Panchina (non solo briciole per pennuti ma punti di vista e riflessioni babeliche di un mestierante ribelle) – Aprile
La riga gialla
Si sveglia improvvisamente, ha fame.
Traccia una riga:
la riga gialla che viene da lontano e non ha ostacoli, taglia a metà il campo di grano, le case, le stanze, i corpi, le coscienze divide come sono divise le assi della panchina scomode, sempre più scomode.
E’ l’ora tra il cane e il lupo, quell’ora incerta che delimita il giorno dalla notte, il bene dal male, la brutalità dall’amore. Piove fitto e malinconico. Il cielo è uniforme, pesante. Il crepuscolo ha colori metallici che offuscano le guasconaggini dei social smarriti tra orrori e suggestioni. Piazza Plebiscito, a Napoli.
Sotto la pioggia battente, una figuretta esile, scura, incazzata, attraversa la piazza deserta. Digita inutilmente un cellulare che ha colori velenosi. Si chiama Alice, sembra l’eroina di un fumetto dark ma è solo una vittima. Vent’anni, occhi profondi, tratti inquieti, tanti orecchini di scarso valore, e capelli di un colore improbabile che tradiscono un’infantile volontà di trasgressione e vita. Ma è il momento di scegliere.
La Bestia ringhia. Ha ancora più fame.
Alice si volta a guardare, cerca un riparo, un albero cavo in cui rannicchiarsi. Dai vicoli irrompe un gioioso frastuono. Spunta un Pulcinella che precede un enorme variopinto drago cinese che irradia pazziando la tristezza di vicoli senza sole, senza canzoni, senza pizza, senza tempo. Il drago scorre e svanisce. Resta Pulcinella che con drammatico gesto teatrale si toglie la maschera: ha la faccia straziata di uno spigoloso cavallo sbiancato.
Una metafora al centro di un famoso quadro di Helm Wein: “Boulevard of broken dreams”, quello che raffigura il bancone di un bar con alcuni “miti” dello spettacolo seduti sugli sgabelli. Muti e spenti come tutto ciò che non ha più senso, ma solo dolore.
Un rewind brusco, un flash, un morso: erano in tre, uno per terra, uno abbandonato su una branda che puzzava di orina e sperma rancido, uno seduto al tavolo centrale, la testa sul ripiano, le braccia che penzolavano inerti, prive di vita. Sul tavolo in un bicchiere sporco di sangue raggrumato come cera sciolta di candela consumata fino alla fine, tre/quattro siringhe. Le spade della mia generazione, nate non per la pugna di epica battaglia, ma per scavare la pavidità d’animo. Che generazione! la mia maledetta fottuta fantastica generazione vittima di demoni, colpevole di indigestioni e di aver scambiato la dissipazione per poesia inerziale, infinita.
Eppure era riuscita, nel mortaio della storia a triturare frantumare ogni codice religioso culturale filosofico politico morale ma non le contraddizioni umane.
Quelle che sono oggetto di chiacchiere da bar o, peggio, di chat sociali e come ineluttabile, inarrestabile gramigna rubano terra alla pianta, nutrimento al seme, rubano vita al raccolto.
Scegliere Vita o libertà, si chiede il teologo Vito Mancuso. Difficile davvero rispondere, impossibile poi quando ci si rimbalza ottusamente da una finta libertà ad una vita da mercato.
La riga gialla viene avanti, a dividere non il vero dal falso ma il ciò che è dal ciò che non sarà più.
Non basta dare del tu alla vita per combinare un appuntamento o lasciarsi precipitare nel cavo vertiginoso di un albero. È già tardi. Tardissimissimo dice il cappellaio matto. E mi ripete Lisa, ma abbiamo fatto in tempo ad innamorarci.
L’umanità non…
La riga gialla arriva e taglia la panchina.
Dardano Sacchetti
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