Gordiano Lupi - Giuseppe Ungaretti, vita di un uomo

Gordiano Lupi – Giuseppe Ungaretti, vita di un uomo

Giuseppe Ungaretti, vita di un uomo

Sono nato nel 1888, ad Alessandria d’Egitto, nel bel mezzo del deserto, in un deserto infinito dove la vita non lascia traccia di sé nel correre del tempo. La mia città natale è un luogo dimentico del suo passato, dove il sentimento del tempo significa soltanto distruzione. Figlio di migranti lucchesi – mia madre manda avanti un forno, mio padre lavora da operaio -, perdo il babbo, morto in un incidente di lavoro, a soli due anni. Ricordo la mia infanzia segnata da lutto, memoria ed elaborazione del dolore, da una ferrea disciplina imposta dalla mamma e dall’assenza di un padre, di una guida certa. Mia madre lavora al forno tutto il giorno e si occupa di noi, con dedizione assoluta, quasi con abnegazione, ma a me non basta, è una donna energica e poco tenera, non ricordo da parte sua un gesto di dolcezza in tutta l’infanzia. Rammento la mia fanciullezza cullata dalle voci della notte e da un singolare allevamento di maiali (proibito!) in cortile. Ho un amico francese che si chiama Alcide, orfano di madre, lo invidio molto, lui trova ogni giorno la tenerezza perduta in un padre amorevole, negli zii che non lo abbandonano un istante. Divento molto amico di quel figlio di funzionario di stato egiziano che viene trattato come un re, quasi lo venero, lo considero un esempio di felicità assoluta. Ogni settimana vado a piedi al camposanto con mia madre e sono obbligato a pregare per ore sulla tomba di mio padre. Il sentimento della morte si impadronisce di me, in quel paesaggio scarno e desertico tutto mi riconduce a un pensiero luttuoso. Non va meglio quando mi spediscono in collegio, un luogo dove non posso essere felice, restio come sono alla disciplina, una scuola di preti dove per ingannare il tempo tengo un diario e immagino di scrivere ad Alcide, per me il bambino più invidiato del mondo. Ma pure per lui la felicità termina, la vita presenta il conto, ché alla morte del padre si aprono le porte di un triste collegio. Ad Alcide dedico l’unico sonetto della mia vita, per il suo compleanno, dopo li tradurrò da Shakespeare ma non ne scriverò altri. Passo l’infanzia a sognare l’Italia dal porto di Alessandria, un luogo che non conosco ma del quale sento parlare in casa ogni giorno, da mia madre e da amici di famiglia. Le mie notti sono come miraggi da fata Morgana, tra cani che latrano, vastità desertica e il nulla, un niente assoluto come soltanto in quest’angolo d’Africa lo puoi concepire. La poesia cresce in me con i colori, i profumi, soprattutto con la musica di quest’Africa egiziana; si abbevera di solitudine, di quel sentirmi unico, diverso, appartato, uomo di ogni tempo e di questo tempo, in una parola poeta. La consapevolezza del mio essere poeta l’ho messa nei fiumi della mia vita, una lirica autobiografica come quasi tutto quel che ho scritto. Per la mia crescita è importante Leopardi, conosciuto a quindici anni, subito dopo Nietsche e Mallarmé, un poeta che non capisco ma che sento mio fino in fondo. La musica di Mallarmé è quel che conta, che mi seduce, non conta niente capire le parole, i significati reconditi. Racine dice le stesse cose su tutta la poesia, in fondo, ma scoprirò Racine soltanto da vecchio. Quando mi trasferisco a Parigi conosco Baudelaire, un altro dei miei amori che condivido con il mio povero amico Moammed Sceab, trovato morto in una stanza d’albergo, ed è a lui che dedico la prima poesia de Il porto sepolto. Baudelaire lo capisco più di Mallarmé, anche se non è così semplice e chiaro, molto introspettivo, profondo, ma serve meno tirocinio per comprenderne i significati interiori. Nietsche è un altro fratello spirituale, forse incarna il mio animo ribelle, il mio spirito di rivolta, la sua filosofia mi inebria e mi sconvolge. Mi faccio amico Enrico Pea, un mercante di marmo che diverrà scrittore, ha dieci anni più di me, gli resterò vicino fino alla morte, con quel volto da patriarca, la barba bianca e le idee socialiste, così diffuse tra i rivoluzionari di Alessandria. È un paese ospitale, l’Egitto. Alessandria accoglie anarchici e socialisti, cattolici e musulmani; mia madre non è certo rivoluzionaria, figlia d’una cultura cattolica, tollera senza problemi le idee diverse, rispetta tutti, invita anarchici a frequentare la casa e mi fa trovare socialisti a cena. A quel tempo l’Italia per me è solo un sogno, il mio unico legame con la patria è composto di racconti sentiti dagli altri e da una lingua imparata a scuola e in famiglia. La prima volta che vengo in Italia lo faccio con Jahier e Louis Chadourne – un giovane scrittore francese – ed è durante quel viaggio che scopro le montagne, tra Modena e Pistoia, all’Abetone. Non ho mai visto una montagna, ferma contro il tempo, baluardo che sfida l’incedere dei giorni; conosco solo il deserto e il mare, per me una filiazione del deserto, un’altra solitudine immensa. Il paesaggio e la natura sono parte integrante della mia poesia, l’essenza più vera della mia lirica, breve, spezzata, sincopata, laconica, ma intensa, ebbra di suggestioni legate al tempo e ai luoghi. Parigi è un altro luogo fondamentale della mia vita, nella capitale francese scopro l’importanza del grigio, un colore nuovo, una sfumatura che per Alessandria è impossibile, lo spegnersi e l’accendersi dei grigi, del cielo, delle persone, degli alberi … Alessandria è il deserto e il mare, Milano la nebbia brumosa, l’Italia al primo impatto rappresenta la montagna, Parigi è la finezza intima, ermetica. Se le mie poesie milanesi sono velate di nebbia, è per vedere più chiaro nel mio infinito. Non amo l’architettura dei palazzi, in un primo tempo neppure il barocco romano, soltanto in Francia vengo sedotto dalle cattedrali. Imparo ad amare Roma con il tempo, perché nei primi anni non vi trovo l’architettura spigolosa, a linee acute, protesa verso l’alto. Scrivo le prime poesie a Milano, pubblicate su Lacerba, sotto l’occhio vigile di Papini, Soffici e Palazzeschi, che dirigono la rivista. Non sono un poeta da discorsoni, non li so proprio fare, mi disturbano, nelle prime poesie esprimo un dedalo di variazioni sentimentali a contatto con i luoghi, nel modo più laconico possibile. In fondo di cosa parliamo quando scriviamo se non di chi siamo e di dove viviamo? Siamo i nostri luoghi, le nostre radici, la patria lontana, il posto dove decidiamo di trascorrere la nostra esistenza. Le poesie che scrivo si fondano sulla mia biografia, sul mio inquieto sentire, sulla situazione intima di quel preciso istante. Il porto sepolto piace ad Apollinaire, mio buon amico parigino, che grazie alla poesia diventa intimo, legati come siamo da un sentire comune; ci frequentiamo durante la guerra, quando mi danno una licenza dal fronte di Verdun corro da lui a Parigi, ma un triste giorno lo trovo morto, con il volto coperto da un panno nero e vedo sua moglie in lacrime. Nel 1919, subito dopo la guerra, mi sposo con Jeanne Dupoix, compagna di vita per quasi quarant’anni, convoliamo a nozze lo stesso giorno in cui muore Modigliani. Vivo in rue Campagne Première, incontro Modigliani ogni giorno, alla trattoria di Mère Rasalie, dove lui mangia poco e disegna molto, lasciando i ritratti degli avventori sul tavolo, materiale che la proprietaria rivende senza farsi tanti scrupoli. Divento amico anche di Modigliani, che dopo poco si ammala e muore di febbre spagnola, con il fisico indebolito dall’alcol, mentre la sua giovane compagna – che aspetta un figlio – si suicida gettandosi dal balcone. A Parigi incontro tanti artisti – la Senna è un fiume importante della mia vita, forse più del Nilo e del Tevere – persone come Soffici, Palazzeschi, Boccioni, Carrà, Marinetti … quasi tutto il movimento futurista, poi Braque e Picasso, Delaunay, Péguy, Sorel, Béaler, Bergson … incontri decisivi per la mia carriera letteraria. De Chirico, invece, lo conosco solo dopo la guerra pure se sono il primo in Italia ad apprezzare le sue Piazze. Sono molto amico dei direttori di Littérature (Aragon, Breton, Soupault, Tzara), ma pure di Desnos, soprattutto di Paulhan, per me quasi un fratello, al punto che collaboro a tutte le sue riviste. Vado a vivere in Italia alla fine del 1919 ma continuo a tenere conferenze all’estero, mi stabilisco a Marino, nei colli romani, in una casetta da poco, con il tetto sfondato, dove piove dentro mentre scrivo. Non è un bel momento per la mia vita ma – come accade spesso – lo è per la mia poesia che tocca le vette più alte ed è in questo periodo che comincia a formarsi Il sentimento del tempo. Non solo, nascono pure i miei due figli, nel 1925 Ninon e nel 1930 lo sfortunato Antonietto, l’amore della mia vita che mi lascia troppo presto. L’allegria è il mio primo libro, la prima stesura reca un titolo strano – Allegria di naufragi – che poi tanto strano non è: la vita è tutta un naufragio, conta soltanto l’attimo, il barlume di felicità che puoi cogliere. Prendo coscienza di me e scrivo versi rapidi, laconici, ermetici, senza toni nostalgici, ché sono un lottatore, un guerriero, uomo di pena, non soltanto di penna, come amo dire, da Alessandria d’Egitto alle due guerre, passando per tutti i fiumi della mia vita. Ma la mia prima vera piccola raccolta s’intitola Il porto sepolto, dedicata ad Alessandria, città e porto ben prima di Alessandro. Un librettino dove racconto la mia vita in trincea, la prima lirica narra la triste notte passata coricato accanto a un compagno morto, nel fango. Natale del 1915, sono sul Carso, a Monte San Michele. Il porto sepolto è un anno di guerra, in trincea, morte e natura si danno la mano, la poesia sgorga come voce di fraternità nella sofferenza, ché io non odio il nemico, odio la guerra, sono un uomo di pace anche se un tempo sono stato interventista, credevo che per eliminare per sempre la guerra si dovesse combattere questa guerra. Quanto mi sbagliavo … Ettore Serra stampa ottanta copie del mio Porto sepolto, pure troppe, frutto di riflessioni personali che portavo nel mio tascapane in trincea, non destinate ad alcun pubblico. Nel 1923 Serra stampa il libro a La Spezia in ben 500 copie, con presentazione di Benito Mussolini, ma ne vendiamo poche, il libro resta fuori commercio fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, per la felicità dei librai antiquari. E siamo al Sentimento del tempo, scritto quasi tutto in una Roma che fatico a capire ma che diventa la mia città quando riesco ad apprezzare prima Michelangelo e poi il gusto barocco che avvolge la capitale. Tutto è più facile, dopo. Il Sentimento è un libro estivo, fatto di paesaggi d’estate violenti, proprio come il barocco; l’estate è la mia stagione, poi con La terra promessa giunge a compimento il mio amore per l’autunno, ma al tempo amo l’estate, il rosso fuoco del sole sul travertino. Lavoro al Sentimento con il bagaglio colmo di Leopardi e Petrarca, decadenza e rovine da ricostruire, per prendere possesso della mia Roma tra poesie mitologiche come un’iniziazione religiosa, un mistero da penetrare fino in fondo. Vedo il Colosseo come un enorme tamburo con orbite senza occhi, mi sento afferrare dal sentimento del vuoto e scrivo il mio Sentimento in una stagione di pieno sole, implacabile, prigioniero della mia libertà. È il 1933, piovono critiche pretestuose, questioni di lana caprina che sopporto con spalle forti, accettando le giuste obiezioni, facendo tesoro delle cose positive per migliorare la mia poesia. Nel 1936 mi stabilisco in Brasile fino al 1942, dove insegno letteratura italiana all’Università di San Paolo, ma sono anni cupi, prima muore mio fratello, subito dopo perdo mio figlio Antonietto per un’appendicite mal curata. Il dolore nasce dalla mia esperienza più tragica, ché mio figlio ha solo nove anni e anche se già so cosa sia la morte, non mi aveva mai colpito una simile tragedia. Da quel giorno posso dire che la morte è venuta ad abitare con me e non mi ha più abbandonato. Il dolore è un libro che amo, scritto in anni orribili, con urgenza tragica, in un mondo funestato dalla tragedia della guerra mondiale e nel mio animo distrutto da tragedie personali. Perdo mio fratello e mio figlio, perdo la parte migliore di me, un dolore infinito che non può estinguersi, che non può (e non vuole) essere alleviato ma che ripongo nei versi immortali, in un libro scritto dal 1937 al 1946, in nove lunghi anni di sofferenza. La terra promessa esce nel 1950, ma ci penso e ci lavoro dal 1935 e già nel 1942 è a buon punto, proponendosi di raccontare l’autunno, la mia penultima stagione che comincio ad amare. Un libro scritto con lentezza, interrotto dal Dolore, una tragica parentesi che chiedeva con prepotenza di essere liberata, di uscire dal mio cuore sotto forma di versi. Il resto di quel che faccio non è così importante. Conferenze, traduzioni, articoli, poesie d’un vecchio raccolte in un taccuino, altre liriche sparse collezionate da critici, la parte terminale della vita di un uomo. Purtroppo sopravvivo ben dodici anni a mia moglie, che muore nel 1958. A ottant’anni mi tributano onori a Roma e a Parigi, due anni dopo mi vogliono persino negli Stati Uniti, dove vado a compiere il mio ultimo viaggio, perché mi ammalo di broncopolmonite. Raggiungo mia moglie nel cimitero del Verano, dopo la messa a San Lorenzo dove vengono in tanti a salutarmi, scrittori e politici, gente comune che leggeva i miei versi e che mi aveva visto in televisione a commentare Omero. Siamo nel 1970, ottantadue anni compiuti, un’epoca nuova, l’uomo è sbarcato sulla luna, ma non è più il mio tempo, il mio tempo è quello di morire. Ho sempre cercato di fare quel che ambivo di fare, questa è la mia unica certezza, consapevole del fatto che nessun poeta c’è mai riuscito.

Natale

Non ho voglia

di tuffarmi

in un gomitolo

di strade

Ho tanta

stanchezza

sulle spalle

Lasciatemi così

come una

cosa

posata

in un

angolo

e dimenticata

Qui

non si sente

altro

che il caldo buono

Sto

con le quattro

capriole

di fumo

del focolare

Gordiano Lupi