Luca Palmarini - Pianeta Est - Katowice: l'albedo del carbone e del vetro

Luca Palmarini – Pianeta Est – Katowice: l’albedo del carbone e del vetro

Erano i primi anni Novanta, gli ultimi giorni di settembre, il clima era decisamente autunnale. Per tutto il decennio a venire, grazie al magico biglietto ferroviario chiamato Interrail, in quel periodo dell’anno avrei girato in lungo e in largo l’Europa, soprattutto quella centro-orientale e balcanica.

 Era una mattina assai fredda, me ne stavo incollato a un finestrino del treno che mi stava portando a Katowice. Arrivavo da Vienna, la città che per tanti anni per me sarebbe stata “la porta dell’Est”, punto di partenza e di arrivo per treni che correvano verso Paesi fino a poco tempo prima situati al di là della cortina di ferro.

Dopo essersi infilato in diversi scambi, il treno, con un movimento da serpente, sballottava leggermente i suoi passeggeri. Poco dopo si fermò pigramente nella stazione di Katowice. Ero arrivato. Scesi. Quelli furono i miei primi passi nel Paese che avrebbe cambiato completamente la mia vita, ma, naturalmente, questo non potevo ancora saperlo. Il mio primo impatto con la Polonia sarebbe stato con una città industriale dalla struttura urbanistica e architettonica in buona parte socialista. Ne ero consapevole. Da qualche parte avevo persino letto che nel dopoguerra, durante gli anni del comunismo più duro, alla città, in virtù della sua vocazione industriale, era stato dato per alcuni anni il poleonimo “Stalinogród”, città di Stalin (dal 1953 al 1956). 

Katowice è relativamente giovane; basti pensare che ricevette il titolo di città soltanto nel 1865, mentre divenne polacca a tutti gli effetti nel 1922. È lecito, quindi, non fare paragoni, altrimenti impietosi, con le altre città polacche (o che lo sono state): Cracovia, città gotica e rinascimentale, Vilna e Leopoli barocche, oppure Varsavia che presenta influssi architettonici dei tempi di Stanislao Augusto. Katowice non è nulla di tutto ciò, bensì una città di impronta industriale. Ma, come alcuni di voi ben sanno, le città industriali a me piacciono molto. Mi piace indagare la loro anima d’acciaio e il loro cuore di mattoni.

In quegli anni la stazione era l’espressione pratica dell’aggettivo “reale” che si aggiungeva, anticipandolo, al sostantivo “socialismo”. La hall era grande, esteticamente cruda, brutale, mentre il pavimento vicino alle bacheche degli orari delle partenze e degli arrivi dei treni era praticamente nascosto da una fila di senzatetto che dormivano, l’uno accanto all’altro, sdraiati sul pavimento, al riparo dal primo freddo autunnale. La stazione non sembrava essere il miglior biglietto da visita della città. D’altra parte era proprio quello che mi aspettavo. Dopo essere uscito dall’edificio percorsi una passerella sopraelevata per pedoni che sfociava su una delle vie principali del centro storico. Di fronte alla stazione si trovavano alcuni eleganti palazzi di fine Ottocento, inizio Novecento, che con le loro decorazioni neobarocche e neorinascimentali narravano dello splendore che la città aveva avuto grazie allo sviluppo delle industrie minerarie e siderurgiche. Volsi lo sguardo in direzione della stazione che ormai si trovava alle mie spalle. Sulla sua sommità campeggiava la scritta a caratteri cubitali “Katowice”. Sembrava essere quasi un monito per chi arrivava. La facciata era costituita da ampie vetrate intervallate da enormi calici in cemento, i quali – insieme a quella passarella oggi per me luogo mitico – sorreggendo armonicamente il soffitto della stazione, rendevano l’edificio davvero unico nel suo genere. Un vero e proprio esempio della corrente architettonica chiamata brutalismo. Ne rimasi davvero impressionato. Sotto la passarella c’era un grande piazzale dove arrivavano automobili, taxi e autobus. Mi sentivo come sospeso nello spazio-tempo.

 Oggi tutto questo è scomparso. Alcuni anni fa, tornato in città, al posto della stazione vi trovai un’enorme cratere con all’interno ruspe e scavatrici al lavoro. La volta successiva, al posto di quell’immenso spazio trovai “Galleria Katowicka”, un trionfo di  pareti in vetro e di modernità. Questo centro commerciale è uno dei tanti nuovi edifici che negli ultimi due decenni hanno cambiato il colore della città: da grigio a blu. Il blu, la nuova albedo di Katowice, che negli ultimi decenni da città industriale si è riconvertita in città di servizi, scrollandosi di dosso quella patina grigia che l’aveva caratterizzata durante il periodo comunista. Il blu irradia, finalmente, nuova luce. 

La stazione, o meglio quel che ne resta, è ora inglobata al centro commerciale. Della vecchia passarella non vi è più traccia. Dissolta, come si è dissolta l’illusione delle repubbliche popolari tenute in piedi con l’utilizzo di muri, filo spinato e carri armati; scomparsa, nonostante le proteste di diversi esperti e storici d’arte che ritenevano la stazione in stile brutalista uno dei più interessanti esempi dell’espressione di tale corrente artistica in Polonia. A ricordo dell’edificio sono rimasti i famosi calici in cemento. La stazione era stata realizzata negli anni Settanta a integrare quella precedente (il cui edificio principale in stile modernismo storico esiste ancora e si trova poco distante), che non riusciva più a soddisfare le esigenze comunicative di una città industriale che si espandeva a vista d’occhio. Ogni volta che passo da quelle parti sento un nodo alla gola. La maggior parte dei polacchi non accetta la mia delusione in proposito. Li capisco: prendersi a cuore un edificio a prima vista artisticamente anonimo, se non turpe, e per di più chiara espressione di un periodo buio durante il quale non esisteva la libertà, non sempre può risultare logico. Cercare un compromesso con un passato fatto di grigiore e sofferenza è sempre complesso.  

Foto: bryła.pl

Alla fine della passarella c’era una scalinata. La percorsi, attraversai le rotaie del tram per poi trovarmi in quella che doveva essere una delle vie dello shopping, via Stawowa. Notai un’aiuola collocata proprio all’inizio della via. Al suo interno vidi una grande rana su una pietra. Solo più tardi venni a sapere che si trattava di un monumento realizzato negli anni Settanta a ricordo degli stagni ancora esistenti, quando, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, la zona era ancora un punto di passaggio tra diverse fabbriche, mentre gli eleganti palazzi dei ricchi industriali ancora non esistevano (via Stawowa significa “via dello stagno”). Oggi, nonostante il trionfo dei centri commerciali, la scultura resta uno dei punti di ritrovo più famosi degli abitanti della città. Un monumento eretto per dimostrare i rapidi cambiamenti imposti dall’uomo nell’arco di pochi decine d’anni. Eppure quella grande rana mi è rimasta nella memoria, forse perché la materia di cui era fatta mi aveva mostrato, seppur solo per un attimo, il suo potere riflettente. Tutte le volte successive che sarei tornato a Kato (così la chiamano amorevolmente i suoi abitanti) avrei sempre fatto un salto in via Stawowa per controllare se il monumento fosse sempre al suo posto. Nel 1998 l’aiuola sarebbe tornata ad essere ciò che era stata all’inizio, ovvero una fontana. Nei riflessi dell’acqua l’albedo avrebbe ripreso di intensità. 

Entrai in un locale. Le sedie erano in metallo cromato, le tovaglie rosa, mentre su ogni tavolo si trovava un portatovaglioli di carta, anch’esso in metallo. Si trattava di un oggetto che negli anni a venire mi avrebbe dato del filo da torcere: ogni volta che avrei provato a estrarre un tovagliolino di carta, sottilissimo, mi sarebbe venuto fuori tutto il set, mentre i polacchi seduti al mio tavolo o a quelli vicini, con un colpo da prestigiatore ne avrebbero estratto sempre e solo uno. Dopo essermi seduto al tavolo ordinai un tè. Il cameriere mi portò un bicchiere in vetro con acqua bollente insieme a un piattino, anch’esso di vetro, con sopra una bustina di tè. Appresi così l’usanza, in voga nei bar di quegli anni, di bere il tè in bicchieri di vetro, a volte infilati in un cestino di ferro, altre volte no.

Terminato il tè, cui seguì un panino, passai ancora una mezz’oretta a scaldarmi prima di tuffarmi nuovamente nella nebbia grigia che, aumentata d’intensità, rendeva ancor più cinematografica l’anima industriale della città slesiana. Uscito nuovamente in via Stawowa, presi via 3 maja. Guardavo verso l’alto, ammirando i dettagli di alcune palazzine dei primi decenni del Novecento che facevano bella mostra di sé in quel centro città dai confini così indefiniti. Mi immaginavo una sorta di competizione tra gli industriali di allora per chi riuscisse a costruire lo stabile dai dettagli più opulenti. Giunsi alla piazza centrale, dall’aspetto anonimo, dominata dal teatro, edificio simbolo di una città che nei primi decenni del Novecento voleva sviluppare anche una propria vita culturale, mentre la lotta tra polacchi e tedeschi (questi ultimi occupavano le posizioni sociali più importanti) si faceva sempre più serrata. La Katowice tra le due guerre è diventata un interessante tema letterario ancora poco studiato. Nel secolo scorso i reportage sulla capitale del carbone polacco (il carbone ha un’albedo molto bassa) non furono teneri. La fuliggine, il fumo, lo sporco, la violenza dell’uomo concretizzatasi nelle fabbriche e nelle miniere, non lasciavano molto spazio ad altre considerazioni. Oggi, un ritratto della Katowice tra le due guerre che le rende un po’ di giustizia ci viene fornito da alcuni scrittori contemporanei del genere giallo. Per esempio, Marek Krajewski (conosciuto anche in Italia per il suo ciclo su Breslavia) in Głowa Minotaura (La testa del Minotauro, 2008), attraverso i suoi detective ci descrive la Katowice negli anni Trenta. Allo scrittore non sfuggono il fervore economico di quegli anni, le caffetterie piene di clienti, il brulicare di persone nelle vie del centro. Katowice non viene descritta come una città peggiore delle altre, è semplicemente diversa. 

Riprendo a narrare il mio percorso nella Katowice dei primi anni Novanta. Dalla piazza centrale mi diressi verso gli ampi spazi che la città offriva. La copertina della mappa che avevo comprato in stazione riportava la fotografia di un monumento in stile modernismo socialista, rappresentante tre ali. Un simbolo della città? Decisi allora di recarmi sul posto. Il monumento si trova sulla sommità di una scalinata ed è costituito proprio da tre ali che rappresentano le tre Sollevazioni Slesiane (Powstania Śląskie) dei polacchi contro i tedeschi. La prima guerra mondiale era finita ed i confini erano ancora incerti. Si dovette ricorrere a un plebiscito. Nella circoscrizione elettorale di Katowice-centro la maggioranza aveva votato a favore della Germania, ma il circondario era invece a maggioranza polacca. Dopo le tre insurrezioni la città entrò a far parte della Polonia. Anche il monumento, risalente alla fine degli anni Settanta, dono di Varsavia, è in stile socialista, ma non è affatto privo di fascino, anzi trasmette un qualcosa di mistico, come mistici sono anche i nomi delle vie circostanti: viale Korfantego (politico e patriota slesiano), viale Roździńskiego (poeta e letterato slesiano), rotonda Ziętka (partecipante alle Sollevazioni Slesiane, generale dell’Esercito Polacco). Nel racconto Kuszenie (Tentazione, pp. 154-161), facente parte dell’opera Historyjki, Jan Józef Szczepański ci descrive così quest’opera d’arte: “Giungemmo al monumento delle Sollevazioni Slesiane, uno dei monumenti polacchi più belli. Le ali da cui colava l’umidità, si illuminavano mestamente nella luce dei lampioni che costeggiavano le vie” (traduzione mia). 

Dietro il monumento intravidi una costruzione che attirò la mia attenzione per la sua forma singolare. Ricordava in modo impressionante un disco volante, di quelli che si vedevano nei film degli anni Ottanta. Si chiama Spodek ed è il palasport di Katowice, altro simbolo della città, il più famoso. Mi trovavo in una città dove i suoi monumenti più rappresentativi avevano meno di trent’anni! Eppure, quando arrivai ebbi l’impressione di trovarmi in una città vecchia, non nel senso dei secoli, di antica, ma nel senso di trascurata. Molte di quelle strutture, fiore all’occhiello del periodo socialista, apparivano allora obsolete e arrugginite. Oggi molte di quelle strutture non ci sono più oppure sono state radicalmente trasformate. Katowice è una fenice: prima con i palazzi degli industriali di quella che nei primi decenni del XX secolo era considerata la terra promessa, poi con il modernismo degli anni tra le due guerre, quando la città fu protagonista di un vertiginoso sviluppo. Infine, durante il comunismo, che ne volle fare un gioiello del settore industriale-minerario. 

Così come la stazione, anche Spodek è stato un simbolo della tentata rinascita, che negli anni della Repubblica Popolare di Polonia aveva proiettato Katowice tra le grandi città polacche. In questo punto, infatti, in precedenza c’era una montagna di scarti delle miniere. Questo è il vantaggio delle città moderne: sono sì meno belle, ma è anche più facile buttare giù e costruire qualcosa di più moderno, cambiandone completamente la struttura, senza troppe proteste. Lo Spodek, così chiamato per la sua forma che ricorda un piattino da tazzina da caffé, al mio arrivo era una costruzione coperta dedicata alle manifestazioni sportive. Dopo la ristrutturazione è diventato anche un’arena per i concerti, polacchi e internazionali. Si tratta di una delle prime costruzioni al mondo realizzate con la tecnica del tensegrity. Gli abitanti ne sono orgogliosi, è il loro simbolo; lo Spodek è nel loro DNA. Per la città questa costruzione assume la stessa importanza del Colosseo a Roma. Fino a pochi anni fa la Slesia era l’impero del carbone, Katowice ne era la capitale, i minatori il suo esercito di legionari. Pensando alle montagne di scorie di carbone (in polacco chiamate Hałdy), fino a pochi decenni prima elemento costante del paesaggio di Katowice e della Slesia, mi vengono in mente le opere cinematografiche del regista slesiano Kazimierz Kutz, che celebrò la sua terra e i minatori in diversi suoi film. Assolutamente da vedere. 

Katowice sarebbe ritornata a essere letteraria in un drammatico momento storico. Durante il periodo della legge marziale ebbe luogo la pacificazione della miniera Wujek (16 dicembre 1981). In questo luogo, entrato poi nella Storia, i minatori si erano ribellati alla dittatura comunista. La luce di Katowice, già resa flebile dalla fuliggine, allora si spense. Ecco, però, che in alcune poesie e romanzi le vie del centro diventarono lo sfondo per il passaggio dell’Esercito e della Milicja che si recavano a pacificare la miniera in mano ai rivoltosi. In una martirologia che unisce cattolicesimo e lotta per la libertà, l’urbanistica della città sembra prendere un’altra forma, diventando più concreta, mostrando i suoi “luoghi del dolore”. Il dolore di Katowice diventerà quello di tutta la Polonia.

Prima di rientrare in stazione per prendere il treno che mi avrebbe portato a Cracovia, mi recai dall’altro lato del centro città, diviso in due dal passaggio della ferrovia. Qui si trova la cosiddetta collina del voivodato, così chiamata per la presenza del Palazzo della Regione, costruito in stile modernista negli anni Venti del Novecento. Mi fermai alcuni minuti nella piazza antistante l’edificio. Lo spazio aveva in quel momento un qualcosa di metafisico. La simbologia del Palazzo della Regione (in passato Parlamento Slesiano), rischiarata da un’ultima esalazione di luce prima del tramonto, mi introdusse alla forte identità regionale dell’Alta Slesia, alla sua singolarità, elemento che avrei avuto modo di conoscere negli anni successivi. Nella Polonia tra le due guerre, quella parte di Slesia che era entrata a far parte dello Stato polacco aveva persino ottenuto una certa autonomia amministrativa. Oggi, parte degli abitanti della regione continua a chiederla, mentre parlare slesiano è motivo di orgoglio. Ma le cose sono cambiate: la forte industrializzazione dell’Alta Slesia ha avuto come logica conseguenza l’arrivo massiccio di persone da altre parti della Polonia. L’identità slesiana è andata in minoranza. Successivamente, con il cambio di sistema, il mondo che ruotava intorno alle miniere – con i rituali dei minatori, il loro stile di vita e i loro quartieri – è andato via via scomparendo. Ed è così che nella letteratura su Katowice del periodo post-comunista troviamo una certa vena nostalgica per il mondo che fu. 

Me ne tornai alla mia amata stazione. Diversi anni dopo sarebbe uscito il romanzo distopico Ciemność płonie, di Jakub Ćwiek (L’oscurità brucia, 2008). Nell’urban fantasy il mondo brucia in un grande incendio, si salva solo la stazione. Ecco che allora emerge il vero ruolo di quest’edificio: di centro celato della città, di labirinto di cemento in cui le vite di migliaia di persone si sfiorano, si intrecciano.

L’albedo quasi minima dei meandri della stazione mi accompagnò in silenzio al binario da cui sarebbe partito il mio treno. La giornata era volta al termine, Cracovia mi stava aspettando. 

 

Luca Palmarini