Andrea Anforini – La vita di una farfalla

Sipario. La potenza e il calore dell’occhio di bue, che mi ha inseguito finora, di colpo si spegne e i miei occhi a fatica cercano di abituarsi all’oscurità più tetra del dopo spettacolo. Sono finiti gli applausi così come i sorrisi forzati verso una platea gaudente e paga di ciò che ha appena visto, che dico, vissuto. Una giovane addetta del teatro mi porge un mazzo di fiori, dono fugace di un ignoto ammiratore. Smetto il mio sorriso di scena e mi dirigo verso il mio camerino. Sono la stella della serata, l’inavvicinabile diva, nata per vivere nella felicità altrui. Appoggio il mazzo di fiori su una sedia e, nell’aria viziata del dietro le quinte, queste rose mi sembrano già avvizzite. Come me. Una volta l’atmosfera della fine dello spettacolo era ciò che mi elettrizzava di più nel mio lavoro. Era il tempo delle possibilità, dei sorrisi, delle cene in locali improbabili che aspettavano l’arrivo di tutto lo staff e rimanevano aperti per noi fino a tarda notte. Qui si scherzava, si commentava lo spettacolo appena svolto, si pronosticava l’articolo che il critico avrebbe pubblicato il giorno seguente sul giornale, tutto questo per stemperare quella tensione e quell’ansia accumulata e della quale eravamo sovraccarichi. È un tempo lontano ed ero solo una delle tante ballerine della mia compagnia. Volevo imparare, succhiavo energia vitale ed esperienza posticcia da chi mi contornava. Ogni sera era una nuova avventura che si concludeva con le luci del primo mattino e il canto di qualche passerotto che non disdegnava estemporanee visite cittadine. E il dolore, sì il dolore, alla fine della tournée, quando tutto finiva e rimaneva sospeso per mesi. Mesi in cui raccontavo le mie avventure alle amiche di una volta quelle amiche che adesso non ho più. Mi ricordo le loro facce, i loro sguardi sorpresi e incuriositi, come assetati dell’essenza misteriosa che emanava ogni mia parola, ogni mio racconto, ogni mia conquista amorosa di una notte. La vita traboccava dal mio aspetto giovanile sempre pronto alla sorpresa e si irradiava subitanea a chiunque mi stesse intorno. Il mondo non era ancora mio, ma già sentivo che mi apparteneva, ero un vulcano che ribolliva e borbottava, una minima scossa mi avrebbe fatto esplodere e avrebbe riversato la mia esuberanza su tutto e su tutti, credevo. E ciò accadde. Franca Bentivoglio, la nostra prima ballerina inciampò rovinosamente a un mese dalla prima della Scala, caviglia steccata e niente tournée. Quell’anno avremmo messo in scena il Lago dei cigni. Inspiegabilmente, ma poi non troppo, fu chiesto a me di sostituirla. Fu un mese radioso e tremendo al tempo stesso. Mi era toccata una responsabilità inimmaginabile, ma ero giovanissima e avevo le capacità per svolgere quel ruolo, non solo, avevo anche la faccia tosta che ci voleva per sostituire la Bentivoglio. L’odiata Bentivoglio. Era la ballerina più brava che mai avessi visto, un autentico colibrì del palcoscenico, si muoveva che sembrava quasi non toccare le assi di legno sotto di lei. Nonostante non fosse più giovanissima, aveva una flessuosità corporea da fare invidia a un neonato e due spalle signorili di una delicatezza divina. Un oggetto da ammirare nel suo funzionamento, così come nelle sue pose. Un oggetto appunto e nient’altro. Finito il suo spettacolo – perché in fondo era lei il vero spettacolo, quello per cui la gente pagava fior di quattrini – si chiudeva in una solitudine altezzosa e trasognata. Non partecipava mai ai dopo-spettacolo, era l’unica ad avere un camerino esclusivo in cui potevano entrare, ma che dico, al massimo avvicinarsi, solo pochi selezionati addetti ai lavori. Non parlava con nessuno del corpo di ballo, se non durante le prove, e guardava tutti dall’alto in basso. Una volta che le chiesi come le ero sembrata, mi squadrò coi suoi occhi di ghiaccio dicendomi: «Troppo ampi i movimenti di quelle braccia, non siamo mica al circo!». Mi dissi che non sarei mai diventata come lei, ma che se un giorno avessi avuto un ruolo da prima ballerina avrei avuto una buona parola per tutti. Il mio corpo di ballo mi avrebbe amato come si ama una madre. Ma poi arrivò il giorno della prima della Scala, la mia prima grande esibizione nel tempio dei teatri. Buttata in mezzo, quasi per caso, con tutti gli occhi addosso e con il pesante confronto con la regina, momentaneamente azzoppata. Se sono qui adesso è chiaro che la mia prima importante esibizione fu un successo senza pari, anche la critica, di solito inclemente con le novizie, si sprecò in titoli altisonanti “La nuova diva del ballo!”, “Giulia Gennari: un cigno che ha spiccato il volo!” e commenti altrettanto appassionati. Presto capii quello che comporta il successo e la notorietà. Ero ancora la ragazza ingenua e piena di voglia di vivere, di condividere e di amare. Il regista di quella tournée si era preso una sbandata per me, fu per questo che si prese il rischio di liquidare la prima ballerina di riserva, assegnandomi lo scettro, un rischio che metteva a repentaglio la sua carriera già ben avviata, ma al quale non seppe resistere. La nostra storia fu un fuoco violento che bruciò col vigore e la velocità di una sterpaglia. Le altre ragazze del corpo di ballo, che erano state più compagne che colleghe, cominciarono ad evitarmi e a pronunciare mezze parole, invidiose che mi fossi presa in men che non si dica il ruolo di prima ballerina e il cuore dell’affascinante regista. Così anch’io cominciai a non frequentare più i miei compagni nel dopo-spettacolo e, incredibilmente, non mi accorsi di aver smarrito per sempre il mio sorriso. Un sorriso che ormai riservavo al palcoscenico e alle interviste dei giornalisti. Anch’io ebbi il mio camerino esclusivo, il camerino in cui si cambiano le star, il camerino in cui adesso mi sto togliendo l’ennesimo strato di trucco e sudore, a far riemergere le rughe di tanta vita trascorsa a duecento all’ora. Il vulcano che ero è esploso bruciando però tutto ciò che stava intorno. Un altro dischetto struccante riporta in vita le mie occhiaie e la stanchezza del passato spettacolo si manifesta una volta che mi sciolgo i capelli, tirati indietro all’inverosimile e ora sfibrati e spenti. Mentre finisco di svestirmi mi rendo conto fin dove mi ha portato questa variopinta notorietà e lo noto nella solitudine di questo mio camerino, che assomiglia a un postribolo da bisca clandestina. Prendo le sigarette buttate sulla poltrona alle mie spalle e ne accendo una con lo zippo regalatomi non so più da quale mio ex amante. Il fumo invade denso e asprigno i miei polmoni ancora un po’ in affanno dopo il sublime sforzo. Di fronte allo specchio c’è l’immancabile bottiglia di vodka, fatta arrivare apposta dalla Russia. Ormai non la devo più neanche chiedere, tutti sanno cosa ci deve essere qui dentro alla fine dello spettacolo, se non vogliono provare la mia furia. Sanno anche che per un’ora circa non devo essere disturbata per nessuna ragione. Stavolta però una cosa me la sono portata io. Mi avvicino alla giacca appesa all’attaccapanni e estraggo la scatolina con i miei antidepressivi. Per anni ho avuto intorno a me solo personaggi falsi e artefatti, come il sorriso che una brava ballerina deve sempre mantenere sul volto anche nel momento di sforzo più titanico. Ho avuto amanti di tutte le specie, gentili, violenti, sfuggenti, asfissianti, approfittatori, stupidi, intelligenti, furbi, bugiardi, appassionati e potrei continuare. Ho avuto te, mia figlia, la mia unica figlia, in gran segreto, quando stavo con l’affascinante, e sposato, regista. Non volevo assolutamente abortire, non lo trovavo giusto, ma, quando mi disse che dovevo scegliere fra la vita da madre o la mia carriera che era appena sbocciata, decisi di darti in affidamento appena nata. Perdonami bambina mia, ero troppo giovane e stupida per capire che cosa stavo facendo. Ho fatto milioni di errori nella mia vita e quello di lasciarti è stato sicuramente il più grande. Non so dove sei adesso, perché scelsi di non sapere a quale famiglia saresti stata affidata, sicuramente una famiglia che ti voleva, che spero ti abbia amato come non avrei saputo fare io. Perdonami figlia cara se – nel giorno del mio ultimo spettacolo, nel giorno in cui, all’età di soli 37 anni, si chiude la carriera di una delle più grandi ballerine – ho deciso di prendermi tutte queste pillole e di bagnarle con abbondante vodka. Perdonami se ho scelto di rispettare fino in fondo il soprannome che mi hanno dato i critici. Ma del resto la vita della “farfalla” si accende e si spegne con le luci della ribalta.

Tua Giulia

Andrea Anforini

(COMMENTO AD INIZIO RACCONTO)

Inseguire sogni a volte è ossessione, specie quando ci sembrano così allettanti e vicini. Perdiamo il contatto con la realtà, la lasciamo scivolare addosso quasi non valesse la pena. Ma la fine chiede il conto, come sempre. Con noi stessi, il nostro passato, con il sogno stesso. Ne valeva la pena?