
Gordiano Lupi – “Benedetti e bruciati” di Roberto Chiodo
Nota biografica – Roberto Chiodo è nato ad Acqui Terme nel 1975, dove nel 1994 si è diplomato al Liceo Linguistico Quintino Sella, laureato in Scienze dell’Educazione all’Università di Genova con una tesi sulla prevenzione del suicidio tra gli adolescenti nel 2000. Ha lavorato come bibliotecario e catalogatore in diverse biblioteche. Nel 2015 ha aperto la biblioteca di poesia italiana contemporanea “Guido Gozzano”, che conserva oltre 7.000 libri ed è il primo esempio in Piemonte di biblioteca dedicata esclusivamente alla poesia. Ideatore e responsabile della Segreteria del Concorso nazionale di poesia e narrativa “Guido Gozzano”. Il 5 maggio 2021 è uscito il suo primo libro di poesie intitolato “Benedetti e bruciati” e pubblicato da Impressioni Grafiche.
Commento – Chiodo è un autore che presento volentieri, perché non è facile trovare voci nuove e profonde nella poesia italiana contemporanea. Si dice spesso che tutto è già stato detto, nel cinema come in letteratura, forse è vero, ma importante è dire cose vecchie con il vestito nuovo, usare metodi comunicativi originali, essere sinceri con se stessi. Chiodo è poeta vero, spontaneo e ricercato, genuino e musicale, profondo e colloquiale. Non sono aggettivi antitetici. Tutt’altro. In un panorama letterario contemporaneo piuttosto squallido, ricco di autori che si autodefiniscono letteratura (pompati da premi dove vincono sempre le solite case editrici), la semplicità di Chiodo quasi sconcerta, perché pubblica il suo primo libro a 45 anni (Benedetti e bruciati) per raccontare la monotonia della vita quotidiana, la solitudine di paese, le piccole allegrie di giorni sempre uguali. Un poeta che ha molte cose e che compone un florilegio di vite di sconfitti alla De André, comunque benedetti pur se bruciati, che seleziona il meglio di un’opera composta con pazienza nel corso degli anni, mentre si dedica a leggere poesia, catalogandola in un progetto unico e fantastico: la Biblioteca Gozzano di Terzo, che ospita ben settemila volumi di poesia. Vi lascio in compagnia di alcune liriche, che – come accade con la vera poesia – non hanno bisogno di particolare esegesi ma risultano di immediata comprensione. Chiodo racconta la sua vita e le sue esperienze, che in fondo sono vita ed esperienza comune, citando letture ed emozioni che costellano un’esistenza, senza cercare rime obbligate ma senza rinunciare alla musicalità del verso.
Gordiano Lupi
Selezione di poesie tratte da Benedetti e bruciati
Numero 2
A parlare ancora della rivoluzione francese
i volti segnati senza speranza
le rughe visibili
le dimenticanze
la tua presenza
sempre di buon umore.
A parlare ancora della condizione umana
di chi non ti vuole
e mi sento più vecchio
e sono qui per te.
A parlare ancora di noi due
dei mascalzoni
di chi ci ha ingannato
di chi ha vissuto al limite
ogni scelta
quale fosse sempre l’ultima.
Vorrai dirmi qualcosa oggi
a muso duro
a sorridere senza fretta
in questa casa
qui in paese
che importa della vita
della tua vita
della mia vita.
Numero 9
A te affiderò
quel disamore
che conduce
alla protesta
quell’intendersi
senza sapere il perché.
A te affiderò
i frutti acerbi di marzo
i francobolli conservati
i miei sentieri
l’indifferenza
e gli altri argomenti.
A te affiderò
quella realtà precipitata
che ci conduce fuoristrada
dove ci siamo persi
nelle abitazioni
tra le chiese
dove non so.
A te affiderò
quel mio esistere
in riserva
senza fermarmi
quel guardare
alla finestra
gli anni
passati insieme
e i giorni
che vivrò
senza certezze.
Numero 10
Quelle lettere senza destinatari
custodite nei rimossi contesti
di uomini fedeli e schivi.
Col passare degli anni
il sole che tramonta
nei racconti di vita
tra le dita
quel lasciar stare
nelle attese
mentre mi tieni per mano.
Veloci si mescolano
i nostri segreti
il filo ermetico
il distacco
nei giorni senza certezze
tra memorie e sentieri clandestini.
Dei miei versi cosa ricorderai?
Quella luce in periferia
un’alba nuova un uomo perbene
in ogni mio gesto
ora che non sappiamo più niente
ora che hai dimenticato tutto.
Numero 12
La radice scavata nei gesti
mite
che ci corrode
obliqua e sfrontata
nella penna di un poeta
nel decoro che vediamo
dove mi metti
fin dove posso arrivare.
La radice che si inscena
su tutto
che è già dentro
dappertutto
impercettibile
nella sua elegante dizione
e saggezza.
La radice in una altalena
spettinata
nelle preghiere
che vengono da lontano
nel pianto invano
quel voler cancellare
e magicamente
sdrammatizzare
che ci perdona
come dei figli
ogni nostra ferita
a futura memoria
anche per voi
anzi solo per voi.
Numero 15
Insieme ci dicono
come mangiare
come scopare
come vestirci
se andare in chiesa
o ammazzarci per una diversa razza.
Insieme ci dicono
come dobbiamo ricominciare
dolcemente
come chi lotta
tra le emergenze raccolte in piazza
e quello che ti fanno credere.
Quel che mi rincresce
quel che già fui e ora non riconosco
quando ricordi
quel naso a punta
il cattivo tempo
il comunismo è morto
e noi ci sentiamo privi di.
Scendono insieme e ci dicono
cosa comprare
di che morte dobbiamo morire
dei traditori e delle ritrosie
di una statica comitiva in viaggio.
Se solo parlassero nella mia lingua
li capirei.
Il mio respiro
in bicicletta
quel che non mi appartiene
quel che non mi posso permettere
le case in centro
chi si immaginava migliore
ad ammirarti come sei
nel rumore dei tuoi passi
che non lasciano timori.
Numero 22
Ho imparato a cogliere
lo sguardo oltre le rovine
la coerenza ricucita
tuttora generata
quel trovare un posto
a tua insaputa
in un pensiero dialettico
in una dignità da poco riacquistata.
Quel sentirsi vivi
nelle negazioni
come un’onda disegnata
come un accordo
nel cattivo tempo
dopo aver donato
inutilmente
il mio punto di vista.
Quel saper cogliere
così come sei
ogni giorno dedicato a te
il vento lontano
e tu leggerissima
che aspetti le mie attenzioni
che sai quanto mi costeranno.
Numero 27
Quel rapporto ricucito a Parigi
quel saper scindere
i pezzi insanabili
le variazioni
le rigide incertezze
di chi tutto
ha avuto dalla vita.
Indicami il vero
in un vicolo
nelle ombre colmate
nelle forme ammuffite
che ho di fronte
che hanno questi significati.
Il tempo e la partenza
nei segni vuoti
nella mano tesa
ancora ieri
quando nulla ti riusciva
quando chiedi del dolore e del mistero
tutti a cercare
sul filo sospeso
le donne che non ho amato
lo sguardo sapiente
errante e muto.
Numero 32
Ci distingue innanzi tutto uno sguardo alla vita sempre fuori moda. Dio è affogato e io non mi abituo a non vederti nella confusione delle mie note preferite.
Everybody hurts nella strada più breve tra rincorse e sbadigli. Rivedo Hemingway in tante storie, nelle piogge estive, nella nostra infanzia divertente quando solo ancora eravamo benedetti e bruciati.
Numero 35
Raccontavi di ragazze fiorite e bruciate, di annunci e confini, di fili rimossi, di tempi passati, di case disabitate.
Raccontavi della mia esistenza in controluce e in soggezione. Sto invecchiando in questi pomeriggi rari mentre ascolto Lo Stato Sociale e seduco le trentacinquenni. Avremmo voluto cambiare, essere all’altezza, essere alla fine, toccare con mano l’effimera vertigine, capire un’emozione e viverla senza freni come una nuova epifania, un’ultima volta, un unico atto, come una vera purificazione.
Numero 39
Vivevamo di esasperazioni, rinunce e di certezze appese a un filo. Le nostre storie si mescolavano a quelle di pugili affogati nei debiti e puttane da loro rese celebri. Nascondevamo il nostro disagio leggendo poesie e fingendoci eroi. Non sapevamo nulla della guerra, di chi fugge e di chi avrà una croce. Le nostre giornate sempre in salita senza sorrisi e senza scosse. Nei nostri sguardi tutto era prevedibile. Tutto quello che avevano conquistato ora noi lo vedevamo scemare lentamente senza batter ciglio. Vivevamo di pugni presi e schivati, di ragioni perdute e menu sempre uguali. Non sapevamo come reagire, se reagire, e andavamo incontro alla nostra fine con in mano una foto di Floyd e nei pensieri Marylin.
Numero 41
Accendo la pipa
non ricordo il tuo nome
le facili distrazioni
il tintinnio delle monetine
in questo piano inclinato
mentre telefono
a me stesso
interessato ancora
al senso della relazione.
Non rido mai
e mi rimprovero spesso
questo essere borghese
anarchico
di chi vive
la rivoluzione
nei boulevards lunatici
tra le verdi tazzine di te
e chi si innamora nei giorni feriali.
Accendo la pipa
smemorato
come certe ragazze
che corrono dietro a un cane
nei loro miraggi
nei loro destini
nei loro percorsi soggettivi.
Il mio cammino
riconoscevo
come se fossi vivo
nelle scritture esposte
delle anime di sinistra,
nei collettivi
sempre fuori moda
quando battemmo la Germania Ovest
e tutti
ci credevamo
comunisti.
Numero 45
Il nostro tempo in cinque parole
quando Faber cantava
quel lasciarci scivolare
tra leggerezza e allegria
quella voglia di cantare
mentre si alzava il sipario
noi le mani alzate e i pugni chiusi.
Ti facevano capire
bastava guardarsi appena
eravamo sognatori
poeti la notte
e tutto ci andava bene
tra le righe, nei prologhi, nelle distanze .
Non avevamo tutte queste preoccupazioni
non esistevano le disaffezioni.
Oggi forse
prova a prendermi
a conquistarmi
coi tuoi argomenti
in ciò che credi fermamente
nelle tue azioni
nella tua carta di identità.
Il nostro tempo in cinque parole
in un carpe diem continuo
che cercavo da mesi
che non esiste
che resta lì
capovolto
nella città natale
nelle cantine sorde
noi ubriachi la sera
equidistanti e gentili con noi stessi.
Nemmeno a sud
ovunque non ne sentiamo la mancanza
nei processi mnemonici
per prima cosa
la nostra terra madre
assoluta e immobile
violentata e cieca
indulgente e amara.
Numero 49
Avrei voluto essere io
esserti accanto
nelle gioie rovesciate
negli imperativi di chi procede
nei passaggi accordati
di chi non c’è.
Mi incammino
invece leggendo Proust
prima dell’alba
al buio
sopra i vetri
ricomposti
a malapena.
Oggi rinuncio ad amarti
a chi non si sorprende più
ai quaderni profetici
alle forme improvvise
e spietate.
Oggi rinuncio a te
nei respiri lenti
di padri innocenti
che non seguono le mode
al massimo le creano
nelle piazze
di paesi
disabitati
disabitati da far paura.
Numero 53
Le luci spente e l’abbandono
le scommesse perse
per esistere
la fiducia e lo slancio verso Santiago
nelle pieghe di facili abbandoni
in un paese che muore
nei versi controvento
in un’isola che non c’è.
Insegnami la bellezza
il nuovo che deve arrivare
la determinazione e la resa
tra le righe
nelle fessure
dove appartengo senza misura.
Non scrivo del passato
non è l’insieme
è quel vivere
lentamente
le mie attenzioni
in cambio niente
Numero 74 La sera
La sera che mi dirai di sì, dimenticherò le chiavi di casa.
La sera che mi dirai di sì, ti porterò dove non ti ho portato mai.
La sera che mi dirai di sì, non mangerò cipolle.
La sera che mi dirai di sì, è una vita che l’aspetto.
La sera che mi dirai di sì, indosserò la giacca di quando mi sono laureato, anche se stretta, la indosserò.
La sera che mi dirai di sì, dimenticherò gli occhiali a casa e indosserò calzini di colore diverso.
La sera che mi dirai di sì mi verrà il singhiozzo.
La sera che mi dirai di sì sarà dopo mille no.
La sera che mi dirai di sì rinuncerò al solito bar, la solita partita, il solito arbitro cornuto.
La sera che mi dirai di sì sceglierò io la bottiglia di vino con cui festeggiare anche se sei astemia.
La sera che mi dirai di sì tutto mi sembrerà migliore e saluterò di buon umore il mio odiato vicino.
La sera che mi dirai di sì scriverò prima le cose da dirti e immancabilmente perderò il filo di ogni discorso.
La sera che mi dirai di sì ti verrò a prendere a casa e citofonerò per sbaglio al tuo vicino.
La sera che mi dirai di sì mi metterò il profumo regalato da mia zia, quello speciale.
La sera che mi dirai di sì dimenticherai tutti i miei sbagli e tutto mi sembrerà cosi semplice.
La sera che mi dirai di sì
non avverrà mai.
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