Mirko Tondi – Lavorare sulla struttura (parte quinta)

Mirko Tondi – Lavorare sulla struttura (parte quinta)

Lavorare sulla struttura (Parte Quinta)

Nei precedenti articoli, dialogando su schemi e struttura, abbiamo visto come modificando le definizioni il risultato non sia molto diverso. Che gli elementi siano quattro, cinque o sei, in fondo non ci importa granché. Una storia, agendo ulteriormente per sottrazione, si potrebbe anzi ridurre a tre parti fondamentali: l’inizio, lo sviluppo e la fine. Nel campo delle sceneggiature per il cinema si applica il cosiddetto paradigma di Syd Field[1], con una tradizionale struttura in tre atti, che vi mostro qua sotto:

La struttura in tre atti di Syd Field

Il primo atto è quello dell’impostazione, in cui vengono introdotti i personaggi e il contesto entro il quale si muovono. I punti di svolta (“plot point” o “turning point”, ovvero quegli eventi che, innescando una serie di azioni concatenate, modificano la vita del protagonista incanalandola in una direzione diversa rispetto all’inizio) li troviamo poco prima della fine del primo e del secondo atto. Quest’ultimo – qui definito confronto – presenta quelle che in gergo si chiamano pinze (“pinch”, episodi conflittuali che fanno andare avanti la storia e fanno in modo che l’azione non perda di efficacia) e a metà film abbiamo un vero e proprio punto di non ritorno (“midpoint”), poiché il protagonista – a seguito di ciò che gli è accaduto – è ormai cambiato per sempre. Prima dell’inizio del terzo atto, le cose in genere si complicano a tal punto che pare compromessa per il protagonista la possibilità di farcela. Ma ecco che in un crescendo drammatico (“climax”) il conflitto arriva alla sua risoluzione. Da notare che la lunghezza complessiva del secondo atto, quello centrale, equivale alla somma del primo e del terzo; dunque, ipotizzando (come ci suggerisce Field) che ogni pagina della sceneggiatura corrisponda più o meno a un minuto di girato, se il nostro copione sarà di 120 pagine avremo il seguente schema: 30-60-30 (che equivale a dire, per esempio, su un racconto di otto pagine: due per la presentazione dei personaggi e della situazione, incidente compreso; quattro per lo sviluppo, alla luce di quanto accaduto nella prima parte; le ultime due per il climax, la risoluzione e il finale).

Se vogliamo rimanere sul cinema ancora per qualche attimo (anche perché gli schemi proposti possono essere tranquillamente trasferiti dalla scrittura di un film a quella di un romanzo), non possiamo che citare Il viaggio dell’eroe di Christopher Vogler, altro grande nome tra gli sceneggiatori americani. Ampiamente influenzato dal lavoro di Joseph Campbell, che qualche decennio prima – nel suo L’eroe dai mille volti – aveva analizzato e posto a confronto i miti di diverse culture nel mondo, Vogler teorizza un percorso in 12 tappe a comporre una struttura base nella quale si muovono 7 personaggi-archetipi che incarnano una funzione: l’eroe, il mentore, il guardiano della soglia, il messaggero, il mutaforme, l’ombra e l’imbroglione. Dall’immagine, oltre alla divisione nei canonici tre atti, si potrà osservare come questo percorso si articoli attraverso un saliscendi: qui gli ostacoli successivi sono più difficili da superare rispetto ai precedenti, e la punta massima è toccata ovviamente dal climax.

Lo schema di Christopher Vogler, tratto da “Il viaggio dell’eroe”

Gli schemi, più in generale, possono rivelarsi vantaggiosi perché aiutano a sintetizzare la storia per punti, a concentrarsi solo sugli episodi fondamentali, a visualizzare meglio la storia nel suo insieme e a organizzare la struttura. A questo proposito, dunque, potrà tornare comoda anche la classica scaletta, pure questa largamente usata nel campo del cinema. Di solito la scaletta prende vita in una fase successiva al soggetto e consiste in una sequenza in ordine numerato degli accadimenti principali. Molti film, è vero, si basano su uno schema già rodato e dalla forte impronta commerciale, come quelli in cui si racconta una storia di riscatto personale (per esempio tramite lo sport, alla maniera di Rocky) o, in un percorso inverso, di ascesa e caduta di un personaggio carismatico (uno dei più noti è senz’altro Scarface) o ancora il progressivo avvicinamento tra due parti in principio lontane, qualche volta scavalcando proprio la barriera che divide gli amici dai nemici, reali o presunti che siano (quanto si è dibattuto, quando uscì Avatar, tra le somiglianze a livello di intreccio e tematiche con Pocahontas, L’ultimo samurai e Balla coi lupi? In fondo, sostenevano gli esperti, quelle pellicole raccontavano tutte la medesima storia, ovvero quella dello “straniero in terra straniera”[2]).

È vero anche, però, che non basta conoscere uno schema che funziona per applicarlo a qualsiasi opera e farle ottenere un trionfo al botteghino. Come dice Robert McKee: “Nessuno può insegnare cosa si venderà o meno, cosa sarà un successo o un fiasco, perché nessuno lo sa. I flop di Hollywood vengono realizzati in base agli stessi calcoli commerciali dei film di successo, mentre film piuttosto cupi che il buon senso sconsiglierebbe di realizzare – Gente comune, Turista per caso, Trainspotting – conquistano tranquillamente il pubblico nazionale e internazionale. Non c’è niente di sicuro nella nostra arte.”[3] E con questo abbiamo esaurito lo spazio pure per stavolta; vi rimando al prossimo numero, quando chiuderemo il discorso intrapreso sul tema della struttura.


[1] Celebre sceneggiatore statunitense, conosciuto soprattutto per il suo contributo riguardante manuali tecnici per autori cinematografici.

[2] Definizione in un interessante articolo di Andrea Stella nel sito cinema.everyeye.it.

[3] Citazione tratta proprio da Story.

Mirko Tondi