"Quando gli animali parlavano" di Davide Camparsi

“Quando gli animali parlavano” di Davide Camparsi

Quando gli animali parlavano

di Davide Camparsi

Secondo Classificato al XXIII Trofeo RiLL

Quando sono sovrappensiero o rimango troppo a lungo a fissare l’orizzonte oltre la finestra, e mia figlia mi chiede se va tutto bene, io annuisco e sorrido.

Sappiamo entrambi che sto mentendo. Lo sa lei. Lo so io. Ma facciamo finta di nulla. Penso ancora a Fleur, invece.

A quando ero molto più giovane, ingenuo, e credevo che sarei rimasto sempre quello che ero.

Ricordo con nostalgia il tempo in cui gli animali parlavano.

Per come andarono le cose, anche tra chi ne fu testimone, nessuno ne fa più cenno.

Mia figlia fatica a credervi o comunque non le importa molto, presa com’è dalla sua vita veloce, frenetica, ed io stesso non amo affrontare l’argomento. Una parte del dolore viene da lì: dal rammarico di ciò che è andato perduto.

Gli animali erano tutti fabulatori eccezionali, ognuno a suo modo. Amavano le storie, e ne raccontavano di meravigliose.

Quand’ero piccolo, mio padre spesso mi accompagnava al parco, dove ve n’erano alcuni che si esibivano per i frequentatori abituali o chiunque avesse voglia di ascoltarli. Mia madre invece seguiva una rubrica televisiva – in bianco e nero, all’epoca – dove una cagnetta di cui non ricordo il nome intesseva ricette di cucina e favole per bambini in modo delizioso. Anche quelli che vivevano in famiglie umane non si facevano pregare, per una buona storia. La nostra vicina di casa, ad esempio, coabitava con un parrocchetto con la passione per i racconti sentimentali e ogni sera, oltre il muro che divideva i nostri appartamenti, la sentivamo singhiozzare di pena e passione per la sorte struggente di quei protagonisti condannati ad amori impossibili.

Gli animali, oltretutto, conoscevano il funzionamento segreto di certi marchingegni che, in caso di legami intensi e duraturi, condividevano con il proprio compagno umano. Ne scaturivano minuscole quanto bizzarre navicelle spaziali che la gente assemblava da sé con pezzi di fortuna nel proprio giardino di casa, in soffitta, o su qualche terrazza condominiale. Ogni mezzo era dotato di un paio di posti: uno per l’uomo, l’altro per il suo compagno animale. Avevano una miriade di fogge, a seconda della specie che aveva trasmesso il segreto: cavallo, cane, gatto, coniglio, maiale, ma anche capra e canarino o pecora, persino gallina, o topolino. Questo determinava la forma finale dell’apparecchio, il design della progettazione. Nessuno ne comprendeva il funzionamento e oggi non rimane neppure un esemplare di quei congegni fantascientifici. Ogni tanto, alzando gli occhi al cielo, poteva capitare di scorgere una navicella ascendere verso il firmamento, diretta chissà dove, lasciando dietro di sé una scia di cometa. La gente le definiva stelle salenti ed era convinta che portassero fortuna.

Quale fosse il nome con cui le chiamavano gli animali, non lo ricordo più.

Mia madre adottò Fleur in occasione del mio quinto compleanno; fu lei a dargli quel nome, che si sarebbe rivelato tanto inadeguato.

Mio fratello era un cosino minuscolo, appena svezzato dalla gatta di un amico di famiglia che, conoscendoci, l’aveva ceduto volentieri a noi. In pochi mesi il gattino si portò in pari con la mia età umana, superandomi ben presto sullo slancio per maturità, ma mantenendo per tutta la vita quel senso schietto d’infantile entusiasmo che distingue gli animali dagli esseri umani.

Anche Fleur amava le storie ma, fin da piccolo, sviluppò un’insana predilezione per il linguaggio scurrile. A suo dire, se usato con sapienza, rendeva più incisive le storielle umoristiche per le quali andava matto.

Inoltre, aveva la fissa delle previsioni metereologiche, in cui mio padre riponeva una cieca fiducia.

“Tempo del cazzo, questa settimana” diceva a volte Fleur, sbirciando fuori dalla finestra della nostra casa. Oppure: “Vestitevi leggeri, il caldo vi farà sudare il culo, questa notte.”

Avessi usato io lo stesso, ameno linguaggio, mia madre mi avrebbe fatto passare la smania a suon di ceffoni, ma a Fleur perdonava qualsiasi cosa. Bisogna convenirne: possedeva un certo non so che nel modo di fare verso il sesso femminile.

Anche come meteorologo era davvero in gamba, merito forse di quelle sue vibrisse così sensibili. Se per caso se ne usciva con una previsione del tipo: “Domani, pioggia di merda”, ti sorgeva il lecito dubbio che il giorno successivo avresti dovuto passarlo a scansare escrementi dal cielo.

E, devo ammetterlo, quando raccontava una delle sue storie buffe faceva ridere sul serio. Se ci si metteva, faceva sbellicare tutti dalle risate, mia madre fino alle lacrime. Farci divertire lo rendeva felice. Quei suoi racconti sguaiati erano la chiave con cui spalancava i nostri cuori e li metteva in comunicazione l’un con l’altro. Quel che ci rendeva una famiglia.

Gli animali lo facevano, allora.

Come ho detto, conoscevano storie bellissime.

Non rammento, di preciso, quando le cose cominciarono davvero a cambiare.

Quel che ricordo, chiaro come un sasso tirato in un vetro, è quando cambiarono per noi.

Quando, tra Fleur e me, nulla fu più come prima.

Finita la scuola e giunta l’estate, lui ed io trascorrevamo le vacanze da nonna, che abitava fuori città, in un paesino della Val d’Adige abbarbicato sulla montagna per Trento.

Era il periodo dell’anno che preferivamo.
Mattine e pomeriggi erano per noi, tra i vicoli del paese e nei boschi che

costeggiavano l’abitato, con i nostri amici e i loro animali. I soliti giochi che fanno i ragazzi di quell’età, tra i dodici e i tredici anni, così pieni d’intenso presente che per il resto della vita se ne rimpiange l’abbagliante, affilato lucore. Un senso di perfetta interezza che gli anni rendono irrecuperabile.

Con il suo imprecare senza ritegno, Fleur era l’anima del gruppo ed io me la godevo un mondo nell’avere per fratello un gatto così popolare.

Spesso rientravamo da nonna solo per pranzo, il tempo di dividere con lei il pasto che cucinava e le strane notizie di cronaca riguardanti una formicolante e sempre più diffusa intolleranza verso gli animali. Ruben, lo scoiattolo di nonna, che di solito non chiudeva il becco un secondo appena qualcuno accendeva il televisore, in quelle occasioni si limitava a sgranocchiare all’infinito il guscio di una noce. Gli occhietti scuri mutati in perle luccicanti di lacrime a malapena trattenute.

A quel tempo, poco dopo l’imbrunire, poteva capitare che dalla montagna scendesse alla piazza del paese un orso. Era una bestia enorme, ben conosciuta, che godeva fama di gran fabulatore, ma piuttosto pigro e ipocondriaco. Per questo ogni sua venuta era salutata come un grande evento e attirava parecchia folla, uomini e animali.

Il tempo era incerto quel giorno, ed io temevo che il rischio di pioggia avrebbe fatto desistere la bestia.

Fleur, invece, rimaneva un incrollabile ottimista, come suo consueto. “Ora di sera, il vento spazzerà via le nubi e ci porterà una fottuta stellata, puoi scommetterci le palle.”

Al solito, azzeccò la previsione. Così, quando l’orso arrivò tra gli applausi, accomodandosi a un’estremità della piazza del paese, sulla scalinata che conduceva alla chiesa, eravamo entrambi nel pubblico.

Si trattava di un esemplare imponente, anche se piuttosto anziano. Alcuni bambini gli portarono una tinozza riempita di miele e, dopo essersene servito con ingordigia, la bestia attaccò a raccontare.

Possedeva una voce calda, melodiosa a dispetto della mole e dei modi. Un incanto che s’insinuò nello spazio dei nostri silenzi con spontanea maestria.

Ci rapì tutti, anche Fleur, che di solito era restio a riconoscere il talento in chi gli rubava la scena. Ma quella bestia era nata per raccontare storie, ed è quel che fece, quella notte.

Quando l’orso narrava, nessuno nella piazza udiva le sue parole: tutti vedevamo quel che favolava. Immagini così nitide da parer sogni fatti di carne e vibrante metallo, tirati a lucido come carene di navi da corsa in gara sui flutti dell’immaginazione più sfrenata.

Storie. È di questo che siamo fatti.
Comincio a capirlo solo ora.
Storie. Quel che decidiamo di credere e far vero. Cui prestar fiducia.

Questo ci definisce. Perciò ne abbiamo così bisogno.

Quando l’orso finì di raccontare fu quasi doloroso.

La bellezza ha artigli, ami che si piantano nella carne e la cui sofferenza non si finisce mai di agognare, una volta sperimentata. Quella bestia sapeva come evocarla. Alcuni tra i presenti avevano gli occhi umidi, altri piangevano, anche se in silenzio, per la commozione. Taluni sorridevano, certi annuivano fra sé, come se avessero appena ricordato qualcosa d’importante o appreso una rivelazione.

Questo facevano le storie che gli animali raccontavano.

Mentre tutti applaudivano, l’orso si levò in piedi, alzò una zampa.

Forse voleva ringraziare, accomiatarsi. O desiderava altro miele. Non ne ho idea.

Di tutte le immagini di quel giorno, ricordo con chiarezza solo l’uomo che si aprì un varco tra gli spettatori seduti, sollevò il fucile da caccia e sparò.

Il boato fu enorme.
Da allora, ogni volta che lo rammento, è sempre più fragoroso.

L’istante successivo, nella piazza, si poteva udire il respiro trattenuto e sconvolto di tutti i presenti, esseri umani e animali. Un rumore ovattato, strano e brutto.

L’orso fece una faccia stupita. Abbassò il capo e si portò una zampa al collo, sollevandola imbrattata di sangue. Alcune gocce caddero sui gradini di pietra della chiesa, monete rosse e pesanti. La bestia aggrottò la fronte, più perplessa che sofferente; aprì la bocca per dire qualcosa, guardandoci tutti come a chiedere spiegazioni. Fu allora che esplose il secondo sparo, quello che gli portò via un gran pezzo di muso e lo fece crollare all’indietro.

Fleur si alzò in piedi, su due zampe, un gesto che non gli avevo mai visto fare, ma in quel momento ero troppo sconvolto per badarvi. Mi alzai anch’io, e molti altri.

Il cacciatore, l’uomo col fucile, non si lasciò intimidire, anzi.

Si accostò al corpo agonizzante dell’orso e sollevò la zampa, mostrandone gli artigli aguzzi, insanguinati.

“Sono pericolosi!”, gridò ad alta voce, per reclamare attenzione su di sé. Tutti ammutolimmo, attoniti.

L’uomo lascò cadere la zampa, afferrando con forza quel che restava del cranio dell’orso, esponendone le fauci, le zanne arrossate di sangue quasi nero.

“Ma non vedete che sono diversi?”, chiese. Aveva un ghigno sulla faccia che metteva angoscia. “Non sono come noi. Sono animali. Sono pericolosi” rimarcò.

“Hanno artigli e zanne. Vanno tenuti lontani. In gabbia. Quello è il loro posto. E non crediate che questo riguardi solo gli orsi o bestie altrettanto feroci. I cani mordono, i gatti graffiano. Gli uccelli beccano. Ricordatevene.”

Un bambino scoppiò a piangere.

“Vedete? Spaventano i nostri figli, vivono alle nostre spalle. Non sono che animali.” Il disprezzo nella sua voce pareva un veleno contagioso. “Vi raccontano qualche storia cui vi fa piacere credere, ridete e vi commuovete, mentre in realtà non fanno che prendersi gioco di voi. Vivono nelle vostre case, mangiano il vostro cibo.”

Il cacciatore stava gridando, adesso, la collera rafforzava le sue parole.

“Svegliatevi: sono animali, non esseri umani!”

Qualcuno, tra i presenti, annuì. Un altro applaudì.

L’uomo col fucile sorrise, il ghigno sulla faccia sempre più obliquo. Mentre arringava la folla, continuò a raccontare la sua storia.

Qualcuno iniziò a credervi. Poi molti di più.
Decisero di credervi.
Noi. Loro. Ecco una storia che è stata raccontata fin troppe volte.

Gli animali non dissero nulla, si fecero solo più piccoli. Quelli che avevano una famiglia vi si strinsero accanto, ma con una nuova, cauta diffidenza. Gli altri sgattaiolarono via alla chetichella, cercando di non attirare attenzione.

Io sentivo lo sguardo di Fleur su di me, ma non avevo il coraggio di voltarmi. Per quanto mi riguarda, dalle mie parti iniziò così.

Quella sera tornammo a casa, da nonna, in un silenzio rappreso. Io non sapevo come comportarmi. Mi sentivo strano e fuori posto.

Solo quando fummo sulla soglia dell’abitazione, Fleur disse qualcosa.

“Quel pazzo ha ucciso un orso, perché nessuno è intervenuto? Perché non hai fatto nulla?”, lo sentii chiedere attraverso il buio che ci divideva.

La sua rabbia era incredula.

“Perché non hai detto un cazzo?”

“Ho avuto paura” ricordo d’aver risposto, dopo una lunga incertezza.

“Paura?”

Sembrava stupito. “Di cosa?”

“Che potesse confondermi con uno di voi” dissi prima di riuscire a trattenermi. Prima che la vergogna per quella scusa così miserevole mi bruciasse la lingua.

“Ah…”, mormorò.
“Ah.”
Fleur mi fissò con un dolore che in un istante divenne anche il mio, poi tacque. Furono le ultime parole che mi rivolse.

Tutti gli animali smisero di parlare dopo che episodi di quel tipo si ripeterono ovunque. Nel giro di qualche mese, sembrava non l’avessero mai fatto. Che non ne fossero mai stati capaci.

Io e Fleur continuammo a rimanere amici, sì, ma lui non disse più nulla, fece solo il gatto. Ogni tanto credevo di sentirlo bisbigliare tra sé, mentre si trovava in un’altra stanza, o di distinguere delle parole tra i suoi miagolii, ma m’ingannavo solamente.

Quando morì, diversi anni più tardi, in un pomeriggio di sole, lo stavo tenendo sulle ginocchia perché il calore fosse di conforto alle sue vecchie ossa. L’aria profumava di gerani.

Lui si stirò con cauta pigrizia, si voltò a guardarmi con l’unico occhio da cui ancora riusciva a distinguere qualcosa.

Gli grattai la testa. Un gesto che apprezzava sempre molto.
“Domani sarà una bella giornata, vecchio mio” ricordo d’aver sussurrato.

Fleur aprì la bocca ed io ebbi la netta impressione che stesse per dirmi che stavo sbagliando, che non lo sarebbe stata affatto. Che ero un coglione.

Vi sperai con tutto me stesso.
Avrei dato qualunque cosa per una sola parola. Una parola…

Invece fece quella specie di smorfia che sembrava un sorriso sornione, piegò la testina contro il palmo della mia mano aperta, vi si accoccolò contro, strinse i denti in una fitta di dolore, chiuse gli occhi e morì.

In un giorno di sole qualunque, senza dir nulla, mio fratello morì sulle mie ginocchia.

A volte, ancora adesso dopo quasi cinquant’anni, mi sveglio nella notte madido di sudore, e mi accorgo d’aver sognato che sono io a imbracciare il fucile che ha ammazzato l’orso.

Mia figlia mi ha regalato un gatto, un paio d’anni fa.

Dovrebbe avere qualche rapporto di parentela con Fleur, a suo dire. Io non riesco a vedervi alcuna somiglianza, non gli ho nemmeno dato un nome, lo chiamo semplicemente Gatto.

È un bravo animale, mi fa compagnia quando è dell’umore giusto, ma con un carattere un po’ dispettoso. Ogni tanto lo vedo aggirarsi per casa con dei cavi tra i denti, strappati chissà dove, e immagino sia sempre lui che fa sparire gli attrezzi che lascio in giro, le cianfrusaglie dimenticate per casa. Mi fa divertire questa sua mania… ma non è Fleur.

Nei momenti in cui mi manca di più, c’è una cosa cui penso spesso, un dilemma cui non riesco trovare risposta. Forse Fleur la saprebbe: gli animali conoscevano un sacco di cose, oltre alle loro storie, anche se ne parlavano raramente.

A volte chiedo a Gatto. Lui mi fissa perplesso, quasi fossi ammattito, poi si volta e mi lascia da solo in soggiorno, come uno scemo. O qualcuno da compatire.

La questione che mi assilla è questa: noi esseri umani trascorriamo la vita nel cercare di distinguerci dagli altri, a volte in modo meschino o arrogante, ma sempre con

l’obiettivo di apparire diversi dal resto dei nostri consimili, quasi che solo questo possa dare un senso alle nostre misteriose esistenze. Desideriamo essere più belli, arguti, magri, intelligenti, ricchi, talentuosi o qualsiasi altra cosa faccia la differenza. Eppure temiamo la diversità, con un disprezzo che a volte rasenta il fanatismo, fino a sfociare nella più impietosa cattiveria e mancanza di compassione. Com’è possibile un simile paradosso?

Gatto è tornato.

È riapparso tra gli stipiti della porta della cucina con un rocchetto di filo di rame sgraffignato chissà dove. Mi fissa con sguardo colpevole, ma allo stesso tempo menefreghista.

“Com’è possibile che una tale incongruenza sia alla base della natura umana?”, domando a voce alta, facendolo sobbalzare.

La bobina quasi gli cade dalle fauci, per la sorpresa. Fleur mi avrebbe mandato affanculo senza pensarci due volte, ne sono sicuro. Almeno, prima dell’orso. Ed io ne avrei sghignazzato per il resto della giornata.

Gatto no.

Gatto non dice nulla, mi rivolge il solito sguardo di commiserazione e scatta verso la soffitta, dove ama rifugiarsi durante la bella stagione.

Io rimango a compatirmi da solo. Sto diventando abbastanza bravo.
Nessuna storia mi sembra più abbastanza bella perché valga la pena smettere di farlo.

“Sai che è buffo, papà” mi ha detto questa mattina mia figlia, passando a controllare come stavo.

È arrossita, poi ridendo mi ha confessato che credeva d’aver sentito Gatto borbottare tra sé.

“Era nel ripostiglio. Quando mi sono affacciata per controllare, avrei giurato che mi guardasse come se l’avessi colto in fragrante. Il pavimento era disseminato di clips, viti e vecchie batterie stilo. Dovresti tenere più in ordine quel posto. Era così anche con Fleur? Era questo che intendi quando sostieni che gli animali un tempo parlavano?”

Stavo per risponderle con una delle solite bugie, cui entrambi abbiamo smesso di prestar fiducia parecchi anni fa, quando un pensiero strano mi si è affacciato alla mente.

“Batterie?”, ho chiesto.

“E un vecchio ventilatore smontato. Sul serio pensi di riparare quell’arnese? Non ti farebbe più comodo un nuovo impianto di climatizzazione?”

“Certo” ho risposto, ma non penso mi abbia creduto.

Menzogne in famiglia. Storie cui decidiamo di credere, per quieto vivere o, nel mio caso, per un affetto tra padre e figlia arreso alle debolezze che l’esistenza talvolta infligge.

Ho provato tre volte vero dolore nella mia vita.

In parte per ciò che è andato perduto.

In parte per la scoperta di ciò che siamo. Che sono anch’io.

In parte per quel che ho tradito.

Mi sono portato nella carne ogni scheggia di quella sofferenza, fino a non farci più caso.

Ci riflettevo un istante fa, mentre salivo la scala che conduce in soffitta, il cuore che mi tamburellava in petto per l’agitazione.

Sentivo Gatto miagolare di sopra. Come diceva mia figlia, pareva proprio che borbottasse tra sé, imprecando sottovoce.

Ho aperto la porta e lui si è voltato a guardarmi, poi ha indicato col muso l’oggetto bislacco alle sue spalle.

“La tua gente le chiamava stelle salenti, giusto?”

La piccola navicella spaziale era un guazzabuglio di cavi, relè, batterie, scatolette di latta, ruote e ingranaggi, motorini elettrici e Dio sa che altro. Chissà da quanto tempo Gatto ci stava lavorando.

Ho annuito, come uno scemo, senza riuscire a spiccicare parola.

Mi è parso che Gatto inarcasse un sopracciglio, come se mi compiangesse, ma non senza un filo di tenerezza.

“Il padre di mio padre aveva un debito con te” ha ripreso. “Eravate fratelli, mi hanno detto.”

“Un debito?”

“Ti è stato fatto un torto.”

“Un torto?”

Gatto ha scosso la testa, forse esasperato dalla mia ottusità. Magari dubbioso sul fatto che fossimo davvero lontani parenti.

“Le cose non dette per troppo tempo a volte lo sono.”

“Ah” ho balbettato io. Un suono che era come un lamento, un aspro ricordo di gerani. “L’avevo tradito una volta, è mia la colpa.”

Gatto ha scosso la testa di nuovo.

“Eri poco più di un bambino, mi è stato riferito. Fleur desiderava parlartene quando fossi cresciuto… ma poi il silenzio è diventato troppo denso. Le cose sono cambiate. Gli animali hanno dovuto smettere di raccontare. Di parlare. È stato difficile per tutti. Ognuno avrebbe dovuto fare un passo in direzione dell’altro. Mettere una buona storia nel mezzo. Decidere di credere alle migliori.”

“Sì” ho annuito, mandando giù quel groppo che mi era cresciuto in gola. “Sì.”
Prima che la commozione ci prendesse, Gatto è intervenuto, tornando a indicare la

navicella.
“Che te ne pare? Non è uno schianto, cazzo?”
Per un istante m’è parso che Fleur fosse di nuovo lì con noi. Con me.
“Lo è” ho risposto, tirando su un sorriso che non indossavo da troppo tempo. Gatto ha ammiccato.
“Ti andrebbe di farci un giro?”
Lo ammetto, un po’ ho avuto paura.
“Fin dove possono arrivare questi affari? Alcuni non sono mai tornati indietro.” Gatto ha riso. Pareva spassarsela un mondo mentre prendeva posto nell’abitacolo. “Questa è un’altra storia. Vuoi ascoltarla?”
La Terra dall’alto è magnifica. Uno spettacolo che toglie il fiato.
Corriamo incontro alle stelle. Dio… ce ne sono a miliardi, quassù!
Abbagliano.
O forse è solo la commozione.
È strano: anche ora che sono partito non avverto nessun senso di perdita.

Forse perché per tutto questo tempo, da qualche parte, avevo lasciato un pezzo di me. Forse perché avevo dimenticato le storie magnifiche degli animali. Peggio: avevo smesso di credervi.

Forse perché, per troppo tempo mi sono sentito fuori posto. Perso.
Gatto sta dicendo qualcosa.
Guardo fuori dall’oblò panoramico ricavato dallo sportello di una vecchia lavatrice. Tutte queste stelle. Tutte quelle storie.
Sto tornando a casa, Fleur.

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Davide Camparsi è nato nel 1970 a Verona, dove vive e lavora come architetto.

Appassionato lettore, scrive stabilmente dal 2012.

“Perché nulla vada perduto”, vincitore nel 2013 del XIX Trofeo RiLL, è stato il suo primo racconto ad essere pubblicato. Da allora ha ottenuto importanti risultati in molti concorsi, vincendo fra gli altri i premi ESESCIFI (nel 2013 e 2015), il VI e il IX Trofeo La Centuria e La Zona Morta, l’IncPi 2015 e il Premio Polidori 2016. Nel 2015 ha vinto nuovamente il Trofeo RiLL, con il racconto “Non di solo pane”.

Suoi racconti e novelle sono presenti in svariate antologie e riviste, pubblicate da diversi editori.

Nel 2017 sono usciti “L’Angelo dell’Autunno” (romanzo fantasy, già finalista al Premio Odissea, ed. Delos Digital), la novella “Tre di nessuno” (ed. Il Foglio), l’antologia di racconti fantascientifici “Di Carne, Acciaio e Dei” (collana Altrisogni presenta, ed. Dbooks.it). Inoltre, RiLL ha curato “Tra cielo e terra”, antologia di dieci suoi racconti fantastici (ed. Wild Boar).