Il capolinea – Daniela Chisci
IL CAPOLINEA
Ti ho incontrata che nevicava.
È come una carezza l’abbraccio dei primi fiocchi. Avevo percorso qualche chilometro dal capolinea del bus e stavo uscendo dal bar dove Lui mi aveva dato appuntamento quella sera, però ero sola.
Il buio deformava i contorni di case e alberi, definendo ombre nuove che parevano volermi inghiottire; ero spaventata.
La strada era deserta e tu sei comparsa dal nulla.
«Scusi, mi sono persa» la tua voce strideva, risuonandomi familiare.
«Da dove viene?» ti ho chiesto mentre la neve gelava prepotentemente le mie labbra.
«Dal capolinea dell’autobus» lo sconforto della tua voce tagliava l’aria.
«Che coincidenza, mi sono persa anch’io» ho risposto, senza esitare.
Ti ho osservata mentre camminavamo saltando le fermate: una vecchia sciarpa di lana verde e blu ti fasciava la testa e la bocca, lasciando un pertugio per gli occhi grandi, neri, profondi; un vecchio loden verde aderiva al tuo corpo alto e snello e le tue mani viola per il freddo si nascondevano nelle tasche scucite e tu, con la schiena curva, ti riparavi dai fiocchi che, come spilli ti bucavano il volto e ti penetravano misti ad acqua, infradiciandoti tutta.
La luce dei tuoi occhi ha illuminato le trame dei miei pensieri, il guizzo di un sopracciglio ribelle, mi ha intrigato.
«Vado in cerca di un pretesto per affrontare il buio» ho esordito.
Mi hai preso per mano tamponando il freddo del mio cuore e ci siamo dirette alla panchina poco più lontano.
Io e te, fianco a fianco, due perfette sconosciute complici di intrecci oscuri perfino a noi.
La fitta amara della mia delusione, come fiume in piena, ha straripato sul sentiero, sulla panchina e su di te.
«Perdonami» ti ho sussurrato vomitandoti tutto di Lui, lo scrittore vigliacco, che mi ha scelta, mi ha coperta di baci e di abbracci, rubandoli alla metà della notte in cui spariva appagato, forte del suo fascino e della sua intraprendenza, avido della mia vulnerabilità, inesperienza e totale abbandono al suo tranello, mentre le briciole di quell’amore astuto e opportunista mi obnubilavano la mente.
Tu, con le mani fra le mie, hai imprigionato i grovigli del mio cuore fratturato e mi è parso di sentirti sussurrare. «Sono qui per il tuo stesso identico motivo, appartengo alla metà della notte che accoglie Lui, quella per cui ti ha dato buca al bar, quella che lo aspetta con la minestra bollente marmata, che lo consola quando la pagina resta bianca per mesi, che non pretende, che non fugge, che non rende le offese, insomma sono io, mi vedi?»
«Dove sei?» mi giro su me stessa in preda al panico, le mie mani fra le mie, questa volta. Mi spavento.
Ancora avvolta nel mio loden verde prendo distacco da me.
«Perché scappi, non andartene, non lasciarmi» ti supplico mentre l’urlo mi muore nella gola annacquata di lacrime.
«Tu sai che non potrei mai, neanche se volessi» mi dici, però continuo a non vederti.
Tremo sulla panchina gelida.
Muovo le gambe su e giù, un riflesso incontrollato, un ritmo che mi impongo per non morire.
«Qualcuno arriverà, prima o poi» penso sconsolata.
Non sento quasi più il mio corpo, ma il mio sguardo è incollato all’orizzonte della strada deserta.
«Eccolo, eccolo, sono qui, sono qui» finalmente il bus, un miracolo!
Di lì a un minuto due fari mi accecano.
«Signorina, sale?»
La voce del conducente mi travolge in pieno.
«Che faccio ora?» mi assillo, mordendomi il labbro.
Con le gambe muovo i primi passi.
«Solo un momento, per favore».
Daniela Chisci
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