Miha Mazzini – “Regalo di Natale”

Regalo di Natale

Racconto breve

Le impronte puntavano verso il fienile. I fiocchi di neve, cadendo piano e adagiandosi sul reticolo impresso dalle suole nel terreno melmoso, lo uniformavano con lo sfondo. Il ragazzino si avvicinò e si accoccolò, appoggiandosi sulle cosce con i gomiti, per fissare un’orma, troppo piccola per il piede di suo padre, troppo grande per quello di sua madre. Qualcuno era scivolato su una delle lastre di cemento ghiacciate che, con un percorso a rombi, portavano dalla casa al fienile, aveva sgretolato con la scarpa lo strato superiore congelato ed era affondato nel fango.

Il ragazzino si raddrizzò: lentamente, guardandosi intorno. Dalla casa illuminata, attraverso il velo dei fiocchi di neve filtrava chiarore assieme al suono di musica folk. «Che divertimento! Come stiamo bene» sbraitava il presentatore televisivo, e imprimeva nuovo slancio alla fisarmonica e incoraggiava un tipo già rauco a lanciare altri jodel, altri gorgheggi.

La festosità del programma televisivo domenicale si stemperava nel biancore ad appena pochi metri dalla finestra, invischiandosi tra i fiocchi di neve che roteavano come schegge di un qualcosa di enorme, qualcosa che prima o poi si sarebbe ricomposto senza che nessuno potesse impedire che ciò accadesse. Nevicava fitto fitto, sembrava che il mondo stesse per cadere in letargo una volta per tutte.

Degli alberi dietro al fienile era rimasto solo un oscuro sentore e tra breve sarebbe stato impossibile distinguere tra il prato e la strada che svoltava brusca oltre la casa.

Un fiocco di neve si era posato sul naso del ragazzino, gli si scioglieva tra le labbra vogliose. Aveva alzato la testa e lasciava che vi cadessero dentro frammenti di cielo. Le mani le teneva in tasca, spingendo le dita in avanti il più possibile, tra le cosce, al caldo.

Ci era voluto andare a tutti i costi nel fienile, malgrado il freddo e la neve. Alla mamma aveva detto dove stava andando e lei si era limitata a scuotere la testa. Nemmeno lui lo capiva il perché, ma ogni tanti giorni, mentre faceva i compiti a casa oppure nel bel mezzo di visite rumorose, cominciava a prudergli il culo, come diceva suo padre, e doveva correre fino alla costruzione in legno, un tempo parte di una grande fattoria di cui nient’altro era restato e di cui tuttavia il fienile- ancora zeppo di fieno per lo più ammuffito e qua e là anche marcio, di carri agricoli rotti e di inutili attrezzi- aspettava la rinascita. Loro ormai di campi e di prati non ne avevano più, la mamma lavorava al Comune e il babbo in fabbrica,…

Il babbo non lavorava più in fabbrica.

Il ragazzino sbirciò di squincio verso la casa ma fu subito ripreso da una nuova ondata di inquietudine che gli fece percorrere in fretta il sentiero. Aveva dimenticato intanto le impronte sconosciute, già quasi del tutto riconquistate dalla neve.

Si fermò sulla soglia. I fiocchi di neve lo avevano preceduto e gli avevano tappezzato il cammino. L’edificio puzzava di vecchio e di marcio, di polvere e di letame, e dopo tutti quegli anni non era più possibile distinguere tra l’uno e l’altro afrore.

Aspettò finché le nuvolette del suo fiato non lo ebbero raggiunto e si furono ridotte di volume. Con la palma della mano si ripulì il volto dai fiocchi di neve disciolti. La pelle gli bruciava dal freddo.

Il fienile era un grumo di oscurità e l’inverno la sua stagione. D’estate lo assalivano i raggi che il sole conficcava attraverso le fessure, altre volte era suo padre, con la sua più potente torcia elettrica, a cercare qualche oggetto, imprecando, d’inverno invece lo lasciavano in pace e poteva espandere il suo ventre oscuro tanto refrattario alla luce.

Quando il suo ansimare si fu calmato e non copriva più ogni altro rumore, il ragazzino avanzò con lentezza, fino al confine dell’ombra, si fermò ancora una volta e poi, trascinando i piedi, fece ancora qualche passo avanti. Gli occhi avevano rinunciato a servirlo, allungò entrambe le mani e procedette a tentoni. Con un fianco urtò una botte che emise un raschio stridulo come uno che si fosse–impercettibilmente- schiarita la gola.

Guardò dietro, sembrava che sopra all’ingresso fosse stato gettato un lenzuolo che scivolava con lentezza da lumaca. Si premette la palma della mano destra sul petto per soffocare i battiti del cuore. Si sentiva come disciolto nell’ombra, un essere senza corpo di cui resta solo lo sguardo con cui osservare il mondo, ma che non può individuare un ragazzino che non esiste più. Dentro di lui cominciò a tendersi una corda che gli trasmise un’onda di pace, tensione e serenità allo stesso tempo. Una sensazione che non era mai durata più di un minuto prima che lui si mettesse a correre a più non posso verso casa, verso se stesso.

Non sapeva perché avesse tanto bisogno di quel minuto terribile e bello senza il quale non poteva resistere a lungo. Si rendeva conto, però, che ad esso era collegato il suo primo grande segreto: quando era andato per cinque giorni in gita scolastica, la mamma si era preoccupata di quanto lui avrebbe sentito la mancanza dei genitori e della casa. E l’aveva sentita la loro mancanza, ma ciò che di più gli era mancato era stata la perdita di sé nel fienile e l’unico momento di orrore che aveva vissuto era stato quando, una volta, aveva dimenticato dove si trovava ed era corso fuori dal trambusto dell’ostello ed era dovuto rimanere solo con se stesso.

La tensione era cresciuta e il corpo aveva cominciato a condensarglisi attorno, pronto a catapultarlo allo scoperto.

Un’ asse gemette, c’era qualcuno dietro di lui.

«Perché sei così spaventato?» gli chiese la mamma, emergendo dal bagno- infatti lui era riuscito a fermarsi solo andando a sbattere contro il muro.

«Sta nevicando» rispose.

Lei esitò, forse era il caso di indagare oltre, poi però si avvide del pennello che teneva nella destra e della tinta che aveva già applicato alla ricrescita dei capelli, così borbottò qualcosa di indecifrabile e chiuse la porta. Lui non riusciva ad abituarsi alla novità dei capelli della mamma color giallo acceso e quando riprendeva a crescerle un’aureola color marrone l’osservava sempre speranzoso. La mamma però si chiudeva in bagno e la eliminava.

«Devo essere in ordine» gli rispondeva, quando lui le faceva delle domande, «tuo padre il suo lavoro l’ha perso, non devo perdere anch’io il mio.»

Tornò alla porta e la socchiuse. Al di là del fitto velo dei fiocchi di neve, c’è il fienile e lì qualcosa in attesa. Gli vennero in mente le scene che aveva visto nel soggiorno, i mostri dei film e la gente ferita e sanguinante dei notiziari televisivi. Da quando era stata chiusa la fabbrica, suo padre guardava la televisione per giornate intere, se lui gli si sedeva accanto, però, non lo mandava via.

La presenza di quel qualcosa gli mandò un brivido lungo la schiena, si dette una scrollata e, piano piano per non farsi sentire da quella cosa là, nel chiudere la porta girò due volte la chiave nella serratura.

«Maledetti cinesi!» esclamò suo padre e succhiò un sorsetto di birra dalla lattina, deponendola poi con cautela sul tavolinetto alla sua sinistra, senza per altro mai staccare gli occhi dallo schermo.

I soldati marciavano a fianco di un missile enorme, come se ne seguissero il funerale.

«Corea…» aveva decifrato il ragazzino prima che il sottotitolo scomparisse.

«In Giappone…» cominciò l’annunciatrice e si vedeva un treno molto simile a quel missile di poco prima.

«Ecco, di nuovo! Dappertutto, sono dappertutto!» protestò suo padre e fece come se volesse sputare, «Vadano a fare in culo!»

«Non imprecare davanti al bambino!» alzò la voce la mamma che era entrata in salotto con sulla testa la cuffia da bagno. Quella cuffia l’avevano presa alle terme, dove loro due erano andati un lungo fine settimana per festeggiare il decimo anniversario di matrimonio. Dopo, si era cominciato a parlare di esuberi e non si erano più arrischiati a permettersi lussi simili. Prima dell’estate la fabbrica era stata venduta, i proprietari stranieri si erano tenuti solo i brevetti- che cosa fossero il ragazzino non lo sapeva – mentre la produzione era stata trasferita in Cina.

«Al posto mio, in questo momento, lavorano i cinesi!» aveva commentato allora suo padre e si era seduto sul sofà, dal quale, da allora, si era alzato assai di rado. E quando si alzava, per lo più era per riportare in frigorifero la birra intiepidita e andarla a riprendere dopo mezz’ora scarsa. Alzandosi e sedendosi sospirava, camminando, invece, smadonnava.

Arrivata l’estate, la mamma non ce l’ha fatta più: «Bevitela fino in fondo questa birra una buona volta! Bevine due, bevine tre! Ubriacati per bene e poi andiamo avanti!»

Lui allora aveva cominciato a urlarle contro: «Ti sono di peso, eh? E’ questo che pensi? Ho il sussidio e ce l’avrò ancora per sei mesi, per questo bevo solo una lattina al giorno, una sola fottutissima lattina e anche questo mi rinfacci! Io risparmio per farlo durare, il sussidio, e tu me lo rinfacci!»

«Me ne sbatto della tua birra, io! Quello che mi dà fastidio è che non fai nulla. Nulla!»

Il ragazzino ebbe una fitta così forte che dovette premersi la pancia. Come fa la mamma a non capirlo, il babbo? Lui prima lavorava, ora al suo posto lavora qualcuno che si trova in Cina e a lui non resta altro che star seduto e aspettare. Fu attraversato da una tremenda consapevolezza: le parole possono far cilecca. Tu parli e gli altri non ti capiscono, e così, quando ti hanno fatto cilecca le parole, fai cilecca anche tu, fallisci come persona.

«Me la racconti una storia?» pregò il ragazzino e in mezzo alla frase lo assalì la tristezza, perché parlava così, senza sperarci davvero. Forse questo suo stato d’animo sconfortato raggiunse il padre che infatti rispose: rivolto alla cantante pop sullo schermo:

«Quale ti piacerebbe?»

Il ragazzino guardò il fucile attaccato alla rastrelliera, sul muro, tra due corna di cervo e rispose:

«Cappuccetto rosso.»

Sapeva di essere troppo grande per quella fiaba ma proprio da Cappuccetto rosso era scaturito il momento che più di ogni altro gli mancava da quando suo padre si era arenato sul sofà. Nella storia, tutti erano stati già divorati, quando passa di lì… Qui suo padre ogni volta smetteva di raccontare e alzava il sopracciglio destro, come a dire: chi?

«Il cacciatore!» esalava il ragazzino. «Sì, noi, i cacciatori!» sorrideva suo padre e in quel momento il ragazzino veniva sopraffatto da un senso di beatitudine. Era divenuto parte di un tutto, non solo di suo padre, ma di tutti i cacciatori, un gruppo cui nulla può andar storto, uomini capaci di condurre a lieto fine anche una storia piuttosto sgangherata e tristanzuola. Come gli era mancato quel momento di fiduciosa sicurezza!

«Ah!» esclamò suo padre,«Dannati rossi !»

Si inchiodò a guardare la pubblicità e non proferì più verbo.

E se quella cosa dal fienile venisse dentro casa e si portasse via i suoi genitori?

Non riusciva ad addormentarsi. Tendeva l’orecchio alla notte e alla fine il suo cuore già marciava al ritmo dei soldati che aveva visti nei notiziari. Non distingueva se fosse una sua immaginazione o già un sogno il fatto di andare nel fienile con il fucile del babbo, salvando così loro due dal mostro. Pieno di gratitudine, suo padre si alza dal divano, mentre la mamma la smette di far la bionda e comincia a rientrare dal lavoro più presto. I proiettili però ce li aveva suo padre, sotto chiave nell’armadio, e il nascondiglio della chiave il ragazzino non lo conosceva.

Stava facendo i compiti di casa, quando il babbo e la mamma cominciarono a litigare di nuovo: «Da sola, ho dovuto spalar la neve io, da sola!» E poi avanti con il refrain degli amici di lui, tutti in cerca di un altro lavoro. Ma non lo trovano, ribatteva lui, e la mamma elencava alcuni nomi, quelli che ce l’avevano fatta e aggiungeva che lui non ci aveva nemmeno provato. Ma non serve a nulla, tutto è stato trasferito in Cina. E’ finita. Poteva riciclarsi come idraulico, insisteva lei, di quelli si ha sempre bisogno. E’ un metalmeccanico, lui, ha il suo orgoglio, non cederà. La mamma lo accusava di essere un codardo, lui accusava lei di comportarsi da mignotta.

Il ragazzino già era partito a corsa e soltanto nel buio del fienile si ricordò del mostro.

Voleva scappar via ma non riusciva a rientrare nel suo corpo. Guardava le proprie impronte, che avevano tracciato un viottolo sul manto di neve fresca e sapeva che doveva andarsene, ma le due voci, storpiate, furiose, si inseguivano al di sopra della neve che aveva avviluppato i prati, ammantato gli alberi e si stava lentamente ghiacciando.

Sentì un respiro. Un suono grattante, come lo sfregamento di tanti piccoli oggetti trascinati attraverso una spazzola dura.

Fut- fut- fut

Fut-fut-fut

Pliz-fut-fut-fut

Cercò con cautela di allontanarsi ma urtò con il dorso la botte, la evitò, e poi il suo corpo riuscì a raccogliere abbastanza energia per portarlo via di lì.

Pliz-fut-fut-fut

C’era un che di lamentoso e di esausto in quel suono, si fermò sulla porta e al buio aspettò. Per la strada passò una macchina e mentre stava superando la curva, i fari gli sfolgorarono negli occhi, al ragazzino per un attimo sembrò di trovarsi davanti alla televisione ma non sapeva perché, l’oscurità era tornata troppo in fretta.

Attese.

Pliz-fut-fut-fut

Dei passi, strascicati, si facevano pian piano più vicini. All’odore, che il ragazzino conosceva così bene, si mescolava la puzza di un corpo non lavato da un bel po’.

L’oscurità si interruppe, davanti al ragazzino c’era un uomo.

«Food, please, food,« ripeteva .

Il ragazzino non riusciva a distogliere lo sguardo dai suoi occhi tristi, tagliati a mezza luna dalle palpebre. Gli sembrava che nuotassero su un volto di cera e l’uomo era scosso da un tremito, con i gomiti stretti sui fianchi. Portava una giacca a vento azzurra e jeans coperti di macchie di fango. Si era tirato fin sugli occhi il berretto di lana cui era caduto il pon pon.

Alzò lentamente la palma rivolta all’insù e poi cominciò a portarsela alla bocca con gesto ripetuto.

«Food, please, food.»

La mamma se n’era andata da qualche parte, il babbo stava guardando i notiziari. Il ragazzino tornò al fienile con pane e salsiccia.

L’auto della polizia entrò nel vialetto, il poliziotto scese e salutò la mamma agitando la mano:

«Buon giorno!»

Il sorriso gli morì sulle labbra quando si accorse che a spalare la neve erano solo lei e il ragazzino, così con la testa fece un cenno verso la casa:

«Sempre la stessa solfa?»

«Sempre la stessa» fece arrabbiatissima la mamma, armeggiando con la pala per conficcarla nel suolo. La superficie era congelata, dovevano sezionarla in tanti quadrati per poter raggiungere la neve.

Il poliziotto sospirò e con la palma della mano spazzò via la neve scivolata dal tetto della macchina. Sul vetro appannato del finestrino si strusciò un occhio peloso e il cane da pastore abbaiò. Le zanne graffiarono il vetro sporcandolo di saliva.

«Cuccia!» urlò il poliziotto senza effetto.

«Che cos’ ha?»

Il ragazzino aveva cominciato a voltarsi verso il fienile e si arrestò solo quando gli vennero in mente quegli occhi, già abbastanza tristi anche prima dell’arrivo del poliziotto.

«Questi cani» osservò il poliziotto, «Sono tanto stupidi quanto sono intelligenti»

«Un caffè?» propose la mamma.

«Mi sono fermato solo per un saluto, sono di pattuglia. Anche se con questo tempo non sarebbe nemmeno il caso. Ma da quando facciamo parte di Schengen, siamo davvero il primo paese in Europa, tutti devono passare di qui, dai nostri confini. Tutti quelli che ti vengono in mente, davvero, dagli afgani ai cinesi, tutti quei tipi buffi che prima li avevo visti solo alla televisione.»

«Niente caffè allora?»

«No, volevo solo verificare se stavi bene» disse, bilanciandosi su un piede e poi sull’altro, come se il suo corpo avesse voluto aggiungere ancora qualcosa. Il ragazzino lo fissava, il poliziotto lo notò, lo salutò, ripeté il saluto anche verso la mamma e si sedette in macchina.

Il cane intanto continuava ad abbaiare.

«Ho sentito tutto» disse suo padre e bevve un sorso di birra. Dalla lattina uscì un suono sordo, smorzato. «Ce l’ho tenuta troppo nel congelatore, cazzo, nemmeno la birra la so più raffreddare come si deve!» scosse la testa con voce stanca.

Il ragazzino non lo poteva più sopportare questo padre calmo, mezzo addormentato, che perfino adesso che stava imprecando dava l’impressione di essersi avvolto in una coperta a più strati, anche se trasparente.

«Ma davvero i cinesi arrivano anche da noi, papà?»

«Sì, è vero. Prima, è il lavoro che si è trasferito tutto da loro ma non gli è bastato e ora sono loro che vengono da noi.»

«Tanto ci penserà la polizia a dargli la caccia…»

«Con il cavolo che ci penserà. Meglio sarebbe che quel poliziotto desse la caccia a qualcos’altro, l’idiota.»

«E che cosa gli fanno, poi? Li mettono in prigione?»

«Ma li potrebbero anche fucilare, per quel che me ne importa. E perché ti interessa?»

Il ragazzino in risposta emise un suono inarticolato.

«Ma a dir la verità hai ragione di esser curioso. Tu devi imparare. Fai bene. Anche se è tutto inutile, ragazzo mio. Non potrai mai, tu, imparare tanto quanto ha già imparato qualche cinese. Unica soluzione è la ricchezza. Loro laggiù lavorano per un pugno di riso, ma chi è ricco qui da noi può assumerne quanti ne vuole e diventare ancora più ricco. Più sei ricco, più cinesi puoi avere. Noi tutte queste occasioni le abbiamo perse e ora siamo dei miserabili. Oh, io sì che ne ho bisogno di un cinese, io, e già da tanto tempo! Sarebbe tutto diverso. Sarei un signore, così invece non sono che un proletario.»

«LA VUOI PIANTARE DI PIANGERTI ADDOSSO!»

Quanta voce in corpo aveva la mamma! Il ragazzino non immaginava che ne avesse tanta. Prese la corsa verso il fienile, sotto sotto però era ansioso, preoccupato che l’insegnante, la mattina dopo, ancora una volta non sarebbe stata contenta del suo compito.

Si erano seduti in un angolo, a fianco di un’asse spezzata e la luce della luna inargentava la superficie di plastica della giacca a vento dello straniero. Aveva cominciato a parlare, sottovoce, però a sentirlo faceva l’effetto di uno che litighi e il ragazzino in un primo momento si irrigidì per la paura, poi però riconsiderò gli occhi che lo guardavano ancora più tristi, addensavano il buio attorno a sé. Dopo un lungo discorso, l’uomo cominciò a frugarsi dentro la giacca e per un bel po’ non si sentì altro che lo scorrere delle lampo. Alla fine girò la mano e la tenne sotto la luce. Il ragazzino si chinò in avanti e vide la foto di una donna con un vestito a fiorami e un lattante tra le braccia. Il cinese fece un cenno e il ragazzino ubbidì. Prese il foglio e se lo portò agli occhi. Lo sentiva tiepido, quasi caldo, tra le dita.

«Papà mi devi firmare qualcosa, per la scuola….»

«Dillo a tua madre…»

«Alla mamma…»

Lei gli mise un braccio attorno alle spalle e con tenerezza lo condusse in camera.

«Siedi» con il mento puntò verso il letto. Gli si sedette accanto, lo abbracciò e lo strinse a sé. Lui si lasciò andare e si mise a piangere, senza saper perché.

Dalla voce sapeva che stava piangendo anche lei.

«Piccolo, ti prego, resisti. Per nessuno di noi è facile. Andrà meglio, tra poco. Sennò…»

«Un altro compito del genere e i tuoi genitori dovranno venire a scuola!»

Il ragazzino si tappò le orecchie con le mani.

«NON NE POSSO PIU’!!!!»

«VAFFANCULO VAI, CORRI DAL TUO GANZO!»

«NON CE L’HO!!!!!……..PER ORA! Ma se una donna sposata e con il marito vivo e vegeto si deve spalare la neve da sola, il matrimonio è bello che andato.»

Improvvisamente aggiunse, con perfetta calma:

«La settimana prossima vado da mia madre. Se non sarà cambiato nulla al mio ritorno…»

«Vai a farti fottere.»

«Il bambino lo porto con me.»

«No.»

La voce di suo padre, nella paura, era diventata fragile.

«Lascialo qui. A lui ci posso pensare io. Almeno a lui.»

Il ragazzino non sapeva quando era arrivato alla porta e, per ascoltare meglio, l’aveva aperta.

«Bene» ribatté la mamma «lo chiamerò tutti i giorni. Colazione, merenda, cena e niente osservazioni dell’insegnante per via dei compiti a casa. Va bene?»

«Va bene» confermò il babbo, appena percettibilmente.

Alla televisione sparavano, la mamma andava qua e là in camera da letto e sbatacchiava i cassetti. Lui non riusciva a concentrarsi sui compiti di casa. Andò nella dispensa a prendersi un succo di frutta e su uno scaffale notò le scatole di riso e di maccheroni.

Il ragazzino appoggiò la torcia sul pavimento e in quel cono di luce sistemò il quaderno di scuola con il compito a casa e sopra una penna.

Al cinese la febbre era passata e sul volto gli era tornato un colore normale, roseo.

Il ragazzino mise una scatola di riso vicino al quaderno.

«Fammi il compito» intimò e poi, siccome l’ordine gli suonava incompleto, troppo vuoto verso la fine, aggiunse: «Per favore!»

L’uomo dapprima non aveva capito, poi aveva chinato la testa e aveva osservato a lungo le illustrazioni stampate sul libro. Il ragazzo, bisbligliando, gli aveva spiegato che doveva contare gli oggetti ma finché lo straniero si sforzava per afferrare il significato delle parole, non arrivava da nessuna parte. Quando invece si fu concentrato sui disegni, dopo un po’:«Ah!« esclamò e cominciò a contar le matite:

«One- two- three- four!»

Con la matita scrisse il numero 4 nella finestrella.

Fece un sorriso soddisfatto e anche il ragazzino sorrise. A gesti, lo straniero invitò il ragazzino a contare da solo le gomme.

Il giorno successivo, suo padre gli cucinò i maccheroni con un barattolo di salsa.

«A scuola, tutto bene? Sei stato bravo? L’insegnante è stata contenta del compito?»

«Mi ha lodato» disse il ragazzino, arrossendo, ma suo padre non lo notò perché si era già risistemato sul divano.

Ogni giorno, al ritorno da scuola, lo aspettava un panino con salame e formaggio, alle sette invece suo padre sospirando andava in cucina e gli cucinava spaghetti con un barattolo di salsa. Prima di andare a letto, la mamma chiamava il ragazzino e lo interrogava su tutto, sulla scuola e con ancora maggior precisione su come il babbo si comportava. Lui non aveva molto da dire.

Il mercoledì il ragazzino entrò in salotto e lanciò un sonoro gemito.

Il fucile era appoggiato al divano e un braccio di suo padre gli stava abbandonato sopra.

Con molta cautela e un po’ di paura, il ragazzino si avvicinò, senza poter staccare gli occhi dal corpo sul divano. Il televisore offriva sconti fantastici. Alzò un braccio, prese una mano (calda!) del padre e la scosse.

«Eh?» ciondolò la testa sullo schienale. Suo padre cominciava a emanare un odore simile a quello dello straniero nel fienile.

Dal salotto continuava a farsi sentire lo scatto del meccanismo di chiusura del fucile e ogni volta il ragazzino sobbalzava. Quando suo padre ebbe smesso di giocherellare con il fucile, al ragazzino il cuore gli batteva così forte che dovette correre in bagno e rimise tutta la cena.

A scuola, era tutto un chiacchierare di alberi di natale e di regali. Il ragazzino partecipava con qualche bugia, e sentiva che ogni parola gli sferrava una martellata dentro.

«Natale lo festeggiamo da mia madre. Domani vengo a prenderti.»

«No!»

«Perché no? Resti con il babbo?»

«Sì, per favore.»

«Guarda un po’!» disse suo padre e schiuse la mano. I due proiettili mandavano bagliori color giallo- ottone.

«Ma lo sai qual’è la mia più grande paura? Che un bel giorno questa pallottola la rigiro…»

La indicava con le dita.

«…guardo sotto…E ci trovo scritto made in China. Meglio crepare che provare una cosa del genere.»

Alla televisione i cartoni animati erano stati sostituiti dal presepe e due preti, uno in rosso e uno in nero, avevano parlato così a lungo che il ragazzino si era quasi addormentato. Suo padre aveva bevuto l’ultimo sorso, aveva spostato la lattina nella mano destra e l’aveva stretta sempre più forte, finché, scricchiolando, non aveva ceduto.

Con sguardo assente suo padre aveva ricominciato a caricar colpi nella canna del fucile, a far scattare il meccanismo di chiusura e a far saltare fuori i proiettili, ripetutamente, ripetutamente.

Nel ragazzino il disagio cresceva e gli schiacciava il corpo in una poltiglia pesta, smorta, appena capace di badare a se stessa e che doveva di continuo precipitarsi al cesso.

Il cinese gli restituì le stoviglie, con un inchino. Il ragazzino gli fece cenno che lo seguisse. Ci mise un bel po’ a persuaderlo con gesti e mimica.

«Papà, ho un regalo per te!»

«Che?»

«E’ Natale, un regalo.»

Suo padre sembrava galleggiare nello spazio. Movimenti lunghi, lenti, occhi incapaci di concentrazione, di messa a fuoco.

«Ma non ce n’era bisogno.» ribatté.

«Vieni, andiamo a guardare!»

«Dov’è?»

«In camera.»

«Nella stanza da letto? Ma che cos’è?»

«Qualcosa che tu desideri. Che ti serve!»

«Oh, per favore, no, sono stanco.»

«Ti prego! Ti prego!»

«No.»

«Papà…ti prego, è un cinese, non è nient’altro che il TUO cinese! Tutto andrà bene, di nuovo. La mamma tornerà e potrete andare alle terme, perché ora tu hai il tuo cinese!»

«Cosa?»

Si chinò in avanti a guardò a lungo il figlio.

«Mi stai prendendo per il culo?»

«Papà ti prego, vieni con me!»

Si alzò e sospirò. Si avviò dietro al figlio, attraversarono lenti lenti il corridoio e si fermarono davanti alla porta di fronte.

«Il cinese è qui?»

«Sì.»

Scosse la testa e girò la maniglia. Il ragazzino si sentiva pieno di bollicine che volevano traboccare.

Ma si voltò verso il fucile appoggiato al divano e si ricordò di tutte le minacce e le imprecazioni di suo padre. Le bollicine scoppiarono e ne colò paura. E se avesse ucciso il cinese, suo padre? E di nuovo tutto sarebbe stato lo stesso, non sarebbe migliorato nulla, mai.

Il padre aprì la porta, il figlio non staccava gli occhi dall’arma. Afferrò il bordo della tuta del padre e sentì che gli si allungava tra le mani.

Suo padre si fermò di scatto, fece un passo indietro e spinse il ragazzino nel corridoio. Chiuse la porta dietro di sé e si sedette per terra.

Il ragazzino non sapeva spiegarsi l’espressione sul volto del padre. Le labbra sembravano la crepa in un’arancia appena spiaccicata per terra.

«Quel cinese, là dentro, è davvero per me?»

«Sì.»

Suo padre annuì.

«Ne ho bisogno, eh?»

«Sì. Vorrei tanto che tutto tornasse a posto.»

«E tu pensi che lavorerà?»

«Lavorerà. A me, mi faceva i compiti di casa. Devi solo dargli da mangiare. La salsiccia è il suo cibo preferito.»

Le labbra di suo padre si distesero in un sorriso.

«Piccolo, questo è il dono più bello. Grazie. Alle volte il mondo si fa buio, ma quando si riceve un dono del genere, si capisce che si trattava solo di una nuvola. E le nuvole vanno e vengono.»

Con le dita rassettò al ragazzino i capelli che gli cadevano sulla fronte.

«Secondo me devo trattarlo con durezza, non è vero? Perché lavori sul serio?»

«Ti prego, papà, non troppo. E’ un cinese molto simpatico…»

Suo padre si alzò e si tirò su i pantaloni della tuta.

«Tu resta fuori» ordinò e aprì la porta.

«Che cosa c’è adesso, che hai, tu, mio cinese personale, eh?» urlò il padre e il ragazzino dette un’occhiata spaventata al fucile.

«Alzati, lavora! Basta con questo star seduti a non far nulla! Sei un cinese sì o no? Ce le hai le palle oppure no? Andiamo, marsch, datti una mossa! Sei troppo giovane per star seduto tutto il tempo!»

«Vieni, piccolo», lo chiamò il padre, «il cinese lavorerà.»

Il ragazzino entrò nella camera e stupito si guardò attorno: «Ma dov’è il cinese?»

«Già, dov’è che lo avevi lasciato tu?» fu la risposta del padre.

«Vicino al letto.»

«Ma non lo vedi? E’ancora qui, però non sta più seduto, aspetta i miei ordini. Perché è mio, non è vero?»

Sul viso del bambino soffiò una folata di aria fredda. Guardò verso la finestra, appena socchiusa.

«Avanti, cinese» diceva intanto suo padre, «prima di tutto mettiamo in ordine questo porcile di soggiorno. Poi andremo a farci la doccia e a raderci.»

Il padre tornò nel corridoio, il ragazzino si diresse svelto verso la finestra.

Si arrampicò sul radiatore, pur sapendo che era proibito, e nel lucore notturno scorse le impronte che si dirigevano verso la strada, la neve ci fioccava sopra, entro domattina le avrebbe completamente coperte.

Miha Mazzini

(Traduzione di Patriza Raveggi)

Patrizia Raveggi – Commento a “Regalo di Natale”