Frank Iodice - Félicia Lignon: Tradurre un romanzo è un lavoro di ascolto

Frank Iodice – Félicia Lignon: Tradurre un romanzo è un lavoro di ascolto

Portava i capelli corti, un taglio da uomo che si faceva fare espressamente da un barbiere del Panier, rue de l’Evêché, accanto al forno della grossa signora marocchina, dove da bambina rubava le navettes all’anice, Marsiglia, città di gente libera e di capelli liberi, fino all’età di vent’anni non li aveva lasciati crescere.

Come tradurre la parola navettes senza spiegare che sono dei biscotti? Perché nel testo in italiano ho deciso di lasciarla in francese? E quanto influisce nella comprensione e nella fluidità generale del romanzo?

Per tradurre un testo letterario esistono diversi approcci. Si può tentare di “addomesticare” la lingua di origine o rimanerle fedele rispettando il più possibile la forma e lo stile. Si possono usare note a piè di pagina per non appesantire il testo con spiegazioni o corsivi, o si può lasciare libertà di interpretazione e non tradurre termini particolari.

Per esempio, come rendere in inglese la frase

Rosario emise un sospiro simile a quegli spaventi provocati da improvvisi colpi di vento che fanno sbattere una porta. La bombilla di alpaca con cui stava succhiando il mate sbatté contro la cornetta, poi un attimo di silenzio.

senza spiegare cosa sono la bombilla e il mate? Un lettore con un background latino o europeo può intuire dal contesto che si tratta di una cannuccia e di una bevanda argentina, ma un lettore anglofono che non parla spagnolo e non è mai stato in Sud America, avrà bisogno di un aiuto? Senza contare che mate in inglese può significare anche amico.

Una scelta è rispettare sia lo stile del testo sia l’intelligenza del lettore, che capirà dal contesto il significato di parole straniere (nello stesso paragrafo si leggerà che la protagonista è argentina e che beve il mate caldo tutti i giorni). Quando ci siamo trovati davanti a questo dubbio, ho suggerito per la traduzione di Un perfetto idiota(edizioni Il Foglio 2017), di non dare spiegazioni come bombilla spacial straw e mate tea, ma di scrivere queste due parole in corsivo con la lettera maiuscola, dando loro un’identità quasi umana (giacché per la signorina Rosario Rossi il mate è davvero un buon amico).

Non è facile ritrovare una corrispondenza del bagaglio di informazioni che una lingua porta con sé, soprattutto se si parte da una lingua romanza (koinè di culture millenarie). L’inglese è invece una lingua moderna, sintetica e funzionale. A volte il traduttore tende a far sentire la sua voce, si appropria del testo come se lo avesse scritto lui, ne diventa geloso, si arroga dei diritti che non ha. Ma la propria voce, quando si traduce un romanzo, non c’entra nulla.

Altre volte succede il contrario: è l’autore ad appropriarsi del testo tradotto, modificandolo senza chiedere il permesso, soprattutto quando conosce la lingua di arrivo. Milan Kundera per esempio non era soddisfatto del lavoro del suo traduttore inglese, e lo ha cambiato. Sembrerebbe comprensibile, ma non dal punto di vista di chi traduce (ed è spesso sottopagato). Kundera ha deciso di auto tradursi usando le bozze del suo traduttore. Ne discute molto bene Lawrence Venuti, nel suo The Scandals of Translation (Routledge 1998), in cui afferma che “la traduzione è una pratica culturale che ci unisce e ci separa”.

Ogni parola è un insieme di significanti e significati. Questi ultimi possono essere molteplici, celano emisferi sensoriali, campi semantici, sfumature infinite. Scelte. Quindi non è la singola parola a essere tradotta ma un insieme di simboli che si porta dietro. (Ecco la ragione per cui le macchine non potranno mai sostituire il lavoro dell’uomo).

La bravura di un traduttore si vede quando entra in sintonia con il testo e (se è vivo) con il suo autore. Allo stesso tempo, chi traduce deve avere la capacità di rimanere in disparte mentre lascia riemergere quella voce che gli è sembrata unica nella lingua di origine. Ma per riuscirci dev’essere scrittore a sua volta. Il mio amico e collega Stéphan Lambadaris, traduttore dall’inglese per la casa editrice Les Moutons électriques, dice a tal proposito che “il traduttore è uno scrittore senza idee”.

L’odore di salsa

Si scrive per mostrare immagini, sembra paradossale dirlo, ma a volte le parole in quanto tali non contano. Perché la stessa immagine si può ottenere con parole diverse, dipende dalla lingua e soprattutto dal contesto.

Per esempio, come tradurre in francese la frase

L’appartamentino accanto al suo è molto piccolo, una sola stanza, un terrazzo su cui non c’è mai neanche una sedia, mai l’odore di salsa o altri segni di vita.

rendendo la stessa immagine e lo stesso universo interiore? Per un lettore italiano la salsa è associata all’idea del sugo al pomodoro, non di certo alla maionese. Rappresenta la famiglia, ti fa immaginare la pasta pronta sulla tavola. Mentre per un francese vuol dire odore di salsa e basta.

Come si ricrea, dunque, la stessa atmosfera quando si descrive l’odore che arriva dal balconcino dei vicini e fa sentire al protagonista la mancanza della sua famiglia? Se un traduttore riesce a far provare al lettore la stessa sensazione che ha provato il lettore del testo di origine, avrà fatto bene il suo lavoro. Le immagini vanno ricreate, non spiegate.

“Tradurre un autore che ammiri tantissimo, di cui hai assaporato i libri come un vino dolce che non puoi smettere di bere e aver ritrovato, come lettrice, un libro che ti va dritto al cuore, non è solo un immenso onore o un privilegio, ma un regalo che la vita ti offre ben poche volte”.

Queste sono le parole di Félicia Lignon. Félicia sta traducendo in francese il mio romanzo I disinnamorati. Le sue riflessioni sulla difficile quanto appassionante attività del traduttore mi hanno fatto riflettere molto e apprezzare con un occhio diverso il mio lavoro mentre diventa il lavoro di qualcun altro e ci unisce in questa nostra piccola missione. Forse possono far riflettere anche altri, che stanno vivendo la stessa esperienza. E per questo le ripropongo.

I disinnamorati è una storia ambientata in una Nizza noir degli Anni ’80, l’atmosfera è piovosa, invernale. I personaggi si aggirano tra rue Gambetta e il Commissariato di Dubouchage. Indagano su tre vecchie cartoline arrivate con trent’anni di ritardo, che li porteranno nelle Gorges du Verdon e in Corsica, e provano invano a vivere una relazione felice malgrado la loro incapacità di amare. Antonino Bellofiore inizia in queste pagine a prendere la forma di quell’omone grosso e goffo che ritroveremo ne Gli appunti necessari. Quando ho scritto questo romanzo, l’ho fatto con la chiara intenzione di indagare le ragioni che lo hanno reso l’uomo che è, e mi sono avventurato nella sua giovinezza, scoprendo quello che poi vorrei far scoprire al lettore.

Tradurre un romanzo è ben diverso da tradurre un testo qualsiasi – continua Félicia, – è innanzitutto un lavoro di lettrice e di archeologa in qualche modo: da qualche traccia scritta, dal modo di scrivere di un autore, cerchi di far rinascere un mondo estraneo in un’altra lingua, in un altro modo di pensare e di esprimersi. È un lavoro di ascolto, perché si deve saper tendere l’orecchio per sentire la voce dell’autore, saperla rispettare, restituirla fedelmente e non cercare mai di sostituirla con la tua. È un dialogo infine tra due lingue diverse, tra due culture diverse e tra due persone che riescono a unirsi per parlare una sola lingua e creare una forma di universalità”.

Georges Simenon diceva che le storie sono sotto casa tua, non c’è bisogno di andarle a cercare in capo al mondo. I miei libri sono ambientati quasi tutti nel sud della Francia, nella città in cui vivo, ne sono diventati la cronaca, anno dopo anno, dipingendola e mettendola in mutande. La lingua dei protagonisti non è l’italiano. Quindi ogni volta che dalla realtà cui attingo creo il romanzo sto già facendo una prima traduzione mentale.

Anche quando scrivo in italiano, lascio molti termini in francese, inseriti nel contesto in maniera naturale, come i nomi, le strade, Monsieur, Madame, la Gare, la Prom, i flic, la boulangerie, la Rue. È la maniera in cui si esprimono gli italiani che vivono all’estero da molti anni e per me la più spontanea. Se il testo non ha un tono spontaneo diventa un ottimo libretto di istruzioni per scrivere un romanzo, ma non un romanzo. Mi capita anche di tradurre meccanicamente espressioni francesi conservando il gergo dei personaggi da una lingua all’altra. Quando parli diverse lingue, intercambiandole senza rendertene conto, anche la tua scrittura cambia, si arricchisce di termini nuovi, di strutture diverse dal linguaggio idiomatico italiano, diventando senza volerlo più originale. Scrivere in diverse lingue inoltre ti arricchisce non solo linguisticamente, ma anche culturalmente: ti dà la fantasia lessicale e semantica necessaria per creare romanzi.

Leggere il testo tradotto da Félicia mi ha dato l’impressione che ogni cosa stia ritrovando il suo posto, nel mondo dei libri e in quello reale. È come se questi testi vivessero in una specie di limbo linguistico dal quale lei li sta tirando fuori. Si tratta di ritrovare il proprio posto nel mondo, quindi, ancora una volta.

I piedi di elefante

“Tradurre è un po’ come regalare la propria creatività ad un autore – conclude Félicia Lignon –. Rappresenta quindi una sfida per il traduttore. Quando si traduce un documento ufficiale o un testo tecnico, la difficoltà sta nel riuscire a trovare il termine giuridicamente o tecnicamente appropriato per quella determinata situazione. Ma quando si traduce un testo letterario, ecco che dobbiamo mettere anche in gioco la nostra creatività. Dimostrare di saper leggere e ascoltare, ma anche scrivere.

Come diceva Colette Laplace, la sfida è di « savoir si sa propre créativité langagière est suffisante pour permettre de produire un texte qui sera équivalent à l’original dans toutes ses fonctions de désignation et d’évocation ». Si tratta per il traduttore non solo di convertire quello che ha scritto l’autore in un’altra lingua ma di farlo con stile. Il traduttore può essere preso dalla stessa febbre che ha uno scrittore quando si interroga sulla qualità letteraria di quello che ha scritto.

Quando ho cominciato questo progetto con Frank, mi è subito venuto il panico: sarò all’altezza? Sarò capace di far rivivere il suo testo con la stessa ricchezza linguistica, con la stessa vivacità? Cosa penserà quando leggerà la mia traduzione? Gli piacerà? È angosciante sapere che la prima persona a chi fai leggere il tuo lavoro non è un lettore qualsiasi, ma un lettore non solo esigente, un professionista, l’autore stesso!

Per essere al livello della sua impresa, il traduttore deve cercare di restituire lo stile dell’autore, di riprodurre il suo ritmo, la sua musicalità con altre parole, con suoni estranei, e deve trovare una via di mezzo tra fedeltà al testo originale e indipendenza per renderlo attraente per i lettori di un’altra cultura, senza denaturalizzarlo troppo. Si trova di fatto a confrontarsi con il dilemma tra l’essere troppo vicino e magari incomprensibile per chi non conosce la lingua originale, e l’allontanarsi, correndo il rischio di dimenticare quasi il testo originale. Il solito dilemma tra fedeltà e tradimento. Tra creatività e modestia. La solita ricerca della giusta misura.

Frank Iodice ha uno stile leggero, pieno di ironia, che non è molto difficile da restituire in francese, perché i francesi e gli italiani, tutto sommato, pensano nello stesso modo. Ma ama le frasi lunghe, molto frequenti nella narrativa italiana. I francesi non vanno tanto pazzi per le frasi lunghe. Traducendolo, devo trovare la giusta misura delle frasi. Non tagliare né riformulare troppo quello che non è ovvio. Solo cercare di immaginare al meglio come la musica di Frank può risuonare in francese. Come l’avrebbe creata lui, se fosse francese.

Un’altra sfida infine che si deve affrontare quando si traduce, è proprio legata alla differenza tra le lingue. Alcune parole italiane sono difficilmente traducibili in francese. Ad esempio, Anisette ama lasciare Antonino Bellofiore sfogarsi quando cenano insieme. Nel dizionario francese, questa parola si traduce con se défouler. Ma sono i bambini à se défouler quando sono un po’ troppo pieni di energia. Invece Antonino Bellofiore (anche se è rimasto un bambino) con la fidanzata ama svuotarsi di tutta la negatività della sua giornata. Ho la scelta tra un solo verbo che a mala pena riuscirà a dare il senso giusto, o utilizzare una perifrasi che non striderà con il ritmo di Frank.

Ma è affascinante come, proprio grazie a queste differenze linguistiche, si possa a volte aggiungere con la traduzione un nuovo senso, anzi un doppio senso perché nel linguaggio nuovo esiste e conferisce al testo un piccolo tocco di umorismo. Ne I disinnamorati, Antonino Bellofiore deve indagare su delle cartoline del ’52 in cui compaiono i piedi di elefante ai quali sono attraccate le barche.

La seconda cartolina ritrae una scena del porticciolo fluviale di Bourdonnais. Le stesse barche che nella prima immagine stanno partendo per il giro della Senna, nella seconda sono attraccate in una lunga fila fino alla fine del molo. I piedi di elefante sono gli oggetti più saldi che lui conosca; sente la forza che hanno nel trattenere le imbarcazioni, possono tirare fino a sradicare il cemento ma non le lasciano andare alla deriva. Un uomo e un piede di elefante non si distinguono solo per la forma.

Ora in francese, piedi di elefante si traduce con bittes d’amarrage, che per un orecchio francese evoca anche qualcos’altro… (per i non francofoni, è il sesso maschile). Tutto il paragrafo assume di fatto un doppio senso che il testo originale non aveva ma che si incastra molto bene nel romanzo. Forse, come dice Frank, è proprio vero che ogni cosa sta ritrovando il suo posto”.

(Frank Iodice)