Mirko Tondi - Brandelli di uno scrittore precario n° 17 - Apologia della forma breve

Mirko Tondi – Brandelli di uno scrittore precario n° 17 – Apologia della forma breve

Una delle questioni sempreverdi in ambito letterario, per quanto sia già stata affrontata ripetutamente e sotto molteplici aspetti, è l’eterna diatriba tra racconto e romanzo. Talvolta pare quasi che le due diverse possibilità non possano neppure coesistere, come se non facessero parte della stessa immensa materia. Si sente spesso dire, infatti, che «No, i racconti non mi appassionano perché non faccio in tempo nemmeno ad affezionarmi ai personaggi» oppure qualcosa di generico come «Avrei voluto saperne di più». Di solito, all’inizio dei miei corsi di livello base, mi capita di chiedere quale sia la familiarità dei partecipanti con i racconti, premettendo che quel particolare corso prevederà soprattutto la lettura di storie di poche pagine (di solito comprese in un arco di lunghezza che va da una a circa una ventina) e l’obiettivo sarà proprio quello di scrivere racconti brevi. Tralasciando quella ridotta porzione di preferenze che va nella direzione del saggio o della poesia, una delle risposte che mi viene data più di frequente è che non vengono letti molti racconti, anzi risulta schiacciante la predilezione per i romanzi. Eccettuate le reminiscenze di lontani anni scolastici, suppongo che sia mancata probabilmente un’educazione letteraia al racconto. Ma potremmo spingerci anche verso un’altra facile spiegazione: il mercato impone una presenza massiccia di romanzi nelle librerie, negli Autogrill, nelle edicole e in qualsiasi altro luogo in cui si vendano libri, per cui viene a mancare proprio una sostanziale proposta al lettore, che non vedendo fisicamente il volume non può conoscerne l’esistenza (stiamo parlando di quel tipo di lettore che magari non consulta inserti settimanali o riviste di settore, ma che acquista il volume un po’ per istinto e un po’ per conoscenza, senza molta curiosità o voglia di lanciarsi in esperimenti “rischiosi”). In biblioteca, invece, venuta meno l’esigenza di commercializzare il prodotto, trovo spesso esposti anche libri di narratori di racconti, che probabilmente – se non fosse stato per qualche recensione letta proprio su quegli inserti e su quelle riviste – non avrei mai scoperto, e mi riferisco ad autori del calibro di Denis Johnson, Nathan Englander, Chris Offutt, Lucia Berlin. Già, le recensioni. Non sempre hanno il coraggio di dire cosa davvero troveremo dentro a un libro. Qualche volta mi sono imbattuto in articoli le cui descrizioni ammantavano di fascino l’opera in oggetto, senza però dichiarare in maniera schietta che si trattasse di una raccolta di racconti, al contrario defininendola “storia” o addirittura proprio “romanzo”, insistendo sull’esposizione di alcuni personaggi o situazioni ma non accennando mai alla sua vera composizione. Giocando un po’ sporco, l’obiettivo in questi casi è dunque quello di non compromettere in partenza le vendite del libro. Difatti le antologie di racconti non reggono il confronto con i cugini romanzi, in termini di incassi; a meno che non si parli di classici autori americani come Salinger, Hemingway o Carver (a tutti gli scrittori di racconti non mancheranno certo nelle proprie librerie i Nove racconti del primo, I quarantanove racconti del secondo eCattedrale o altre raccolte del terzo), oppure autori contemporanei dall’usato garantito – quelli che qualsiasi cosa scrivano avranno successo, perché ormai ultranoti – come Murakami Haruki. Da chi non ha dimestichezza con i racconti, questi vengono considerati un po’ come letteratura di serie b, ed è un peccato enorme, anche perché in Italia abbiamo una tradizione gloriosa, in questo senso: Calvino, Moravia, Sciascia, Buzzati, e decine di altri nomi. Goffredo Parise vinse il premio Strega con i suoi Sillabari (il secondo volume, a essere precisi) nel 1982; in tempi più recenti, uno scrittore di racconti come Paolo Cognetti (autore peraltro del notevole Sofia si veste sempre di nero) deve passare necessariamente alla forma più lunga per ottenere lo stesso riconoscimento (lo ha vinto nel 2017 con il romanzo Le otto montagne). La stagione dei grandi narratori di racconti pare quindi sia stata sacrificata sull’altare del commercio, della vendibilità del prodotto. Che poi, diciamo la verità, mettere sullo stesso piano racconti e romanzi non è nemmeno possibile; come se si potesse stabilire un confronto tra complessità e lo spessore di un’opera rock rispetto a un singolo brano musicale. Al di là di qualsiasi genere si parli.

Ecco, non è un fatto di genere, questo va detto: i racconti rappresentano una differenza in fatto di forma, una forma che – considerate le sue peculiari caratteristiche – non tutti sono in grado di gestire. Difatti, sarà facile imbattersi in alcune interviste nelle quali certi romanzieri si dichiarono del tutto incapaci nel condensare una storia in un numero ristretto di pagine o al contrario narratori di racconti che si definiscono inadatti a strutturare e portare a termine un romanzo. Raymond Carver scriveva solo racconti e poesie, per esempio; diventò padre in giovane età e dovette svolgere lavori umili e faticosi (come l’operaio in una segheria, il custode, il fattorino per una farmacia) per sbarcare il lunario, dunque conciliò lo scarso tempo a disposizione con limitate sessioni di scrittura nelle quali riusciva a portare a termine dei testi brevi ma completi (corretti e ricorretti anche fino a trenta volte, e poi passavano per le mani del suo editor Gordon Lish, che limava ancora e ancora, fino a concepire quello che fu definito “minimalismo”, a sua volta generatore di una lunga schiera di emuli che dura tutt’oggi). Anton Cechov (che era anche medico) non scrisse mai romanzi, ma tantissimi racconti, opere teatrali e un reportage di viaggio di taglio giornalistico, L’isola di Sachalin (una colonia penale nell’estrema Siberia, dove documentò le condizioni dei deportati nei campi di lavoro); Cechov era un maestro della forma breve, creatore di strutture perfette, personaggi con poche ma decisive caratteristiche, che sapeva – passando pure attraverso il non detto, l’implicito, il sottotesto – spaziare da un registro leggero e grottesco (numerosi sono infatti i suoi divertissement, con tono umoristico o persino da parodia, come il racconto Il grasso e il magro) fino a spingersi nel dramma più puro (non risparmia infatti attimi di vera commozione, come nello strepitoso Il violino di Rotschild). Era un artigiano nella composizione di racconti, che scalpellava anche per sei o sette giorni la stessa storia fino a ottenerne un piccolo capolavoro; era talmente ossessionato dalla brevità che arrivò pure a dire “Qualunque cosa legga, mia o di altri, non mi sembra abbastanza breve”. Questi ultimi due autori citati sono l’espressione massima del principio cardine del racconto: la selezione. Tutto passa attraverso quella, poiché si può essere concisi solo se prima si è capito ciò di cui si vuole parlare, e per fare questo si deve fare una scelta consapevole: nel racconto non si può, non si deve dire tutto. Spesso infatti usiamo più parole di quelle che servono per esprimere un concetto (con un’esplosione di aggettivi, di avverbi, di circonlocuzioni), e mai lezione fu più illuminante di quella di John Gardner (romanziere, a sua volta insegnante di Carver), che ebbe a suggerire: “Se puoi dire qualcosa in quindici parole invece che in venti o trenta, allora dillo in quindici parole”. Tra i detrattori di Hemingway ve ne furono alcuni che gli imputarono di scrivere romanzi con poche parole, eppure direi che anche oggi libri come Il vecchio e il mare e Per chi suona la campana non fanno certo sentire la mancanza di un vocabolario più ricco. Leggenda narra poi che l’estroso Ernest accettò una scommessa di dieci dollari secondo la quale avrebbe dovuto scrivere un racconto con solo 6 parole. Se così fosse, avrebbe vinto lo scontro con il celebre racconto in una riga (che di parole ne conta 8) del guatemalteco Augusto Monterroso (peraltro stimato da Mario Vargas Llosa e citato nel suo Lettere a un aspirante romanziere), che fa così: “Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì”.

Dunque nel racconto si avanza per sottrazione, non soltanto per la scelta delle parole, ma anche per la circoscrizione delle tematiche e degli eventi da narrare; di solito, infatti, è meglio concentrarsi su un unico episodio anziché allargare lo spettro di situazioni da prendere in esame. Certamente esistono racconti più lunghi nei quali si dipana tutta una vita, ma la maggior parte di quelli brevi delimita molto il raggio d’azione (per esempio, Sul ghiaccio di Herman Hesse, costruito attorno al ricordo di un amore adolescenziale). Il romanzo invece si muove nella direzione opposta, procedendo per accumulazione. A questo proposito cito la frase eloquente di Flannery O’Connor, altra straordinaria esponente americana in fatto di short stories: “Il romanzo funziona attraverso un’accumulazione di dettagli più lenta del racconto. Il racconto richiede procedimenti più drastici del romanzo, perché bisogna ottenere di più in minor spazio. I particolari devono avere un impatto più immediato. Nella buona narrativa alcuni particolari tenderanno ad accumulare significato dalla storia stessa e, laddove accada, diventano simbolici nella loro azione.” L’azione come strumento indispensabile per far andare avanti le storie, conferire dinamismo e velocità, caratterizzare indirettamente i personaggi. In Flannery O’Connor, come nei già citati Cechov e Hemingway, così come in Kafka, del resto non emergono approfondite indagini psicologiche dei loro protagonisti, né lunghe descrizioni per creare volume, ma quasi tutto si muove grazie alle azioni.

Riguardo alla struttura, che in un romanzo è generalmente più complessa, si potrebbe comunque dire che pure il racconto ne ha una, rispettando il classico schema inizio/sviluppo/fine: l’incipit di solito è incisivo, accattivante; lo sviluppo racchiude la parte centrale, più corposa; la fine si concentra nell’ultima paginetta e di solito deve colpire in maniera rilevante, non per forza in termini di sorpresa, ma comunque creare un effetto abbastanza potente da rimanere. Non tutti i racconti, per fare un esempio, possono avere un finale con il cosiddetto “twist ending”, come nel seminale La sentinella di Fredrick Brown, che ribalta completamente il punto di vista. Ma a sentire autori come Cortázar, un buon racconto deve essere capace di stenderti: “Il romanzo vince sempre ai punti, mentre il racconto deve vincere per KO”. Colgo l’occasione per rimanere un attimo su Cortázar, giacché ha scritto due saggi fondamentali: Alcuni aspetti del racconto e Del racconto breve e dintorni, che si possono trovare entrambi in un libro imprescindibile, il suo Bestiario. Il geniale autore argentino sostiene che una storia breve sia significativa quando riesce ad andare “molto oltre il piccolo e talvolta miserabile aneddoto che racconta” e a questo proposito parla di un avvenimento che agisce sul lettore come una sorta di apertura, una finestra su qualcosa di molto più grande. Che dire poi di Borges – collega altrettanto geniale e compatriota di Cortázar, nonché autore di due raccolte indispensabili come L’Aleph e soprattutto Finzioni –, il quale dopo aver letto Cent’anni di solitudine di Marquez e averlo giudicato un ottimo romanzo, disse anche che secondo lui “cinquant’anni sarebbero stati sufficienti”.

Talento a parte (vedi gli autori di cui ho fatto i nomi finora), la forma breve costituisce per chiunque voglia scrivere una palestra che mette diversi attrezzi a disposizione, un terreno ideale per allenarsi e sperimentare, così come per la ricerca o l’affinamento di un proprio stile personale. Spesso l’attitudine a scrivere racconti concilia con la capacità di riuscire a chiudere una storia entro un determinato periodo di tempo, mentre abbiamo visto come il romanzo richieda tempi dilatati e quindi necessiti indubbiamente della continuità (va da sé che una raccolta si può comporre scrivendo racconti in momenti diversi, anche con pause più o meno lunghe tra l’uno e l’altro; un romanzo no, perché difficilmente si può pensare di concluderlo senza attenersi al famoso dettame tipico dei corsi di scrittura: “prova a scrivere tutti i giorni”). Nessun bisogno di raggiungere la perfezione, ammesso che questa sia raggiungibile; come diceva Giorgio Manganelli proprio a proposito del racconto: “Sua è la gloria dell’imperfezione letteraria”. Un’ultima dritta: inserite pochi personaggi nei vostri racconti, soprattutto se sono molto brevi; e poi leggetevi le 8 regole di Kurt Vonnegut, ci troverete consigli utilissimi come “Inizia il più possibile vicino alla fine”. Ora siete davvero pronti per cominciare. Provate all’inzio con 1800 battute (la lunghezza di una cartella standard, ovvero 30 righe per 60 battute ciascuna) e poi, gradualmente, aumentate fino a circa 10mila o 20mila battute. Trovate la vostra misura, la vostra cifra personale, il vostro metodo. E spargete racconti nelle pagine del web, delle riviste, nelle antologie collettive e in quelle individuali, che ce n’è sempre bisogno. Lunga vita al racconto.

Mirko Tondi