

“ il secchione”. 

Solo tu mi hai sempre capito Sylvia e adesso so di averti delusa e questo mi fa male.

Ma non lo potevo sapere, non potevo immaginare che ti avrei trovato nascosta la dentro, e come potevo? Come potevi essere lì, pronta a giudicare questo mio passo falso?

E’ stata una sciocchezza quella di stasera. Una delle tante sciocchezze che ho fatto nella vita per sentirmi parte del “ branco”, ma adesso ho capito.

Mi servirà da lezione, questo è il mio punto di rottura, la mia arena di combattimento, ho solo vent’anni e posso cambiare, voglio cambiare.

Mi batterò per farlo, te lo giuro!

Lo so che non hai ancora capito nulla e io salto già alle conclusioni finali, non guardami così, arriverò al punto tra un attimo e capirai perché adesso ti trovi qui con me.

So che non qui che vorresti stare.

E’ stata una sciocca idea di Gianni, una sorta di scommessa venuta fuori in un attimo davanti all’autogrill di Serravalle in questo surreale sabato sera.

Stasera avevo deciso di provare ad essere come loro, di provare a uscire con i ragazzi del bar. Non per mia scelta beninteso, solo perché stranamente mi avevano invitato ad unirmi a loro e io, mi ero sentito così felice del fatto che quelli “fighi” si fossero accorti di me almeno per una sera.

E’ per colpa di una sciocca scommessa con Gianni che ti trovi qui Sylvia.

“Scommetto che non ne saresti capace! Tu non hai il coraggio!”

“ Che ne sai? Certo che potrei farlo!”

“Scommettiamo che non ci riesci?”

Ridevano come pazzi mentre mi dicevano che non avevo le palle, che ero solo un ragazzino incapace di compiere qualsiasi gesto fuori schemi.

E quindi l’ho fatto.

Si, solo per una scommessa idiota.

Per dimostrare loro che potevo essere qualcosa di più di un bersaglio e invece, mi sono comportato proprio da bersaglio.

Loro ci hanno messo un attimo ad intercettare la persona giusta: una ragazza carina, giovane, di poco più di vent’anni anche lei.

“Quella è perfetta! Sicuramente sta andando al mare! Vuoi che non abbia nulla nel bagagliaio? Dai fallo con la sua macchina!” 

E io sono partito a razzo verso la sua macchina ho spaccato il finestrino e le ho aperto la bauliera. Il sangue che mi pulsava nelle vene l’adrenalina e la voglia di rivincita mi hanno dato il coraggio per fare una cosa che non mi credevo capace di fare.

C’era un borsone da weekend nella bauliera della ragazza, l’ho preso e l’ho portato via.

Sono montato in macchina con gli altri e con i polmoni in fiamme siamo ripartiti sgommando.

STUPIDO!STUPIDO!STUPIDO!

Come ho potuto essere così stupido?

Loro ridevano a crepapelle così soddisfatti per avermi fatto fesso, così fieri di questa inutile bravata, così curiosi di aprire la borsa e vedere cosa c’era dentro infatti ne hanno sezionato il contenuto con una bramosia che ricordava gli avvoltoi su una carcassa.

Ma sono subito rimasti delusi, non c’era nulla di interessante e in un attimo, la borsa ha perso fascino ai loro occhi.

“E bravo Alessio! Ce l’hai fatta! Allora le hai le palle!” 

Mi ha quasi urlato in faccia Gianni, mentre scappavamo dal parcheggio per rimetterci in cammino verso casa in questo marcio sabato sera.

Siamo tornati verso casa e loro hanno gettato la borsa dal finestrino come se non significasse nulla. Dopo due ore io sono tornato a prenderla perché non potevo lasciarla li, sola e abbandonata perché la mia assurda prova da “uomo” mi faceva sentire così piccolo e, di questo devi rendermi merito, ho cercato di porre rimedio alla mia cazzata molto prima di vederti!

Avevo già compreso il mio errore, non mi crederai davvero così sciocco?

Quando ti ho visto gli occhi stavano per esplodermi dallo stupore e mi sono sentito ancora più ladro.

Frugare nella vita di qualcun’altro, violarne l’intimità, entrare nel mondo di una perfetta estranea mi ha fatto sentire uno schifo, ma credimi, quando ti ho visto sarei voluto sprofondare.

Mi guardavi dalla copertina di quell’album da disegno con la tua peggiore espressione e ne sono rimasto pietrificato; non riuscivo a sostenere il tuo sguardo, tanto era gelido.

Ho provato vergogna pensando al fatto che ho derubato la versione al femminile di me stesso,

una ragazza che disegna proprio in un blocco da disegno come il mio, un blocco con il tuo ritratto in copertina, mi sono sorpreso a domandarmi se anche lei ti affida pensieri e confessioni segrete come faccio io, ti rendi conto di quanto è grottesca questa situazione?

Ho ferito intimamente una ragazza insicura come me e l’ho privata dei suoi preziosi disegni, forse l’unica ragazza al mondo che poteva capire la mia passione per te e giuro che mi detesto per questo.

Non avrei mai pensato di trovarti nascosta lì dentro, non mi aspettavo di incrociare il tuo sguardo in un altro album da disegno uguale al mio.

Ho sbagliato lo so, ma adesso la situazione mi appare chiara.

Ho capito che non sono uno sfigato, che non sono solo un bersaglio, sono loro gli sfigati!

Tutto mi appare evidente solo grazie a te, che, come sempre sei spuntata fuori quando ne avevo più bisogno.

Forse non sei l’unica al mondo che può capirmi, adesso so che esistono altre persone che vivono della mia stessa passione, inizierò a cercarle e quando le avrò trovate loro mi capiranno.

Per loro non sarò solo un bersaglio.

Non sarò solo uno sfigato che disegna mostri e ama Otto Dix.

Perché loro saranno come me e ti ameranno nello stesso modo in cui ti amo io.

Nello stesso modo in cui ti ama lei.

Il suono del campanello la svegliò di soprassalto.

Si era addormentata alle 5 di mattina, dopo aver trascorso buona parte della notte dai carabinieri per denunciare il furto.

Corse ad aprire la porta in pigiama e con gli occhi mezzi chiusi chiese:

“Chi è? “

Non ricevette alcuna risposta.

Guardò dallo spioncino ma non c’era anima viva.

Aprì la porta e vide, poggiata nello zerbino la sua borsa con all’interno il suo album da disegno con in copertina la sua confidente segreta.

”Ritratto di Sylvia von Harden” di Otto Dix.

Strinse al petto l’album da disegno con il cuore che le batteva all’impazzata dalla gioia.

Qualcuno aveva ritrovato la sua borsa, qualcuno che non voleva farsi nemmeno vedere per essere ringraziato come meritava.

Chissà poi perché.

Cercò come mille altre volte negli occhi di Sylvia le risposte alle sue domande.

Sylvia non disse nulla ma, per la prima volta, poteva giurarlo, le sembrò di vederla sorridere.

Silvia Mazzocchi