Vincenzo Trama - Storia d'amore con forse lieto fine

Vincenzo Trama – Storia d’amore con forse lieto fine

Ramarro era un gran tamarro.
Un tamarro serio, meticolosamente preparato, che aveva studiato attentamente il proprio ruolo nella società civile.

In inverno sfoderava moncler con coordinati Ralph Lauren, morbidi cardigan che si allacciavano al collo sempre profumato e un’espressione cupa di chi teme che il freddo possa raggrinzirgli la pelle.

In primavera rivaleggiava coi prati in fiore sfoggiando leggere camicie con decorazioni di ranuncoli e bocche di leone, calzando mocassini scamosciati rigorosamente senza calzino.

In estate, quando andava in vacanza, si liberava dai panni della città e mostrava a tutti il suo scultoreo fisico lavorato per mesi in palestra, rivelando un carapace che saliva su, su, fino alla giugulare. Passeggiava lungo la spiaggia, così, senza andare da nessuna parte, ravviandosi di tanto in tanto la capigliatura scura immersa nei 16 tipi di creme per la riparazione dai terribili raggi uva.

In autunno sedeva ai tavoli dei lounge bar con rayban a goccia e martini in mano, portando con eleganza completi di velluto e camicie di lino aperte fino a mostrare il primo accenno di pettorale, ancora bronzeo per l’estate trascorsa ai lidi ferraresi.

Un tamarro per tutte le stagioni, Ramarro.

C’era una cosa che però più di tutte amava sfoggiare: il suo suv. Che lui chiamava amorevolmente “Il Mignottone”.

– Vado a far fare un giro al Mignottone – diceva agli amici del bar, fra lo sdegno delle vecchiette orripilate.

Sfilava fra le strade della tangenziale a bordo del suo macchinone, braccio fuori e cubano tra le labbra; quando si fermava accarezzava il cofano, controllava i paraurti, baciava i cerchioni in amianto.

All’autolavaggio era capace di starci ore; strofinava e lustrava, non lasciando che nemmeno una piccola incrostazione rovinasse la cromatura pregiata del suo Mignottone. La gente, impaziente, sbuffava dietro di lui. Se non lo si conosceva e si aveva l’azzardo di strombazzargli dietro si incappava in un grosso errore: per lui era come interrompere una copula con Nicole Kidman. Per molto meno era capace di sfasciarti la vettura con te ancora dentro.

Al bar, tuttavia, da un po’ di tempo era emerso un dubbio: ma com’è che Ramarro, un gran pezzo di figliuolo, dotato pure di un bolide che avrebbe steso molte fanciulle con il cervello allo stato brado, non s’era mai visto in giro con una fanciulla?

I vecchi incancreniti dalla noia si trasformarono in allibratori di quartiere e cominciarono a prendere quota fra i bookmakers della zona; l’omosessualità di Ramarro venne data a 2,50, una latente vocazione da prete a 5,00 e una improbabile ma non impossibile provenienza di Ramarro da Marte a 15,00.

Non ci fu però molto tempo per imbastire nuove e accattivanti ipotesi che, un giorno caldo di luglio, Ramarro si presentò al bar con una ragazza snella, slanciata, dalle forme sinuose e morbide come una nuvola dipinta, un sorriso smagliante e due occhi così dolci che sembravano muffin.

Lo stupore e lo choc fu generale. Ramarro con una ragazza?

Tano stracciò le sue puntate con un sonoro “Ma vai a cagare, finto ricchione d’un Ramarro”, il quale però non si scompose e ordinò il solito negroni. Appoggiato al bancone scoprì di avere tutti gli occhi puntati addosso; più su di lei, in realtà, che su di lui.

– Bè – fece con naturalezza – non avete mai visto una ragazza?

La bella fanciulla si chiamava Giulia, aveva 24 anni ed era laureanda in economia e commercio alla Bocconi; i due si erano conosciuti al Motor show di Bologna: lei era lì come standista per una ditta che produceva una nuova tipologia di pannuccia ignifuga per la pulizia dei cerchioni, lui invece era alla ricerca di un nuovo paio di possenti tergicristallo con annessa connessione wi-fi.

Avevano scambiato qualche parola allo stand degli anti ossidanti polacchi, poi, consumato un breve pasto insieme, si erano scambiati i numeri di telefono. Quella stessa sera Ramarro l’aveva chiamata, invitandola a fare un giro sul suo Mignottone.

Tutti erano felici nel constatare che finalmente anche quel tamarro di un Ramarro aveva finalmente messo la testa a posto; per due settimane i due furono accolti al bar con ovazioni e omaggi di vario genere: Mario offriva il caffè, Spadasso il suo merdoso libro di poesie, l’ateo libri di De Sade, il parroco le fede nuziali,le vecchiette bon bon risalenti alla prima guerra punica, Tarocco niente perché era tirchio, Tano neppure perché sull’omosessualità di Ramarro ci aveva giocato la tredicesima.

Poi però Giulia cominciò ad apparire a tutti un po’ troppo cupa; il suo sorriso, inizialmente dispiegato a mostrare una perfetta fila di denti perlacei, s’incurvò sempre più, fino a sparire in un espressione di smorta delusione.
L’unico che sembrava non accorgersene era Ramarro, sempre ghignante, sempre bullo, sempre pronto a filare via con il suo Mignottone.

La cosa non lasciò indifferente il popolo del bar, che ormai aveva preso a cuore quella ragazza e soprattutto, per una questione urbanistica, era portato a farsi i cazzi degli altri. Così un giorno, allontanando dall’interno del bar Ramarro con una scusa, chiesero tutti a una sol voce:

– Oh bella Giulia, ma che ti prende?

Lei sospirò, si mise le mani in grembo e pucciò le labbra nella crema del cappuccino ancora caldo.

– Oh bella Giulia, ma che ti prende?- domandò nuovamente a cappella il bar, escluso Tano il meccanico che dissonò con un:
– Ma perché il cappuccio alle 17?
– C’è che Ramarro mi porta sempre e solo in giro…- rispose flebilmente lei -…ormai stiamo insieme da un mese e ancora non…non…

La fanciulla non riuscì a concludere la frase, poiché Ramarro, archiviata la scusa, rientrò nel bar furente gridando:
– Ok, e ora fuori il pirla che mi ha cagato sul parabrezza!

Nel bar ci si arrovellò con dedizione. Cos’è che non aveva ancora fatto la coppia, dopo un mese di relazione?

– Non sono andati ad Acapulco insieme? – disse uno.
– Non ci sono ancora presentati ai genitori!- azzardò un altro.
– Idioti – replicò un vecchietto con tono saccente – non hanno ancora fatto la guerra.
– Non hanno mangiato la polenta taragna?
– Non credono forse nello stesso Dio?
– Non hanno – metafisicò uno – punto e basta!
– Forse non guardano la pagliuzza che è negli occhi altrui ma la trave che è nel loro?- ipotizzò il parroco.
– E allora tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino, prete! – fece l’ateo da bar, masticando un crocifisso giusto per il gusto della polemica.
– Non hanno goduto del digitale terrestre!
– Non hanno diritto di parola! – urlò un dissidente comunista – sono prigionieri politici di questa merda di paese!

Ghigo, il fratello manovale di Giulia, entrò nel bar sbattendo la porta.
– Stolti, romantici paesani – disse col suo vocione – non hanno ancora trombato. E può esserci una sola ragione: Ramarro c’ha l’amante.

Nel locale calò un silenzio di piombo, denso come la pece. Poi Tano il meccanico ruppe gli indugi.
– Ma tu abiti a Pieve Fissiraga – disse – come hai fatto ad arrivare fin qui?
– Col bus – sibilò Ghigo, incacchiato come non mai – e adesso vi spiego come lo staneremo.

Però il bus stava passando per l’ultima corsa e Ghigo non glielo spiegò mai.

Così Ghigo s’era messo d’accordo soltanto con Giulia. Il popolo del bar non s’era messo d’accordo con nessuno, ma fece finta di sì.

Allo scoccar della mezzanotte di un giovedì sera, Giulia fece finta di rientrare nell’androne di casa, dopo un cinemino con Ramarro concluso, come al solito, con due bacetti furtivi e via.

Appena Ramarrò rombò via col Mignottone, Giulia fu lesta nello sgattaiolare fuori dal portone per salire in sella alla Kawasaki di Ghigo, appostato lì vicino per smascherare il fedifrago.

Dietro, a loro insaputa, seguivano una decina di mezzi fra bicicli, tricicli, tandem, risciò, motorelli, vespini, monopattini con sidecar, più il tappeto volante di Tarocco su cui bivaccavano 15 persone per soli 5 euro cadauno. Tutti, ma proprio tutti volevano sapere.

Ramarrò spari fra le campagne del paese, dove lunghe file di granoturco consentivano da sempre un pasto nutriente alle nutrie del circondario. La strada non era delle più accessibili e molti furono i caduti di quella sera, a cui successivamente venne innalzata una targa commemorativa: alcuni persero la vita incastrandosi nelle aggressive ortiche selvatiche, altri furono aggredite dalle fameliche zanzare squalo, la nuova razza importata direttamente dalle isole Cook, altri ancora semplicemente si smarrirono e il giorno dopo si trovarono al casello di Melegnano, nudi e senza un rene.

Finalmente, dopo quel safari non autorizzato, Ramarro si fermò nel bel mezzo di una radura spelacchiata, al riparo dalle luci artificiali del paese. Scese dal Mignottone con lo stereo che diffondeva Love me tender e, fra lo sgomento generale, fece una cosa che fatichiamo qui a riportare.

(Se lo facciamo, lettori, è solo in virtù di quell’implicito patto che si instaura fra il lettore e lo scrivente, ragion per cui voi volete sapere a tutti i costi e noi non è che ci si può star tanto qui a cincischiare. Per cui, pur uscendo un attimo dallo schema secondo cui chi sta parlando in questo istante è il narratore onnisciente, ci tenevamo a sottolineare che episodi simili, giacché li scriviamo, non è che ci esaltino, anzi. E tuttavia non ci esimiamo dalle nostre responsabilità di narratori. Fine della precisazione.)

Ecco quel che accadde.

Ramarro svitò il tappo del carburante, si slacciò i jeans e, mollando un bacio all’orifizio del Mingnottone, ci infilò dentro il suo arnese.

Il pubblico non pagante ebbe un’univoca reazione: lo schifo più totale. Il disgusto pervase l’intera pianura sottoforma di reazioni varie, più o meno incontrollate e incontrollabili.

L’ateo da bar chiese finalmente al prete di confessarsi perché si sentiva in punto di morte, il parroco rifiutava perché voleva perdere i voti e condurre vita da drogato a

Baggio, Tano il meccanico si lanciò contro una mandria di nutrie sperando che lo facessero fuori, tre ragazzini giurarono di dar fuoco alla radura il giorno dopo, delle vecchine non si scossero più di tanto e bevvero il loro tè coi biscotti dicendo che in tempo di guerra si faceva ben peggio.

Mario e Tarocco, intanto, vendevano pop corn e patatine.

La più sgomenta, ovviamente, era Giulia, che non aveva più lacrime da versare. Concorrere con una donna quello sì, lo avrebbe pure potuto accettare, ma con una macchina…che razza mai di tradimento era quello?

Ghigo intanto non si era lasciato prendere dai sentimentalismi e aveva afferrato il suo collaudato ferro 9; non avrebbe risolto niente, ma almeno avrebbe dato sfogo alla sua violenza seccando un sociopatico che si trombava una macchina.

– Uargh!!!! – gridò accendendo il faro della Kawasaki e illuminando a tutto spiano radura, Ramarro e Mignottone. Tutti complici dello stesso delitto.

– Ma vacca boia, Ramarro! Tradisci mia sorella con un Suv!

Ramarro, forse perché colto in flagrante o forse perché era, comunque, al culmine, non ne ebbe più. Venne, e contemporaneamente svenne.

La storia pare essere finita qui, ma non è così. In quanto Ghigo, che pur se ne fregava se Ramarro era cosciente o meno, tanto lo avrebbe gragnuolato lo stesso col ferro 9, si vide fermare proprio da lei, Giulia.

Davanti a tutti, mostrando immenso coraggio ma soprattutto una dose di amore al limite dell’overdose, dichiarò che si sarebbe presa lei cura del tamarro di periferia, insegnandogli ad amare. Anche gli umani, sì, non solo il suo Mignottone.

I clienti del bar fecero spallucce e le dissero in coro: – Se sei contenta tu, o bella Giulia!

Detto questo caricò il suo uomo sul Suv, accese il motore e lo portò via, mentre il popolino consumava gli ultimi snack e Ghigo, per reprimere la sua sete di vendetta, si fece abbordare da Chiara La Puzzona, cozza del paese a cui doveva ancora essere sbollata la verginità.

Due settimane dopo tutto sembrava rientrato nella normalità: Ramarro e Giulia comparivano al bar più sorridenti e felici che mai. Lui si raccoglieva coi maschiacci a parlar di calcio, lei non si negava a nessuno, mostrandosi sempre disponibile; di tanto in tanto i loro sguardi si incrociavano, e un dardo infuocato di complicità attraversava il bar facendo terra bruciata tutt’attorno.

Ad un occhio esterno non poteva sembrare altro che questo: Giulia, come Arianna con Teseo, aveva guidato Ramarro lungo la via che lo avrebbe liberato dal giogo labirintico della sua perversa passione. Solo che in questo caso non c’erano minotauri e Minossi incazzati, ma motori, radiatori e cerchioni. E tutto questo in virtù della forza dell’amore.

Ma noi, che siamo pur sempre onniscienti, sappiamo che non è così, e vi sveliamo la verità, sempre per quella beghina del patto implicito ecc. ecc.

Nonostante difatti Giulia avesse tentato in tutti i modi di spiegare a Ramarro che in quel buco ci si doveva far la benzina e non i bimbi, e viceversa per quanto riguardava l’organo sessuale femminile, lui, indomito, si ostinava a sparire in garage per compiere atti libidinosi col Mignottone.

L’amava questo era certo, e si era messo con lei era proprio perché, per la prima volta nella sua vita, ad attirare i suoi ormoni non erano state delle cinghie di trasmissione, ma una donna in carne e ossa. Tuttavia, proprio non ci riusciva a lasciare il Mignottone.

Così anche Giulia alla fine si arrese. Tanto era l’amore che lo guidava verso Ramarro che, piuttosto che vederlo andare via, accondiscese ai suoi desideri. Fu così che una sera nel garage di Ramarro si completò probabilmente il primo rapporto orgiastico fra un uomo, una donna e un suv.

Lui rimase particolarmente soddisfatto, la macchina più di tanto non si graffiò e lei, nonostante alcuni schizzi di olio motore, aveva finalmente goduto, oltre ad aver raggiunto i 100 all’ ora.

Da quel giorno in poi i tre vissero all’ombra di quell’inconsueto segreto. Di certo felici e altrettanto contenti. Forse.