Patrice Avella – “Historia obsidionis Campillia – Campiglia ferro e fuoco”

Nell’autunno del 1447, quando il re d’Aragona giunse inaspettatamente in Toscana, le preoccupazioni erano forti. In molti centri si agitavano proteste e ribellioni. Firenze era spaventata perché temeva che il Magnanimo potesse percepire il malcontento, trasformandolo in un’arma di conquista. Alfonso V sperava, infatti, che questi castelli si siano arresi senza combattere, come già era accaduto al tempo delle guerre contro Giangaleazzo. Il re aveva deciso di andare prima a Baratti e subito dopo raggiungere Piombino, perché tale strategia gli avrebbe consentito di potenziare l’offensiva e di far arrivare via mare, dalla città tirrenica, vettovaglie, artiglieria e soldati. Sconfiggere sul campo un esercito nemico era molto diverso da doverlo stanare dai bastioni di una fortezza. Per conquistare un territorio non bastava più invaderlo, perché la popolazione si rifugiava dentro le mura del castello dove poteva sopravvivere anche per mesi e il Re d’Aragona non aveva tempo da perdere prima dell’inverno toscano. Nonostante le grandi piogge e il tempo contrario, il re era tenace e ostinato e, incurante di quei disagi, voleva conquistare Campillia per farsi signore di tutta la Maremma, risolvendo così i problemi di approvvigionamento delle truppe prima di espandersi fino a Pisa. Se non fosse stato possibile affamare i difensori al fine di indurli alla resa, il giocoforza era ricorrere alla violenza per espugnare la fortificazione. Il codice di comportamento di battaglia era ben preciso per segnalare il momento ufficiale dell’inizio dell’assedio. Un arciere aragonese doveva scoccare una freccia contro il portone del castello: gli assedianti comunicavano ai difensori che a questo punto entrambe le parti potevano ritirarsi o arrendersi senza perdere l’onore. La comunità della Contea di Campillia era sempre stata composta da gente tosta, orgogliosa, attaccata alle proprie tradizioni, fedele ai signori del piccolo Stato di Piombino, in primis a Donna Paola Colonna e, dopo la sua morte, a Rinaldo Orsini e Caterina Appiani. Il rifiuto campigliese di arrendersi non lasciò altra scelta alle truppe del Re d’Aragona di prepararsi alla battaglia.

Alcune sentinelle avevano avvertito che si stava preparando un attacco verso mare. La Porta Rivellino, rivolta a sud-ovest, era la principale porta d’accesso a Campillia. Si trovava su un terrapieno affacciato in via Vecchia e conduceva tramite una scalinata alla piazza sotto il coro che dava accesso alla chiesa di San Lorenzo.

Il cavaliere ordinò ai trombettieri di suonare il raggruppamento delle sue soldatesche, una compagnia importante di fanti, e incitò i propri uomini con il motto:

«Ciascun s’armi!».

Gli uomini rispondevano:

«Alla morte, alla morte».

Aldobrando risvegliava il loro coraggio facendo riferimento alla crudeltà del re catalano contrapposta alla determinazione nel difendere la loro città. Diceva sempre ai suoi soldati che:

– «Considerate all’aspra crudeltà di quisto Catelano, e l’almo forte vostro, ma a mantener nostra libertà».

L’attacco cominciò con nugoli di frecce scagliate dagli arcieri aragonesi in direzione di un tratto di muro; poi, la truppa con scale e corde cercava di arrampicarsi su un tratto del muro protettivo. Stavano scavalcando con troppa facilità il tratto di mura liberato dai difensori e penetravano nel Rivellino. Il punto debole di ogni fortificazione era naturalmente la porta: perciò spesso si proteggeva con un rivellino, cioè con una piccola fortificazione avanzata che bisognava espugnare prima di avvicinarsi all’ingresso vero e proprio, difeso dal ponte levatoio e da una saracinesca. Quest’ultima consisteva in una pesante griglia di legno rinforzato di ferro che scorreva verticalmente in due scanalature ricavate nel muro. Un argano, situato nella stanza sovrastante l’andito, ne consentiva la manovra. In caso di pericolo, l’argano poteva essere disinserito e la porta calava rapidamente e con violenza. La strategia pensata da Aldobrando era pericolosa ma poteva funzionare. Il Rivellino esterno venne espugnato con sorprendente facilità mentre gli scalatori aragonesi tentavano di oltrepassare il fossato e attraversare il campo verso la saracinesca. Laddove, infatti, per sfondare i portoni bastavano pochi colpi di ariete, per divellere una saracinesca occorreva molto più tempo.

L’attacco finale durante l’assedio di Campillia.

I Catalani incoraggiati da questo primo successo iniziarono un assalto diretto al robusto portone esterno. Superandolo avrebbero potuto conferire un importante punto d’appoggio all’interno del castello. E fu in quel momento che, come per miracolo, i cancelli si aprirono e la saracinesca si levò scorrendo su apposite scanalature di pietra, forse per colpa di traditori o per azione di altri soldati aragonesi. In quel momento della battaglia nessuno della soldataglia poteva ragionare, soprattutto sotto un diluvio di frecce e di grossi massi. Inoltre, la prima ondata era spesso costituita da soldati ubriachi per infondere il coraggio necessario a una morte certa. Questi fecero irruzione in gran numero e con furore attraverso la breccia, finché Aldobrando ordinò ai suoi soldati di calare la saracinesca. In questo modo chi era entrato rimaneva isolato dai compagni e veniva facilmente sopraffatto in una lotta ad armi impari. Grazie ad Aldobrando gli aragonesi si trovavano con le truppe divise in due parti dovendo fronteggiare un sistema difensivo ancor più scoraggiante. Anche se adesso avevano sotto il loro controllo il Rivellino esterno, dovevano superare il fossato e accalcarsi in varie ondate contro le mura, riparandosi dal tiro di frecce scoccate dalle balestre che spuntavano dalle feritoie a croce. I campilliesi stavano facendo una strage tra gli scalatori che cercavano di ottenere un punto d’appoggio sul parapetto. Gli assediati potevano respingere l’attacco uccidendo molti soldati aragonesi nascosti dietro le bertesche, le palizzate in legno costruite lungo i merli. A un certo punto Aldobrando si accorse che l’olio bollente era finito quindi dette l’ordine di gettare dalle mura acqua bollente, pece calda e massi, in una parola tutto quel che poteva servire a fermare il nemico. Il Re d’Aragona si rendeva conto che la vittoria era ormai impossibile, quando un messaggero portò al campo altre notizie disastrose. Un gran numero di soldati delle truppe fiorentine, guidate da Sigismondo Malatesta, stavano marciando verso il castello di Campillia in aiuto degli assediati come reazione all’aggressione alfonsina.

Quello che doveva essere un breve assedio si era trasformato in una lunga resistenza. In tali circostanze, con l’inverno, molti cavalli erano morti per fame ed epidemie, presto trasmesse anche agli uomini dell’esercito. Non era stato per mancanza di coraggio che le forze catalano-aragonesi non erano riuscite a conquistare il castello di Campillia prima dell’assedio al porto di Piombino, ma per mancanza di tempo. Il Magnanimo non aveva più scelta, visto che il tempo stringeva doveva abbandonare l’assedio prima di mettere in pericolo l’intera campagna militare. Doveva evitare che il suo esercito restasse intrappolato tra la truppa di rinforzo e gli assediati all’interno del castello. Con grande rabbia dovette ammettere la sconfitta. Con un ultimo atto provocatorio gli aragonesi abbandonarono il campo la notte successiva in modo che la guarnigione campilliese non si accorgesse della ritirata.

Tratto dal libro di Patrizio Avella,

Il cavaliere e la bella principessa

Storia d’amore medievale a Campiglia- Marittima

Edizioni Il Foglio