Mirko Tondi: Ricordati di fare ciò che ti piace (e non ammazzarti di lavoro!)
Dopo aver parlato a lungo della struttura, si è idealmente conclusa una prima parte di materiale che è confluita nel volume omonimo, Brandelli di uno scrittore precario (pubblicato da Edizioni Il Foglio nel 2022, anche se là dentro ci troverete diverse cosette che nella versione online non sono presenti). Nella prefazione del libro, l’editore Gordiano Lupi esortava – con un pizzico di provocazione – gli aspiranti scrittori a “trovarsi un lavoro vero”, mentre nel primo articolo io stesso raccontavo di essermi licenziato da un lavoro a tempo indeterminato perché insoddisfatto e ormai privo di stimoli, nonché per tentare di rendere la scrittura la mia principale fonte di guadagno. Oggi, a distanza di un bel po’ di anni, so che esiste un compromesso tra le due possibilità e vorrei ripartire da lì.
Se vivere di scrittura è un obiettivo ardito, ci si potrebbe porre nell’ottica di cercare un lavoro che restituisca una qualche forma di piacere, o quantomeno che non ci procuri i conati di vomito ogni volta che siamo in procinto di prendere servizio. Mi ha sempre fatto sorridere quella frase di John Gardner, che nel libro Il mestiere dello scrittore suggerisce di “cercarsi un lavoro che lasci abbastanza tempo libero per scrivere; meglio ancora accettare di farsi mantenere”. Se non avete sposato persone che possono sovvenzionare la vostra rischiosa attività grazie a una cospicua fortuna ereditata da chissà chi, allora vi tocca lavorare. Ma ci sono vari livelli, bisogna dirlo. Nel tempo, per quanto mi riguarda, ho cambiato i miei standard e i miei motti personali, passando dall’iniziale “Mi basta lavorare!” a “Vorrei fare un lavoro che mi piace”, poi “Vorrei fare un lavoro che mi piace e magari non morire di fame” fino all’attuale “Lavorare nella giusta misura, guadagnare dignitosamente” (certo, in realtà io lotto per arrivare a una formula migliore, del tipo “Lavorare poco, guadagnare bene”, ma devo ancora riuscirci). Non voglio imbastire l’inflazionato discorsetto del “credere nelle cose che poi tanto si avverano”, perché per ottenere ciò in cui si spera ci vogliono diverse caratteristiche ben combinate tra loro: magari professionalità, determinazione, capacità di coltivare i contatti e saperli utilizzare, intraprendenza e, non ultima, la fortuna (e a volte tutti questi fattori non bastano nemmeno!).
Dico solo che se voi riuscite a trovarvi un lavoro che vi piace fare, e per di più quello vi lascia pure un po’ di tempo libero per portare avanti le vostre passioni, a quel punto siete messi bene. Sarete sempre più sereni di quelli che si lamentano perché non hanno tempo per fare ciò che vogliono, e magari sono stati loro stessi a decidere di aumentare le ore di lavoro, sacrificare le proprie serate o i weekend. Non sto parlando di chi ha estrema necessità di lavorare per far quadrare il bilancio, sto parlando di quelli che compiono questa precisa scelta (o forse non la compiono neanche, non ne sono consapevoli, perché sono talmente abituati a oberarsi di lavoro che poi non distinguono più). Non ammazzatevi di lavoro, vi prego. Al di là di irrinunciabili turni di notte o simili, lavorare dodici o più ore nell’arco di un’intera giornata dovrebbe essere vietato dalla legge (e anche qui non parlo evidentemente di chi, per esempio, è medico ed è impegnato in una delicata operazione sul proprio paziente o è membro di un’organizzazione umanitaria ed è coinvolto nel recupero di migranti in mare). D’accordo, pagate i debiti, le bollette, i mutui e tutto il resto, ma vivete nel frattempo, e non dimenticatevi delle vostre passioni, non lasciatele da parte in nome di un dovere astratto da compiere o dell’accumulo di una ricchezza che va oltre i reali bisogni. Meglio una precarietà che lascia delle aperture alla vita rispetto a un benessere vuoto, solo materiale. Che c’entra tutto questo con la scrittura? Beh, se siete qui è perché vi piace leggere, suppongo; con buone probabilità, scrivete pure. Può essere che la scrittura sia proprio la vostra passione. Ma quanto tempo le dedicate al giorno? È la prima cosa che fate la mattina subito dopo la colazione o riuscite ad aprire quel file solo una volta ogni tanto, quando ve lo ricordate? Ponetevi queste domande. Ma non crediate che la scrittura basti a sé stessa.
Vi racconto questa, che riassume un po’ tutto quello che ci siamo detti finora. Qualche mese fa mi sono trovato ad avere una giornata libera, un venerdì tutto per me; il giorno precedente ero entusiasta, ripetevo tra me e me tutto quello che avrei potuto fare all’indomani: finalmente potevo sedermi al computer con calma e riprendere vecchi progetti che avevo tenuto da parte. La mattina appena sveglio però percepivo una certa ansia e non ero felice come mi aspettavo, e dopo aver accompagnato a scuola i miei figli ed essermi posizionato alla scrivania, non riuscivo proprio a scrivere, mi sentivo confuso. Senza accorgermene, mi sono ritrovato a fare del lavoro per la settimana successiva, che in realtà poteva aspettare. Quando a metà mattinata me ne sono reso conto, mi sono alzato di colpo e mi sono detto che dovevo uscire, basta, in fondo era la mia giornata libera o no? Ho preso la bicicletta e senza averlo programmato sono finito a una mostra fotografica di Elliott Erwitt (bellissima, peraltro). Al ritorno, passando per le vie del centro, l’ansia era svanita e l’umore si era sollevato. Giunto di nuovo a casa, ho mangiato con gusto e dopo mi sono messo a leggere e a scrivere per un paio d’ore, finché alle quattro sono andato a riprendere i figli a scuola. Ora sì che ero davvero felice. Quella bellezza mi aveva nutrito? Sì. Avevo fatto qualcosa che mi piaceva? Decisamente. E il lavoro? Beh, poteva aspettare la settimana successiva. Quando qualche tempo dopo ho avuto un’altra giornata libera, ho bissato andando a vedere una mostra di Escher (notevole, pure quella). Credo insomma di aver imparato a volermi bene. E voi?
Mirko Tondi
Commenti recenti